Questo intervento, tratto da www.list, è chiarificatore per comprendere cosa sta avvenendo oggi. L'articolo è lungo ma l'invito a leggerlo è pressante.
Marco Gervasoni
È ricominciata la lotta di classe, ma le
parti non sono più quelle di un tempo.
Marco Gervasoni esplora la "nuova
classe" del 10 per cento.
Ricca, cosmopolita, sempre in jet, si
contrappone alla "classe nazionale" o "periferica".
La collisione tra la "gauche
kérosène" e i gilet gialli in diesel. Storia, libri, immaginario e
conflitto.
WEBLIST - 28 NOVEMBRe
La lotta di classe è
ricominciata e non so come
abbigliarmi. Anche perché le parti in
commedia non sono le più le stesse di un tempo. A rappresentare gli operai è infatti ormai più la destra
nazional-populista che la sinistra, il cui cuore batte ora per i «padroni»,
soprattutto finanzieri e grandi banchieri. Però non è così semplice.
Padroni, operai e via dicendo non rimandano più da tempo a quello che tali
parole significavano nel Novecento.
Il declino o (per i più pessimisti) il crollo
delle classe media, cominciato dopo il 1989 e acceleratosi dopo il 2008, ha
infatti lasciato sul terreno due campi.
Il primo è quello che chiameremo, con Angelo Codevilla (The ruling class, Beaufort
Books, 2010) la country class (classe nazionale) o, con
Christophe Guilluy (La France
périphérique, Flammarion, 2014) la classe periferica, cioè
operai, impiegati, precari, piccoli imprenditori: periferica rispetto ai circuiti della
globalizzazione, di cui subisce solo gli svantaggi, ai centri decisionali
urbani e alla ideologia mainstream.
L’altro campo è quello
della classe dominante nel senso di ruling class, mentre Guilluy la
definisce d’en haute. (Cfr.
il suo Le crépuscule de
la France d’en haute, Flammarion, 2016). Quantitativamente è
costituita da un 10 per cento della
popolazione ma la sua collocazione centrale, nel mondo della globalizzazione,
della finanza, dell’industria hi tech, della grande impresa, della
comunicazione, dei media ne fa un blocco molto solido, assai più omogeneo in
termini ideologici rispetto alla classe periferica.
Nelle ultime
settimane entrambe sono scese in
piazza. Una, per la precisione, in strada, in Francia: i gilet jaunes non
sono infatti che il movimento di avanguardia della classe periferica o country
class. Mentre qualche giorno prima a Torino abbiamo visto sfilare, per la
Tav (progetto peraltro da sostenere) l’avanguardia della classe d’en
haute. Niente di più limitato che vedervi una nuova marcia dei 40 mila. E
niente di più sbagliato che interpretarla come una riscossa della
borghesia.
Ma di quale borghesia si va parlando? La borghesia è finita dopo la Prima guerra mondiale a Davos, non nel centro congressi dei festival della globalizzazione ma nel sanatorio Berghof: dove si svolge la storia della Montagna incantata di Thomas Mann. E a teorizzarne la scomparsa nel romanzo è il gesuita Naphta, che nella vita reale altri non era che il filosofo marxista Gyorgy Lukacs, negli scritti di critica letteraria tutto impegnato a descrivere ascesa e declino della borghesia. Dopo la borghesia e dopo la Seconda guerra mondiale nacque quindi la classe media che progressivamente ma con successo attirò una parte sempre più larga della società. Ma anch’essa, c’est fini.
Ma di quale borghesia si va parlando? La borghesia è finita dopo la Prima guerra mondiale a Davos, non nel centro congressi dei festival della globalizzazione ma nel sanatorio Berghof: dove si svolge la storia della Montagna incantata di Thomas Mann. E a teorizzarne la scomparsa nel romanzo è il gesuita Naphta, che nella vita reale altri non era che il filosofo marxista Gyorgy Lukacs, negli scritti di critica letteraria tutto impegnato a descrivere ascesa e declino della borghesia. Dopo la borghesia e dopo la Seconda guerra mondiale nacque quindi la classe media che progressivamente ma con successo attirò una parte sempre più larga della società. Ma anch’essa, c’est fini.
Dallo spappolamento della classe media ne
sono uscite la classe periferica e quella d’en haute. Di
quest'ultima parleremo ora: e la chiameremo «nuova classe».
Per cercare le
origini della nuova classe
dobbiamo partire dalla diagnosi, fatta in piena Seconda guerra mondiale, di
James Burnham, saggista statunitense allora in uscita dal trotzkismo americano,
che descrive la nascita di una nuova
società, post capitalistica, in cui l’espansione dello Stato e della burocrazia
farà crescere una nuova classe sociale, i manager - che nella traduzione
italiana del suo libro, The managerial
revolution, sarebbero diventati i tecnici: la rivoluzione dei
tecnici.
Spostiamoci di pochi
anni, nel 1957, e nella Jugoslavia titina: qui il dirigente della Lega dei
comunisti, Milovan Gilas, vice di Tito recentemente caduto in disgrazia, nel
suo libro Nova Klasa, subito tradotto in italiano con il titolo La nuova
classe, offre una spietata analisi del modello comunista,
alla base della nascita di una nuova
classe, la burocrazia del partito, che si arricchirebbe sfruttando, in senso
propriamente marxista, i produttori sottomessi.
Sembrano esempi lontani, ma non lo sono più di tanto. Burnham
e Gilas influenzano profondamente quegli studiosi americani che, a partire
dagli anni Novanta del secolo scorso, cominciano a descrivere l’emersione di
una new class. La nuova
classe, affermatasi con la globalizzazione, è cresciuta infatti grazie a un
rapporto molto stretto con le burocrazie e gli apparati: si muove come
un pesce nell’acqua della regolamentazione.
Spesso si tratta della burocrazia dello Stato (la globalizzazione ha infatti
sempre bisogno della forza e del potere dello Stato) ma altrettanto spesso di
quella propria di strutture sovranazionali (Ue, Ocse, Fmi). La
conferma l’abbiamo con la Cina: la classe imprenditoriale li è spuntata, come
Minerva dalla testa di Giove, dalla burocrazia del Partito comunista cinese, da
cui è ancora oggi inseparabile.
Altro che i
Robber barons della gilded age di fine Ottocento, o l’imprenditore
schumpeteriano o quello esaltato dai libertariancome Rothbard, in
lotta contro lo Stato: la nuova classe, come scrive Codevilla in The
ruling class, in modo diretto o indiretto, dipende quasi sempre dal governo federale. Da lì la sua propensione,
negli Usa a votare i Democratici, in Europa a appoggiare i partiti progressisti
o almeno quelli più legati all'espansione del federalismo europeo, cioè di un
super stato ultraregolato. Ma non è solo questo elemento che rende la new
class sostenitrice della gauche kerosène, per dirla con
Jean-Claude Michéa. Lo vedremo.
La migliore lista degli appartenenti a questa new
class l’ha stesa, nel 1995, Christopher Lasch nel suo La ribellione
delle élite: «Brokers,
banchieri, promotori immobiliari, ingegneri, consulenti, sistemisti, analisti,
scienziati, dottori, pubblicitari, editori, giornalisti, creatori di eventi,
registi, intrattenitori, attori, cantanti, produttori televisivi, scrittori,
professori universitari». Il numero potrebbe ridursi o estendersi a
seconda della latitudine: in Europa per esempio nel catalogo andrebbero
inseriti anche i numerosi funzionari medio alti dello Stato e delle varie
agenzie internazionali. In ogni modo, non sembra di scorgervi le madamine di
Torino, o i frequentatori della Leopolde renziane (almeno le prime) e le,
peraltro rare, manifestazioni di En Marche?
Lasch non amava la
definizione new class. Forse perché il sommo Christopher era rimasto legato alla sua nozione
marxista e vedeva questo gruppo troppo eterogeneo per definirlo in tal modo,
preferendogli infatti il termine di nuova élite. Vero però è che occorre
distinguere in questo vastissimo blocco. Ci aiuta, almeno sul versante
statunitense, il sociologo urbano Joel Kotkin (The New class
conflict, Telos press, 2014). Più che nuova classe, lo studioso
preferisce definirla «nuova oligarchia»
, la cui forza dipende essenzialmente
dall’industria del consumo, «media pubblicità e intrattenimento»,
dalla comunicazione e della tecnologia: tutti eredi della società post
materialista descritta negli anni Settanta da Roland Inglehart, negli Usa
concentrati in California (e soprattutto nella Silicon Valley) e a New
York.
I nuovi oligarchi post
materialisti hanno bisogno però di altri gruppi sociali, cooptati nei
loro entourage, ma non fino al punto di renderli uguali a loro. Sono gli
appartenenti al Clerisy, i sacerdoti laici che officiano il nuovo
culto della società mondialista: universitari, operatori dei media,
giornalisti e attori del campo no profit. Questo clero (clercs,
nel senso di Julian Benda) ha il compito di costruire e trasmettere una visione
del mondo che giustifichi, confermi e rafforzi il potere della oligarchia,
attraverso l’ideologia della società aperta, fondata su parole chiave:
progresso, apertura, individualismo.
Un «gentry
liberalism» (liberalismo per agiati)
lo definisce Kotkin, un «progressismo» lo aveva chiamato, ben prima
dell’arrivo di Macron, Michéa (Le Complexe
d'Orphée: la gauche, les gens ordinaires et la religion du progrès,
Climats, 2011). Una progressive
class, scrive Codevilla, legata al culto della competenza e della scienza,
che essa utilizza per distinguersi dal resto della società, mentre non ama
particolarmente la religione, da cui si sente distante, e anche la famiglia
tradizionale, considerate entrambe, fede e tradizione, come macigni rispetto al
libero emanciparsi dell’individuo.
Che meraviglia, si dirà. Rispetto alla classe dominante un
tempo, conservatrice, retriva, codina, legata ai valori tradizionali,
all'autorità persino all’autoritarismo, abbiamo invece ora una nuova classe
amante del cool, bobo, decontracté, aperta,
senza cravatta e persino senza camicia, i cui leader sono vestiti come teen
ager (secondo il perfido
ritratto di Zuckerberg dipinto dal Premio Pulitzer del Wall
Street Journal, Peggy Noonan).
Una new class dedita alla libertà e alla uguaglianza, che
infatti vota i Democratici in Usa, Macron in Francia, il Pd in Italia, la Spd
(sempre meno) e i Verdi in Germania, era entusiasta della terza via nel Regno Unito ma voterebbe persino
Corbyn, anche se con forti mal di pancia. Una new class intenta
ad aprire la società sempre di più, alla libertà e alla uguaglianza, intesa
però, si badi bene, in senso meritocratico.
Uguaglianza ai punti di partenza! Ma chi non ce la dovesse fare, avrebbe
comunque «giustizia» sociale: nessuno sarà lasciato indietro.
Se ritenete questa
immagine realistica e plausibile,
significa che i clercs di cui parla Kotkin hanno lavorato bene
(sono pagati per questo). In realtà, da quando questa new class è
diventata dominante, le società occidentali si sono fatte più diseguali al loro
interno e, dal nostro punto di vista, persino meno libere.
Questa nuova oligarchia
ha espulso dalle città e dai centri urbani quelle che un tempo erano le classi
medie e popolari: e quando non le ha escluse, ha creato a propria protezione
delle cittadelle chiuse, modificando profondamente senso e ruolo millenario
della città, come ci raccontano Kotkin e Guilluy.
Quanto alla
meritocrazia tanto sbandierata, ci spiega Richard Reeves (Dream Hoarders:
How the American Upper Middle Class Is Leaving Everyone Else in the Dust, Brooking
Istintute, 2017) che la new class ha contributo a trasformare
quella americana in una società di classe nel senso europeo: soprattutto dopo essersi impadronita del sistema
educativo. Con le sue condotte individualistiche, sradicata com’è da un
territorio e da un luogo, perché lavora e opera su un piano globale e mondiale,
la nuova classe ha indebolito lo spirito
di comunità e i corpi intermedi, creando quello che in giapponese si
chiama keiretsu, una combinazione di gerarchie intrecciate tra
loro.
Più che alla borghesia, la new class assomiglia
molto di più a una oligarchia controrivoluzionaria che, ritiene Guilluy, disprezza
profondamente il popolo, cioè chi è estraneo ai suoi circoli ristretti.
In luogo di disprezzo, si tratta secondo noi di indifferenza:
indebolita la comunità nazionale, non rimpiazzata da alcun altro tipo di
comunità solidale, la new class non vede proprio i
suoi compatrioti (il sentimento di patria gli è assente), che percepisce assai
più lontani, ad esempio, degli immigrati. I suoi concittadini sfortunati se
la sarebbero cercata, perché non si sarebbero impegnati nella vita, nel lavoro
e negli studi: gli immigrati sarebbero invece gli ultimi, gli sfruttati, gli
umiliati e offesi, da aiutare a ogni costo.
E qui la cosa si
complica. Per questo intreccio di
buon cuore e egoismo, di convinzione di muoversi dalla parte giusta della storia
nel mentre tiene condotte che vanno nella direzione opposta, per la new
class, oltre ad un moralista che punti il dito sulla sua ipocrisia, ci
vorrebbe un buon psichiatra. E infatti le inchieste dei sociologi americani su
alcuni elementi di questa new class rivelano una grande
confusione mentale.
Per Anand Giridharadas (Winners take all. The élite charada of changing the
World, Knopf, 2018) i «vincitori che prendono tutto»
possiedono una concezione della società ultra individualistica che, al
confronto, i romanzi di Ayn Rand sembrano un elogio del collettivismo. La new
class vorrebbe infatti ridurre a zero tutte le funzioni dello Stato, e
soprattuto i suoi servizi, da trasformare in attività di mercato, in business.
E fin qui nulla di inedito. Nuovo è che la new class vorrebbe
che la società si trasformasse in una Market Society totale
perché solo questa via potrebbe veramente fare fronte alle diseguaglianze. I
vincitori infatti si devono far carico di chi è rimasto indietro: secondo
alcuni, come Mattew Bishop e Michael Green, autori del best seller Philantrocapitalist:
how the rich can save the world, attraverso la nuova
filantropia, nuova perché non concepita alla stregua di attività gratuita, come
quella delle dame patronesse della borghesia d’antan, ma perché legata a reti
imprenditoriali: faccio del bene e ci guadagno pure. Secondo altri, invece, un
buon reddito di cittadinanza, cioè il basic income, risolverà
la questione: finanziandolo, beninteso, grazie al taglio di ogni forma di
welfare. Per la new class il liberismo è di sinistra, senza
dubbio.
Un quadro delle ansie e persino della schizofrenia di
questi nuovi oligarchi lo fornisce in modo ancora più puntuale Rachel Sherman (Uneasy Streets: the Anxieties of
Affluence, Princeton University press, 2017). Gli esponenti
della new classsono «impegnati in una lotta competitiva per il
proprio status e per la loro distinzione», assai più delle classi affluenti
americane precedenti, un combattimento per lo status di ceto, quasi in senso
feudale; essi sono felici e orgogliosi dei loro «privilegi» ma al tempo stesso,
sentono di dover agire da «attori morali». Dove la moralità starebbe nel rifuggere il consumo vistoso e ostentato,
e nel votare prevalentemente a sinistra, persino a sinistra della sinistra
(Sanders), pur restando «economicamente conservatori». Dove non c’è più
traccia della vecchia etica calvinista, la nuova classe è assai poco religiosa,
e considera i valori della famiglia tradizionale un orpello del passato.
Gli oligarchi della
società aperta, come scrive il giurista Frank Herbert Buckley (The Republican
Workers Party, Encounter Books, 2018), sono: «Borboni che
credono di essere giacobini. Vivono immersi in un sinistrismo radicale, mentre
pensano e agiscono come una classe patrizia a cui la sinistra del passato si
sarebbe strenuamente opposta: ci spiegano che l’aristocrazia del merito sarebbe
cosa naturale e che essi faranno di tutto per restare in cima al totem».
Cinque
brevi considerazioni politiche:
1) La società
europea è destinata ad
assomigliare sempre più a quella americana: da noi le classi dominanti saranno
sempre più new class; è già ad esempio così in Francia, Regno
Unito, Germania.
2) Problema per i
partiti popolari e conservatori
mainstream: o smettono di essere moderati e conservatori, perché la nuova
classe detesta i valori conservatori, o cercano di ritrovare la radice popolare
(e populista) presente nella tradizione conservatrice, e si alleano con i nazionalisti.
Terza via: spariscono.
3) Problema per i
partiti socialisti: in questa fase di transizione, la new class vota
ancora in parte per loro. Ma il contrasto tra gli interessi
dell’oligarchia del 10 per cento e la sua visione del mondo le fa già
preferire altre formazioni, meno dipendenti dal rapporto con le classi
periferiche, la country class o il peuple central, che
i socialisti si ostinano a pensare di poter rappresentare. Molto meglio per
la new class i verdi, i partiti liberali (quelli però «progressisti»)
e i macronisti.
4) I sovranisti o
nazional populisti hanno potenzialmente davanti a loro la rappresentanza della maggioranza del
paese: la country class. Hanno però contro i clercs (media,
giornali, mondo dello spettacolo e della comunicazione), quello che
Michéa chiama il Partito dei Media e del Denaro, e le varie
tecno-burocrazie, che in Europa pesano assai più che in Usa. Lagauche kerosène adorata
dalla new class è
infatti profondamente minoritaria, ma possiede un forte egemonia nella diffusione
dei simboli, dei miti, delle credenze. Ed è alleata oggettiva con il blocco
di potere della tecno-burocrazia europea e delle sue organizzazioni. Non sono
avversari da poco. Ciò richiede ai nazional-populisti saggezza, sagacia e
prudenza. Richiede loro di provare a penetrare nelle cittadelle della
costruzione della egemonia e di affrontare la tecno-burocrazia europeistica con
una strategia intelligente, con la teoria del partigiano di Carl Schmitt,
invece che con il napoleonico cozzo frontale. Perché la tecno-burocrazia
possiede meno uomini, ma armi più potenti e sofisticate.
5) Quello che a cui
assistiamo è un conflitto tra oligarchia e oclocrazia,
il comando dei privilegiati contro quello della moltitudine. È arché contro crazia:
il potere della prima, secondo il filosofo gesuita polacco Eric Przywara,
appare come sensato, razionale e logico, con le sue leggi intangibili, mentre
quello della seconda è una forzatura, uno strappo, una follia - una «presa di
possesso» in senso schmittiano. Vincerà chi saprà ripristinare il solo governo
naturale e giusto delle comunità politiche, quello misto di Aristotele e di
Tommaso d'Aquino: l’incontro virtuoso tra monarchia, aristocrazia e democrazia,
tra il potere di un capo, quello di una élite e quello della maggioranza
del popolo.
Foto ANSA
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