martedì 11 dicembre 2018

POPULISMO SENZA QUALITÀ



Il «nuovo» in politica si annuncia spesso vestendo i panni della «barbarie», ma in una democrazia è necessario indossarne al più presto degli altri

Ci sono molti tipi di dittature, molti tipi di monarchie, molti tipi di democrazie. E così ci sono anche molti tipi di populismi. All’Italia di questo inizio secolo ne è capitata una versione particolare: quella di un populismo plebeo e straccione dai toni quasi caricaturali .
Il populismo propriamente detto è una cosa molto seria. E noi italiani dovremmo saperlo meglio di chiunque altro dal momento che le culture politiche del nostro Novecento hanno avuto tutte più o meno un forte contenuto populista.


Per almeno tre ragioni: 1) perché in Italia, non da ultimo per effetto della tradizione cristiana, la presenza del popolo in quanto tale, della sua cultura, dei suoi modi antichissimi nonché delle sua storica miseria, avevano un’incidenza fortissima, spingendo di continuo a immaginarne un radicale riscatto; 2) perché da noi è stata sempre scarsa l’influenza dell’individualismo liberale e della cultura dello Stato di diritto, che sono i veri contrappesi al populismo; 3) e infine perché anche il pensiero democratico, ogni pensiero democratico di qualsiasi tinta, essendo fondato sul principio del potere del popolo, tende inevitabilmente a tingersi in qualche misura di populismo, a esaltare la volontà e i bisogni delle masse come l’alfa e l’omega del processo politico.

In Italia insomma sono stati a loro modo populisti — e in non piccola misura — tanto il socialismo che il fascismo, tanto il popolarismo cattolico che il comunismo gramsciano: tutte culture politiche peculiarmente italiane che, quale più quale meno, non hanno certo avuto una grandissima familiarità con l’individualismo liberale e con lo Stato di diritto. Dov’è allora la differenza rispetto al populismo attuale rappresentato dai 5Stelle? Oltre alla differenza richiamata l’altro giorno proprio su queste colonne da Paolo Franchi — riguardante la definizione stessa di popolo che oggi, dopo i mutamenti intervenuti nell’ultimo mezzo secolo, si presenta assai problematica — ce n’è un’altra egualmente decisiva che emerge immediatamente dal confronto con il passato.

Si tratta del fatto che i movimenti del populismo italiano del Novecento sono stati sempre guidati da autentici gruppi dirigenti, perlopiù di estrazione intellettuale, nei quali cioè erano pochissimi coloro che provenivano realmente dal popolo. Anche per questo si è trattato di gruppi dirigenti — chiamiamole pure élite — in possesso di sufficiente cultura e di sufficiente conoscenza del mondo per essere in grado, al momento necessario, di prendere le opportune distanze dallo stesso popolo, riuscendo a mediare tra l’elemento popolare suddetto e le esigenze, i vincoli e gli interessi, inerenti una visione più generale delle cose e del Paese. In grado insomma di svolgere un ruolo di direzione politica realmente nazionale.

Viceversa ciò che caratterizza il populismo italiano attuale, in particolare quello dei 5Stelle, è la completa assenza di qualunque cosa assomigli a un gruppo dirigente. Nei «grillini» ci sono solo dei «capi» (peraltro non si sa bene scelti come) intorno a un »capintesta» (Di Maio): gli uni e gli altri emanazione di un’ oscura «entità» che risponde al nome di «Casaleggio e Associati» , della quale tutti sono tenuti a conservare la fiducia pena l’ immediata decadenza dai propri incarichi. La stessa cosa vale per i parlamentari, i sindaci, i membri dei consigli elettivi: per tutti la sola cosa che conta è l’investitura dall’ alto e la fedeltà. Non conta niente altro, a cominciare dalle qualità personali: e infatti nessuno è mai stato chiamato a dare qualche prova di sé, a farsi venire qualche idea, a mostrare qualche capacità o competenza.

  Si ha quasi l’impressione, anzi, che tra i 5 Stelle l’eventuale presenza di qualcuna di queste cose sarebbe considerata da chi detiene il potere supremo più un handicap che un punto a favore. In questo senso, insomma, l’intero vertice pentastellato nelle istituzioni si configura davvero come l’espressione dell’ «anti-casta», della massa anonima senza volto e senza qualità, la personificazione assoluta dell’anti-élite: nessuno di loro, infatti, si segnala per la minima conoscenza di qualcosa, per alcuna prova superata di un qualunque tipo, per il minimo sapere o saper fare.

Il risultato si vede. E’ dall’indomani delle elezioni che si sta vedendo. Quando il Paese si è accorto che i 5Stelle, i quali dopo il loro primo grande successo del 2013 avevano avuto ben cinque anni per prepararsi all’appuntamento del governo del Paese, in realtà quei cinque anni li avevano sprecati, e si stavano facendo trovare tragicamente impreparati. Perché è vero che il nuovo in politica si annuncia spesso vestendo i panni della «barbarie»: ma specie in una democrazia è necessario che esso provveda a indossarne al più presto degli altri.

Il guaio è che però nel nostro caso sotto i panni barbari non c’era niente. Non c’era alcuna intelligenza e conoscenza delle cose, alcun progetto fondato, alcuna competenza. Non c’era nulla che assomigliasse a un gruppo dirigente. E da sei mesi va in scena lo spettacolo che sappiamo: ministri e sottosegretari 5Stelle che si fanno trovare impreparati, incapaci di rispondere, che se ne escono con frasi strampalate sparando cifre e informazioni a casaccio; deputati e senatori che dentro e fuori le aule del Parlamento tengono discorsi perlopiù di un livello penoso, una pura chiacchiera politichese in un italiano approssimativo quanto inutilmente gridato; e infine apparizioni televisive che assomigliamo troppo spesso a delle imbarazzanti rappresentazioni del nulla.

La verità è che il demagogico programma elettorale che sei mesi fa ha portato il movimento alla vittoria adesso è diventato un cappio che ogni giorno un po’ di più si sta stringendo inesorabilmente intorno al collo dei «grillini». I quali sono destinati a imparare così a loro spese una regola antica come la storia: e cioè che la rivolta contro le élite sono solo altre élite che possono farla. O almeno provarci.

da il corriere della sera

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