Il «nuovo» in politica
si annuncia spesso vestendo i panni della «barbarie», ma in una democrazia è
necessario indossarne al più presto degli altri
Ci sono
molti tipi di dittature, molti tipi di monarchie, molti tipi di democrazie. E
così ci sono anche molti tipi di populismi. All’Italia
di questo inizio secolo ne è capitata una versione particolare: quella di un
populismo plebeo e straccione dai toni quasi caricaturali .
Il
populismo propriamente detto è una cosa molto seria. E noi italiani dovremmo saperlo meglio
di chiunque altro dal momento che le culture politiche del nostro Novecento
hanno avuto tutte più o meno un forte contenuto populista.
Per
almeno tre ragioni: 1) perché in Italia, non da
ultimo per effetto della tradizione
cristiana, la presenza del popolo in quanto tale, della sua cultura, dei
suoi modi antichissimi nonché delle sua storica miseria, avevano un’incidenza
fortissima, spingendo di continuo a immaginarne un radicale riscatto; 2) perché
da noi è stata sempre scarsa l’influenza
dell’individualismo liberale e della cultura dello Stato di diritto, che
sono i veri contrappesi al populismo; 3) e infine perché anche il pensiero
democratico, ogni pensiero democratico di qualsiasi tinta, essendo fondato sul
principio del potere del popolo, tende
inevitabilmente a tingersi in qualche misura di populismo, a esaltare la
volontà e i bisogni delle masse come l’alfa e l’omega del processo politico.
In
Italia insomma sono stati a loro modo populisti — e in non piccola misura —
tanto il socialismo che il fascismo, tanto il popolarismo cattolico che il comunismo
gramsciano: tutte culture politiche peculiarmente
italiane che, quale più quale meno, non hanno certo avuto una grandissima
familiarità con l’individualismo liberale e con lo Stato di diritto. Dov’è
allora la differenza rispetto al populismo attuale rappresentato dai 5Stelle?
Oltre alla differenza richiamata l’altro giorno proprio su queste colonne da
Paolo Franchi — riguardante la definizione stessa di popolo che oggi, dopo i
mutamenti intervenuti nell’ultimo mezzo secolo, si presenta assai problematica
— ce n’è un’altra egualmente decisiva che emerge immediatamente dal confronto
con il passato.
Si
tratta del fatto che i movimenti del populismo italiano del Novecento sono
stati sempre guidati da autentici gruppi dirigenti, perlopiù di estrazione intellettuale,
nei quali cioè erano pochissimi coloro che provenivano realmente dal popolo. Anche per questo si è trattato di
gruppi dirigenti — chiamiamole pure élite — in possesso di sufficiente cultura
e di sufficiente conoscenza del mondo per essere in grado, al momento
necessario, di prendere le opportune distanze dallo stesso popolo, riuscendo a
mediare tra l’elemento popolare suddetto e le esigenze, i vincoli e gli
interessi, inerenti una visione più generale delle cose e del Paese. In grado
insomma di svolgere un ruolo di direzione politica realmente nazionale.
Viceversa
ciò che caratterizza il populismo italiano attuale, in particolare quello dei
5Stelle, è la completa assenza di qualunque cosa assomigli a un gruppo
dirigente. Nei «grillini» ci sono solo dei «capi»
(peraltro non si sa bene scelti come) intorno a un »capintesta» (Di Maio): gli
uni e gli altri emanazione di un’ oscura «entità» che risponde al nome di
«Casaleggio e Associati» , della quale tutti sono tenuti a conservare la
fiducia pena l’ immediata decadenza dai propri incarichi. La stessa cosa vale
per i parlamentari, i sindaci, i membri dei consigli elettivi: per tutti la
sola cosa che conta è l’investitura dall’ alto e la fedeltà. Non conta niente
altro, a cominciare dalle qualità personali: e infatti nessuno è mai stato
chiamato a dare qualche prova di sé, a farsi venire qualche idea, a mostrare
qualche capacità o competenza.
Si ha quasi l’impressione, anzi, che tra i 5 Stelle l’eventuale presenza di qualcuna di queste cose sarebbe considerata da chi detiene il potere supremo più un handicap che un punto a favore. In questo senso, insomma, l’intero vertice pentastellato nelle istituzioni si configura davvero come l’espressione dell’ «anti-casta», della massa anonima senza volto e senza qualità, la personificazione assoluta dell’anti-élite: nessuno di loro, infatti, si segnala per la minima conoscenza di qualcosa, per alcuna prova superata di un qualunque tipo, per il minimo sapere o saper fare.
Il
risultato si vede. E’ dall’indomani delle elezioni
che si sta vedendo. Quando il Paese si è accorto che i 5Stelle, i quali dopo il
loro primo grande successo del 2013
avevano avuto ben cinque anni per prepararsi all’appuntamento del governo del
Paese, in realtà quei cinque anni li avevano sprecati, e si stavano facendo
trovare tragicamente impreparati.
Perché è vero che il nuovo in politica si annuncia spesso vestendo i panni
della «barbarie»: ma specie in una democrazia è necessario che esso provveda a
indossarne al più presto degli altri.
Il
guaio è che però nel nostro caso sotto i panni barbari non c’era niente. Non c’era alcuna intelligenza e conoscenza
delle cose, alcun progetto fondato, alcuna competenza. Non
c’era nulla che assomigliasse a un gruppo dirigente. E da sei mesi va in
scena lo spettacolo che sappiamo: ministri e sottosegretari 5Stelle che si
fanno trovare impreparati, incapaci di rispondere, che se ne escono con frasi
strampalate sparando cifre e informazioni a casaccio; deputati e senatori che
dentro e fuori le aule del Parlamento tengono discorsi perlopiù di un livello
penoso, una pura chiacchiera politichese in un italiano approssimativo quanto
inutilmente gridato; e infine apparizioni televisive che assomigliamo troppo
spesso a delle imbarazzanti
rappresentazioni del nulla.
La
verità è che il demagogico programma elettorale che sei mesi fa ha portato il
movimento alla vittoria adesso è diventato un cappio che ogni giorno un po’ di
più si sta stringendo inesorabilmente intorno al collo dei «grillini». I quali sono destinati a imparare
così a loro spese una regola antica come la storia: e cioè che la rivolta
contro le élite sono solo altre élite che possono farla. O almeno provarci.
da il corriere della sera
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