giovedì 29 settembre 2011

VIAGGIO AL TERMINE DEL CARCERE DURO

Una giornata
di ordinaria deportazione
per un accusato
di mafia


Da trecentoventinove giorni, Sandro Monaco, imprenditore, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, è detenuto secondo il regime di carcere duro.

Da trecentoventinove giorni sta scontando una pena senza essere giudicato. Nel frattempo, il carcerato, si passa il tempo viaggiando. D’altronde, che deve fare? Ha già assaggiato, infatti, le prime merendine al carcere di Bicocca, a Catania – da dove è scattata l’operazione Iblis che l’ha visto pesciolino in una retata a lui estranea (a tempo debito si racconterà il come e il perché di un destino impossibile per gli imprenditori come lui) – dopo di che è stato a Parma, ad Ancona, a Floridia (Siracusa), quindi di nuovo Ancona e poi ancora Floridia.

Chi non ci passa non lo può capire che cos’è la galera. In verità neppure chi ci passa dalle carceri lo capisce, di sicuro non lo dimentica e se Sandro Monaco, detenuto da trecentoventinove giorni, si passa il tempo viaggiando da un carcere all’altro, trova il modo di sgranare gli occhi e vorrebbe pure inghiottire pane, pacienza e tempo – così come raccomandano gli incalliti ospiti della nota catena alberghiera dell’Ucciardone – solo che non si capacita come si possa essere ridotti a comparse di un carnaio viaggiante. E sempre buttando tempo, masticando pazienza e cercando pane.

Chi ci passa dalle carceri se ne deve fare tante di tappe e quando un martedì di questo settembre, alle 21 e 30, viene comunicata al detenuto Monaco Giuseppe Sandro Maria la notizia del trasferimento da Ancona per Floridia, viene svegliato alle 5 e 45 dell’indomani, accompagnato alle pratiche di rito e poi fatto accomodare sul blindato dove viene a conoscenza di un fatto nuovo: si farà tutto il tragitto col cellulare e non in aereo. Prevista una sosta notturna al carcere di Vibo Valentia.

Ecco la celletta del blindato. E’ una gabbia i cui lati sono larghi 50 e 75 centimetri. Le pareti sono lastre d’acciaio. Se non si sta seduti dritti, al modo della marionetta, ci si fa molto male come quando ci s’inginocchia su ceci. Naturalmente mancano le cinture di sicurezza e il poggiatesta. Viaggiare dentro questi blindati è una vera roulette russa. Basta un modesto tamponamento che se va bene, ci si spacca la testa in tanti piccoli pezzi e si muore; se va benino ci si rompe l’osso del collo e si muore; se va male, invece, si ricompongono i pezzi e poi si campa.

E si va avanti col viaggio. Il vettovagliamento in dotazione al detenuto consta di: numero uno di pezzo di pane, duro. Numero uno di bottiglia d’acqua. Numero quattro di würstel. Numero uno di mela e numero uno di prugna ma, infine, il dolce: crostatina di albicocche. Da Ancona a Taranto il viaggio procede nel trattenuto rollio del come viene viene ma, per fortuna, all’altezza di Taranto, alle 15 e 15, il blindato si rompe. Dopo un’ora e mezzo arriva il furgone sostitutivo e si riparte. E’ un blindato garantista, questo. Decisamente comodo.

Alle 21 si arriva a Vibo. La cucina è già chiusa e si va a letto digiuni. Dopo un’educata insistenza viene consegnata una bottiglia d’acqua. Nelle celle d’isolamento riservate ai detenuti in transito non c’è cuscino, pazienza, Sandro – che non è un bandito, ma un figlio di mamma – prende la coperta, la piega e la infila sotto la federa. Il risveglio, con il latte, è rallegrato da due piccole susine. Sono state utili per sopperire l’assenza di un cestino da viaggio quando, alle nove e trenta, partendo, il blindato garantista ha fatto un lungo viaggio senza pane e con molte soste: carcere di Palmi, carcere di Reggio, carcere di Messina, carcere di Catania e, infine, alle 18, a Floridia.

E’, questa di Floridia, una tipica galera di come uno s’immagina debba essere la galera. I parenti in visita stazionano fuori dal portone, sotto il sole d’estate, anche fino a cinque ore. Vi entrano e si sottopongono a tutti i controlli. Firmano, consegnano i vestiti puliti, depositano i soldi, si fanno perquisire e devono farsi strappare pure i nastri a braccialetto – sono le zaredde di Santo Vito, segni votivi che si portano al polso. La cintura si può tenere, la zaredda di Santo Vito, no.

“Perché la cintura sì e il braccialetto no?”, chiede Concetta, la sorella arrivata per la visita-parenti. “Questo lo sappiamo noi”, risponde un tipo. Tutto sanno loro. Passa il tempo a tutti quelli che si passano il tempo girando carceri. E nessuno lo può capire. Quest’estate, quando – dopo tutta la trafila e l’attesa – Concetta si sentì chiamare, “Monaco?”, dopo si sentì dire: “E’ stato trasferito”. Per restarsene lì, nel corridoio con la zaredda strappata. Considerando oggi sono trecentotrenta giorni di carcere quelli di Sandro. E di viaggi.

FOGLIO QUOTIDIANO di Pietrangelo Buttafuoco

YOSEF NADARKHANI

Ventiquattr’ore di tempo

per salvare dal cappio

dell’Iran il prete apostata
Dice al Foglio la ong che difende Nadarkhani: “Ogni giorno può essere messo a morte dagli ayatollah”

“Ventiquattr’ore per salvare la vita di Yosef Nadarkhani”, recita un banner sul sito di Christian Solidarity Worldwide, la ong inglese che difende il pastore cristiano condannato a morte in Iran.

Il Washington Post scrive che “c’è ancora tempo per salvargli la vita”, ma anche che l’esecuzione potrebbe scattare nella mattinata di oggi. Il “prete apostata” è in carcere dall’ottobre 2009, inizialmente accusato di aver protestato contro l’obbligo per tutti gli alunni di leggere il Corano, poi sotto processo per “apostasia” e per aver cercato di “evangelizzare i musulmani”. La condanna a morte è del settembre 2010 e lo scorso luglio la corte ha confermato la sentenza. Altre ong dubitano che l’Iran voglia imbastire un simile spettacolo d’odio. Ma al Foglio spiegano gli attivisti di Christian Solidarity Worldwide: “Ieri Nadarkhani era di nuovo in tribunale e si è rifiutato ancora di convertirsi all’islam. Aspettiamo la decisione”. C’è il timore che gli ayatollah possano eseguire la sentenza dopo la legge ratificata dal Parlamento che inasprisce la pena per apostasia.

L’ultimo cristiano giustiziato per legge fu nel 1990, quando venne impiccato Hossein Soodmand (ora suo fratello Ramtin è in carcere per la stessa accusa). Nadarkhani ha respinto la richiesta di “pentimento” avanzata dal giudice del tribunale di Gilan per la terza volta in una settimana. Secondo il giudice, il religioso cristiano ha “antenati islamici” e per questo motivo “deve abiurare la sua fede in Gesù Cristo”. “Pentirsi significa tornare indietro, verso cosa dovrei ritornare? Alla blasfemia in cui ero prima di trovare la fede in Cristo?”, così avrebbe risposto Nadarkhani al giudice. Nadarkhani è un famoso religioso delle “chiese domestiche”, la rete di comunità cristiane più represse dagli ayatollah.

Sono discendenti di musulmani convertiti al cristianesimo durante l’occupazione britannica della Persia. Nel 2011 finora sono stati trecento i cristiani arrestati dal regime. Cristiani “impuri” perché non musulmani, a proposito dei quali Khomeini metteva in guardia gli iraniani con suggerimenti del tipo “non toccate i loro oggetti” e “non mangiate con loro”.

La legge elenca due tipi di apostasia: innata o parentale. Nel primo caso, l’apostata ha genitori musulmani, si dichiara musulmano e da adulto abbandona la fede di origine; nel secondo, l’apostata ha genitori non musulmani, diventa musulmano da adulto e poi abbandona la fede. La legge stabilisce che “la punizione nel caso di apostasia innata è la morte”, mentre “la punizione nel caso parentale è la morte, tuttavia dopo la sentenza finale, per tre giorni il condannato sarà invitato a tornare sulla retta via ed incoraggiato a ritrattare. In caso di rifiuto, la condanna a morte verrà eseguita”.

Secondo la ong Open Doors, che stila la celebre World Watch List, il secondo paese al mondo più pericoloso per i cristiani è l’Iran. Le stime danno un totale di centomila cristiani in Iran: armeni, assiro-caldei cattolici e ortodossi, protestanti, latini e armeno-cattolici. Tanti i pastori assassinati in esecuzioni extragiudiziali. Il primo nel 1979, un anglicano a cui fu tagliata la gola. Nel 1980 fu la volta di Bahram Deghani-Tafti, Hossein Soodman nel 1990, Mehdi Dibaj nel 1994, Haik Hovsepian venne ucciso e sepolto in una fossa comune con un musulmano convertito al cristianesimo e Mohammad Bagheri Yousefi fu trovato impiccato a un albero nel 1996. Da allora migliaia di cristiani sono stati arrestati.
Molti osservatori di vicende iraniane parlano della “fase più oscurantista dei rapporti fra il cristianesimo e la Rivoluzione islamica”, da quando nel 1979 l’ayatollah Khomeini chiese la chiusura immediata delle scuole cattoliche e concesse a tutti i sacerdoti, religiosi e religiose cattolici stranieri, un mese di tempo per lasciare il paese.

E, come allora, molte chiese oggi sono state chiuse, decine di giovani iraniani, gran parte convertiti dall’islam, sono stati torturati così come molti pastori sono finiti sotto sorveglianza. Intanto da Teheran sono arrivati in Vaticano quattro religiosi, membri del Giureconsulto islamico. La visita di cinque giorni è il prosieguo di una politica di avvicinamento all’Iran avviata dalla Segreteria di stato vaticana. Un anno fa il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, venne ospitato a Teheran dal presidente Mahmoud Ahmadinejad. A giugno la Santa Sede ha spedito Edmond Farhat a Teheran per una conferenza “contro il terrorismo”. La nuova visita iraniana in Vaticano non è passata inosservata all’ambasciata d’Israele presso la Santa Sede.

da ILFOGLIO

mercoledì 28 settembre 2011

CATTOLICI, PARTITO O NO?

Non so perché la Cei abbia parlato, so che serve una costituente.
Ci sta?


Sono effettivamente convinto anch’io che, premesso che la chiesa non può fare altro che richiamare la sua visione dell’uomo e del mondo, dunque denunciare rigorosamente il peccato e astenersi dalla politica del peccatore; premesso che, dal punto di vista cattolico è meglio un premier agnostico e grande peccatore, piuttosto che un premier cattolico e senza peccato (e scagli la prima pietra chi lo è) ma che promuove in nome del relativismo l’istituzionalizzazione dei peccati (per esempio: di aborto, di manipolazione della vita, di eutanasia e forme di unioni incompatibili col matrimonio tra un uomo e una donna) eccetera.

Io sinceramente non so perché i Principi della chiesa abbiano sentito il bisogno di intervenire in questo momento contro i comportamenti “tristi” e “vacui” desunti dalle “narrazioni giornalistiche” e naturalmente berlusconiani. So però che, al di là delle ottime intenzioni, il pronunciamento del capo della Cei dà l’impressione di condiscendere e, quindi rappresentare in maniera vicaria, le pressioni della nota lobby che da tempo urge e si straccia le vesti (farisaiche) perché la chiesa cattolica scenda in campo contro il presidente del Consiglio. Avranno le loro ragioni, i vescovi italiani, ma a noi non pare una cosa proprio intelligente, così come ci parve poco lucida la posizione di tanti prelati in merito ai noti referendum del giugno scorso. Comunque sia, credo che prima o poi ci renderemo tutti conto che portare fuoco a una situazione economica e sociale a dir poco incandescente, non aiuta la giustizia ma serve soltanto a caricare di ulteriore drammaticità il già drammatico clima di assedio che si registra intorno al governo e al Parlamento e che certo non aiuta ad affrontare le poche grandi riforme di cui il paese ha bisogno per non scivolare verso la Grecia.

E comunque, volevo condividere con lei questo: direttore e amico, proviamo a metterci modestamente e semplicemente in gioco? Penso questo: il cuore del problema è lo stato italiano, un covo di briganti. E dico agostinianamente briganti non per accusare di alcunché amministratori e servitori dello stato, ma per rilevare che, infine, abbiamo visto in cosa consista la Costituzione italiana: consiste nel fatto (lo dico rozzamente ma credo che a buon intenditore basti e avanzi) che pezzi consistenti dello stato hanno fatto di essa una sorta di “Corano”, di proprietà loro e da imporre in maniera interessata, faziosa e intollerante agli italiani (tant’è che quando il voto democratico non premia i loro stimati e ottimati, gli esiti delle urne vengono regolarmente impugnati e conculcati per via giudiziaria). Insomma, di “Casta” cosiddetta, oggi in Italia ce n’è una sola, e c’è da vent’anni: è la casta della magistratura, di tutte le magistrature, che sono dotate di poteri divenuti in ogni ambito di fatto discrezionali, al di sopra delle leggi, irresponsabili, assoluti e rafforzati presso il popolo dai tirapiedi a mezzo stampa, i quali invece di svolgere con serenità, ironia, equilibrio e senso critico il mestiere giornalistico si sono stesi a tappetino e si esprimono in guisa di sotto-pubblici ministeri e aggiunti di cancelleria fascista.

E allora ecco la questione che va oltre gli attuali assetti e stalli politici: per uscire dallo stato dei briganti bisogna rifondare lo stato e perciò, prima di una nuova classe politica, occorre una nuova Costituzione. Oggi l’Italia è un paese dove una parte tiene sotto schiaffo l’altra, dove le corporazioni statali e funzionariali dello stato si muovono indisturbate e hanno il potere di intimidire e paralizzare ogni iniziativa privata, associata, libera. Non è solo il problema della crisi globale, è la tragedia che in Italia tu non puoi lavorare, non puoi educare, non puoi invitare a casa tua chi vuoi tu e parlare al telefono come vuoi tu e non come ti impone la mafia delle mani pulite. Le faccio un esempio: un industriale di successo e di impresa molto apprezzata dai consumatori non può più nemmeno esprimere un suo libero pensiero, non può scrivere libri, non può più dire quello in cui crede. E’ normale? Sia chiaro, io non voglio che a mia madre sia impedito di avere il libretto di risparmi che ha e che ha depositato presso una Coop della Liguria. Non voglio che alle Coop sia impedito alcunché, compreso il diritto di gestire i risparmi della gente che si fida di Coop e di avere una o dieci banche Coop. Però non posso nemmeno ammettere che ci sia un’Italia di serie A, regioni di serie A, comitati di affari di serie A, interpretazioni della Costituzione di serie A, ordini giornalistici di serie A eccetera. E chi non la pensa come loro è fuori da ogni serie costituzionale, legale, democratica, civile, culturale

Io voglio uno stato finalmente al minimo e una società al massimo, articolata, fondata sulle persone, la cui libera associazione e corpi intermedi possano perseguire la felicità che pare a loro e partecipare alla comunità di destino nazionale portando ognuno il frutto del proprio libero lavoro e libere aspirazioni. Voglio perciò muri alti come grattacieli a impedire la discrezionalità e la pervasività della magistrature e dei burocrati; voglio che lo stato sia federale e articolato secondo autonomie e responsabilità chiare. Voglio magistrature elette, che perseguano i crimini secondo priorità rigorosamente indicate dalla sovranità popolare e dalla pericolosità sociale, separate negli ordini di accusa e di giudizio, ineleggibili in qualunque rappresentanza politica prima che siano trascorsi un certo numero di anni dall’abbandono della carriera inquirente o giudicante. Agostino diceva che lo stato della banda dei briganti è quello che non garantisce la giustizia. Ma la giustizia non è semplicemente la giustizia penale e il suo compito funzionale di perseguire crimini e violazioni delle leggi; la giustizia è inestricabilmente legata alla libertà e attiene al reggimento della cosa pubblica, quindi è di pertinenza somma della Politica. Giustizia, infatti, non è riconoscere la dignità dell’uomo e dare a ciascuno il suo (che presuppone che ci sia qualcuno dotato di autorità superiore che mi concede il diritto di avere qualcosa e di essere uomo). Giustizia è mettere in atto tutto quanto è politicamente, giuridicamente e costituzionalmente necessario per garantire a ciascun eguale, cittadino, uomo, la libertà di perseguire i propri fini nel rispetto di quelli altrui.

Per questo, in sintesi, visto che lei ha saggezza e cervello e passione da vendere, le chiedo: in nome di Dio, ci può offrire una piattaforma e un luogo aperto, aperto a 360 gradi rispetto alle collocazioni politiche, sociali, culturali, giuridiche, dove discutere un programma di riforma fondamentale dello stato, di nuova Costituzione e Costituente intorno ai quali mobilitare forze vive, pensiero, energie italiane? Non le sto proponendo un partito. Le sto proponendo un lavoro. Non mi dica che ha già dato e che alla nostra età siamo pronti alla morte. Mi dica che un uomo libero non si consegna allo stato dei briganti vestiti dell’ennesimo nuovismo dalle mani pulite e piedi prensili. Grazie © - FOGLIO QUOTIDIANO di Luigi Amicone

CACCIA ALL'UOMO

NON RICATTATO MA DEPISTATORE

Secondo il tribunale del Riesame Silvio Berlusconi non è il ricattato, la vittima, nel caso Lavitola e Tarantini, ma il depistatore.


Cambiano ancora le carte in tavole per un'inchiesta che assomiglia a una spregiudicata caccia all'uomo basata su feste private, che non costituiscono reato "Quando la giustizia è “bouffonne”, pagliaccesca, succedono cose strane. La giustizia spia sistematicamente Berlusconi. Lo spia illegalmente, perché lo indica come vittima di un reato, il ricatto, che sarebbe stato compiuto a Roma, ma è Napoli a indagare. I verbali finiscono illegalmente in mano ai giornalisti, e se ne lamenta perfino un giudice pugliese. Poi un giudice per le indagini preliminari stabilisce che, se ci sia un reato come il ricatto, è stato consumato a Roma, ma è Napoli a indagare. I verbali finiscono illegalmente in mano ai giornalisti, e se ne lamenta persino un giudice pugliese. Poi un giudice per le indagini preliminari stabilisce che, se ci sia un reato come il ricatto, è stato consumato a Roma. Un altro giudice, il Riesame, si prende la libertà di riesaminare appunto le carte e di stabilire, un minuto prima della scadenza dei termini, a notte fonda, che il ricatto non c'è, anzi, c'è un depistaggio o una frode processuale tentati da Berlusconi, la vittima di un minuto fa, e questo depistaggio ricade sui ricattatori di ieri, che diventano a questo punto vittime"

 "Altro che trappolone, è una spregiudicata caccia all'uomo fondata su generiche verisimiglianze, tutte dovute all'incresciosa, bastarda circostanza, delle feste private a casa del premier, che non sono un reato ma, trasformate in reato, rendono possibile queste temerarie attenzioni dei pm combattenti contro chi governa il paese. (...) L'immenso scandalo in corso (...) è quello del taglia & cuci dei pm, e dell'incapacità della classe togata di mantenere uno standard civilmente accettabile di imparzialità, di contegno giuridico, di senso della realtà".

"Il capo dello Stato non ha solo chiesto riserbo ai magistrati, in più occasioni, avendone in cambio la sistematica violazione del segreto investigativo. Ha anche detto loro di valutare con serietà gli indizi d'accusa, ricevendone in cambio il taglia & cuci di magistrati che avevano perfino arrestato il rampollo dei precedenti inquilini del Quirinale, Vittorio Emanuele di Savoia, e hanno dovuto proscioglierlo con tante scuse (John Henry Woodcock, facciamo i nomi). Ma forse è ora di dire basta, e provvedere".

(DA IL Foglio, tramite il sito di Tempi)

A CHE SERVE?

A Milano, in uno dei tanti processi a Berlusconi, la Corte ha tagliato 11 testimoni della difesa allo scopo di impedire la prescrizione del processo.
come a dire:" Perchè stiamo a perdere tempo, se la condanna è decisa?"

(Giuliano Cazzola, su Il Foglio)

lunedì 26 settembre 2011

LA VERA CRISI DELLA CHIESA E' UNA CRISI DI FEDE


VIAGGIO IN GERMANIA
sabato 24 settembre

prima della veglia con i giovani, Benedetto XVI ha incontrato a Friburgo in Brisgovia il direttivo del Comitato Centrale dei Cattolici tedeschi.


“Vediamo che nel nostro mondo ricco occidentale [...] tante persone sono carenti dell’esperienza della bontà di Dio. Non trovano alcun punto di contatto con le Chiese istituzionali e le loro strutture tradizionali. Ma perché? Penso che questa sia una domanda sulla quale dobbiamo riflettere molto seriamente. Occuparsi di questa domanda è il compito principale del pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Ma essa, ovviamente, riguarda tutti noi.

Permettetemi di affrontare qui un punto della situazione specifica tedesca. In Germania la Chiesa è organizzata in modo ottimo. Ma, dietro le strutture, vi si trova anche la relativa forza spirituale, la forza della fede in un Dio vivente?
Sinceramente dobbiamo però dire che c’è un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito.

Aggiungo: la vera crisi della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede.

Se non arriveremo ad un vero rinnovamento nella fede, tutta la riforma strutturale resterà inefficace”. (...)
Torniamo alle persone alle quali manca l’esperienza della bontà di Dio. Hanno bisogno di luoghi, dove possano parlare della loro nostalgia interiore. Qui siamo chiamati a cercare nuove vie dell’evangelizzazione. Una di queste vie potrebbe essere costituita dalle piccole comunità, dove si vivono amicizie, che sono approfondite nella frequente adorazione comunitaria di Dio. Qui ci sono persone che raccontano le loro piccole esperienze di fede nel posto di lavoro e nell’ambito della famiglia e dei conoscenti, testimoniando, in tal modo, una nuova vicinanza della Chiesa alla società. A quelle persone appare poi in modo sempre più chiaro che tutti hanno bisogno di questo cibo dell’amore, dell’amicizia concreta l’uno con l’altro e con il Signore. Resta importane il collegamento con la linfa vitale dell’Eucaristia, perché senza Cristo non possiamo far nulla".

Colpisce come sia nell’analisi che nelle indicazioni date da Benedetto XVI non compaia nulla di tutte quelle richieste pratiche che ritornano incessantemente non solo nei pamphlet e nei manifesti dei cattolici “del dissenso” ma anche in talune espressioni dello stesso Comitato Centrale dei Cattolici tedeschi: richieste che vanno dall’abolizione del celibato del clero al sacerdozio femminile all’elezione democratica dei vescovi, credute risolutive di quella “crisi della Chiesa” che invece per papa Joseph Ratzinger non è di organizzazione, ma di fede. (S. Magister)

mercoledì 21 settembre 2011

IL ROGO DEI LIBRI (SOLO SE NEMICI)

Un Tribunale manda «Falce e carrello» al macero.

E tutti tacciono


Ma almeno un gesto, una finta. Una «mossa» tanto per far capire che la censura è una cosa odiosa, gli apostoli della libertà di stampa conculcata, potrebbero pure simularla anche in favore di un nemico.

D'accordo, le Coop non si toccano, venerate come una reliquia sacra e quindi bisognose di robuste esenzioni fiscali, ma per questo il libro del patron dell'Esselunga Bernardo Caprotti, Falce e carrello (Marsilio), deve essere bandito, gettato al macero, bloccato nella pubblicazione, per sentenza di un tribunale che dovrebbe giudicare nel nome del popolo italiano e non in quello dei baroni dei supermercati politicamente corretti?

Niente. Non una protesta, un sussurro, un sospiro. Niente di niente.
Quelli della sacralità dell'articolo 21 della Costituzione: silenzio tombale.
Quelli della compagnia di giro che agita le bandiere viola solo quando le aggrada: muti come disciplinatissimi scolaretti.
In questo non viene solo sanzionato l'autore di un libro che contiene una diffamazione (che infatti, con una sanzione proporzionata, deve pagare una certa somma a chi è stato riconosciuto come diffamato), ma viene intimato di distruggere tutte le copie del libro incriminato. E non si chiede, come sarebbe stato lecito, di emendare le prossime edizioni del libro degli eventuali errori.

No: si chiede che l'intero libro sia messo al rogo.

D'accordo, gentili paladini a singhiozzo delle libertà mortificate, non riguarda voi, i vostri amici e i vostri affari e dunque i principi universali possono attendere. Ma insomma, una semplice parolina per dimostrare che non siete degli ipocriti incalliti, dei bugiardi seriali, potevate pure pronunciarla.

Non dico una manifestazione a Piazza del Popolo con le attrici e i giornalisti Rai martiri, questo è troppo. Ma un comunicatino, una noticina, una protesta piccina piccina, solo per una questione di firma.

Che mondo dimezzato che è questo.
Dove si è garantisti con se stessi e forcaioli con tutti gli altri.
Dove le intercettazioni sono un'imprescindibile esigenza investigativa se ad essere origliato è il nemico, e invece una vergogna barbarica se l'intercettato è un amico.
Dove si piange perché si smarrisce la memoria della Shoah, ma non si trova nulla da eccepire, sull'altare dell'anti-sionismo politicamente corretto, se l'ambasciatore del moderato Abu Mazen all'Onu (mica uno sgherro di Hezbollah o di Hamas) dichiara che il futuro Stato palestinese che forse verrà riconosciuto nei prossimi giorni non potrà tollerare nemmeno l'ombra di un ebreo. Non di un israeliano, beninteso: di un ebreo e basta. Judenfrei , ma nel silenzio internazionale.

Che mondo, dove i tribunali italiani decidono quale libro può uscire e quale no ma la cosa non interessa i difensori della libertà d'opinione. Della propria. Perché quella degli altri non è un argomento sexy. E neanche meritevole, figurarsi, di un frammento di un'indignazione altrimenti generosamente profusa.

Pierluigi Battista
Corriere della sera 19 settembre 2011

lunedì 19 settembre 2011

ADULTI O ADULTERATI

È interessante navigare in internet, anche perché si possono trovare affermazioni come queste.


[…] In un convegno di Agire politicamente, l’on. Rosy Bindi (che qui ricordiamo soprattutto come ex dirigente nazionale dell’AC) ha riassunto in modo ancora più chiaro i termini della nostra questione.


«Non c’è più il dissenso degli anni 70 - ha detto testualmente -, ma c’è un disagio fortissimo, da parte di tutti i cattolici pensanti, che non sono coloro i quali credono che la fede si affermi a colpi di crocifisso da inchiodare sulle pareti degli uffici pubblici o delle aule scolastiche. Occorre però uscire dal disagio, recuperando le fondamenta evangeliche della nostra vita, altrimenti rischiamo di cadere nelle contraddizioni della religione civile, in cui gli atei devoti sono molto più bravi di noi... Occorre dire ai nostri vescovi di riprendere in mano il percorso abbandonato del concilio Vaticano II, di lasciare perdere i “valori non negoziabili” perché in politica bisogna negoziare per raggiungere sintesi migliori e perché quell’ambito spetta ai laici, che non possono subire scomuniche perché si inoltrano nella difficile arte della mediazione». [http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/218/2011-09/01-28/Rassegna%20stampa%201%20settembre%202011.htm#tre]

«Giù la maschera!» – verrebbe da dire – «L’abbiamo fatto!» – sembra essere la risposta.

Come è possibile pensare che ciò che viene definito da Benedetto XVI «valore non negoziabile», attraverso giochi di prestigio mentali, poi debba diventare, secondo una accezione ridotta del pensiero, un «valore negoziabile»?

e mi rifaccio al documento Sacramentum caritatis in cui si passa dalla espressione Principi non negoziabili a quella attuale: «Il culto gradito a Dio, infatti, non è mai atto meramente privato, senza conseguenze sulle nostre relazioni sociali: esso richiede la pubblica testimonianza della propria fede. Ciò vale ovviamente per tutti i battezzati, ma si impone con particolare urgenza nei confronti di coloro che, per la posizione sociale o politica che occupano, devono prendere decisioni a proposito di valori fondamentali, come il rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme.(230) Tali valori non sono negoziabili.» (SC 83)

A dire il vero ho sempre pensato che quando il Papa si esprime, la sua non sia una semplice opinione da mettere accanto alle altre, e tanto meno, da contestare, ma sia principio da cui partire.

Non si dà qui alcuna forma di «cattolicesimo adulto» ma di «cattolicesimo adulterato». Così ci ricorda ancora Benedetto XVI: «Paolo desidera che i cristiani abbiano una fede matura, una “fede adulta”. La parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”».

Alla faccia di Rosy Bindi e di tutti coloro che l’articolista ha citato. Siamo tutti preoccupati delle sorti del nostro mondo, del Paese, dell’umanità: forse se i cattolici (senza distinzioni tra pensanti – Rosy Bindi e la sua cricca? – o no) riprenderanno in mano l’autentica Dottrina sociale cristiana, quella che il Magistero pontificio ha sempre sostenuto, si potrà sperare in un bene per tutti.
Noi di CulturaCattolica.it siamo al servizio della Chiesa così vissuta e pensata.

DON GABRIELE MANGIAROTTI
http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=17&id_n=28506

domenica 18 settembre 2011

LO STERCO GIUDIZIARIO E L'INTERESSE NAZIONALE

IL DOVERE DI AGIRE


LA REGOLA è questa: il leader divenuto, per colpa propria o destino avverso, un rischio per le fortune elettorali dei seguaci, viene scaricato senza tanti complimenti. Il merito storico di aver risorto a nuova vita Gran Bretagna e partito conservatore, non risparmiò a Margharet Thatcher l`umiliazione di venire sfiduciata dal suo stesso gruppo parlamentare. Pianse, ma prese la porta. Del resto, nemmeno la vittoria in guerra risparmiò a Churchill la pronta disfatta elettorale.

Anche i popoli esercitano il diritto all`ingratitudine.

Berlusconi, con minori meriti, non avrebbe motivo di dolersi, se gli si rivoltassero contro gli stessi uomini da lui trainati nelle stanze del potere sulla coda del suo mantello. Un capo è un venditore di speranza; quando si muta in segnacolo di sconfitta la sua sorte è segnata.

Ma c`è modo e modo. Il modo peggiore è quello di inondare di sterco giudiziario il letto destinato ad accogliere un altro leader dopo di lui.
Peggio ancora se l`opposizione si fa scudo dell`attivismo delle toghe per mascherare la propria incapacità di rappresentare un`alternativa credibile e desiderabile.

NON È spintonando via il capo del governo, e proclamando agli occhi del mondo l`indegnità sua e del Paese che si è riconosciuto in lui, che avviene il ricambio in una democrazia.

L`opposizione che ricorre a metodi di stampo golpista rivela di non essere matura per assumere responsabilità di governo, e allunga la vita al nemico.

Benché soffra di una pessima stampa, Berlusconi gode ancora della maggioranza parlamentare ed è autorizzato a considerarsi inamovibile fino al termine della legislatura. Il premier lo ha ribadito ieri sera in una lettera al Foglio, replicando anche agli scetticismi di Bossi sulla scadenza elettorale del 2013.

SOTTO il profilo dell`interesse nazionale, la persistenza di un`anatra zoppa a Palazzo Chigi, in assenza di valide e praticabili soluzioni di ricambio, non è necessariamente una disgrazia. Si constata spesso che proprio quando non hanno più niente da perdere, i politici danno il meglio di sé. Berlusconi fa intendere, per chiari segni, di avere l`intenzione di riscattare con venti mesi di forte impegno riformatore, gli anni del galleggiamento su un mare di guai.

Quel che più conta, gli è data la possibilità di passare dalle intenzioni alle azioni. Adesso che con la manovra sono stati fatti, bene o male, i conti con l`Europa, un fiume di dollari affluisce dalle Banche centrali più doviziose per irrigare i propositi "sviluppisti"dell`Italia e degli altri malconci dell`area dell`Euro.

Propositi che nulla hanno di problematico, perché l`Unione europea li va gridando dai tetti e soprattutto perché tutti conoscono il catalogo delle misure di rilancio della crescita: credito alle imprese, riforma del mercato del lavoro, alienazione del patrimonio pubblico per ridurre il debito, privatizzazioni in funzione delle liberalizzazioni dei servizi e via inventariando. Tutti sanno qual è la cosa giusta, il problema è la strenua opposizione degli interessi che in essa non trovano il proprio tornaconto.

TIPICO il trucco (disgustoso) della perpetuazione, con altro nome di quelle stesse Province di cui è stata annunciata l`abolizione, o il caso delle barricate erette contro il senso comune in difesa dei pensionati più giovani d`Europa.

La Lega Nord, che nella maggioranza ha assunto il ruolo di guardiano dell`harem dei diritti acquisiti, deve rendersi conto che l`esistenza in vita del governo si giustifica con la maggior determinazione riformatrice che può rivendicare rispetto a una sinistra indecisa a tutto. Tolta la determinazione, il governo si condanna a vivacchiare nell`inconcludenza finché scompaia, illacrimato.

Franco Cangini
Ilrestodelcarlino
17 settembre 2011


LE VITE DEGLI ALTRI

RESISTERE
RESISTERE
RESISTERE

Il peccato si combatte e si perdona.

Sono le persecuzioni inumane l’immoralità da estirpare.

A volte, scrive Ludovico Festa su Tempi, per comprendere “il tutto” va focalizzato lo sguardo sul particolare che spiega “il tutto”. E oggi in Italia, se non si parte dal particolare “dell’impazzimento”di settori della magistratura non si coglie il cuore dei problemi che abbiamo di fronta.

Nel film “le vite degli altri” il regime poliziesco comunista sorveglia e perseguita una donna, che si rivela una terribile peccatrice.

Ma questa donna non suscita negli spettatori reazioni di indignazione tipo Famiglia Cristiana, ma quella umana compassione, quella pietà che sola aiuta a far crescere una salda morale.

L’ostracismo va rivolto non ai peccatori, da contrastare, ma anche da perdonare, ma alle persecuzioni inumane: questi sono tra i peccati che vanno solo estirpati!

Gli spettatori solidarizzano con l’agente della Stasi che cerca di sabotare le intercettazioni ordinategli dalle sue “legittime Autorità Giudiziarie”.

Nella DDR l’incubo era la politica predatoria, la giustizia persecutoria, la fine della privacy, il bracconaggio illegale. E da noi che ne pensa il capo supremo della Giustizia Italiana, un tempo così amato nella DDR?

RESISTERE RESISTERE RESISTERE

"Io non mollo,
caro direttore".

Berlusconi scrive al Foglio
17 settembre 2011

Caro direttore, è vero, come Lei scrive, che il mio comportamento, così come descritto dai giornali in questi giorni, appare scandaloso.
Ma il mio comportamento non è stato assolutamente quello che viene descritto ed io Le confermo, come ho già avuto modo di dirLe, che non ho fatto mai nulla di cui io debba vergognarmi. E' invece, per fare un esempio, del tutto inaccettabile e addirittura criminale che persone che sono solo state presenti a mie cene con numerosi invitati siano marchiate a vita come “escort”. Mi dispiace anche, per fare un altro esempio, dei falsi pettegolezzi che sono stati creati grazie ai soliti brogliacci telefonici sulla signora Arcuri, che è stata invece mia ospite inappuntabile in Sardegna e a Palazzo Grazioli.

Non ho affatto intenzione di respingere una richiesta di testimonianza, che è mio interesse rendere, tanto che ho già inviato una dichiarazione scritta ma che ha, così come congegnata, l’aria di un trappolone politico-mediatico-giudiziario. Pretendo però come ogni cittadino che i magistrati rispettino anche loro la legge.

Da tre anni sono sottoposto a un regime di piena e incontrollata sorveglianza il cui evidente scopo è quello di costruirmi addosso l’immagine di ciò che non sono, con deformazioni grottesche delle mie amicizie e del mio modo di vivere il mio privato, che può piacere o non piacere, ma che è personale, riservato e incensurabile. Il problema però è che da tre anni è in atto un mascalzonesco tentativo di trasformare la mia vita privata in un reato. Ed è questo uno scandalo intollerabile da parte di un circuito mediatico e giudiziario completamente impazzito di cui nessuno sembra preoccuparsi e di cui nessuno si scusa.

Questo incommensurabile scandalo non riguarda solo me. Decine, centinaia di persone sono esposte al ludibrio e al linciaggio, senza alcuna remora sia quando si tratti di gente comune o di personalità della vita pubblica e di questioni di bottega domestica sia perfino quando si tratti di vicende che determinano lo status del Paese sulla scena internazionale. Non è mai successo prima.

Nessun uomo di Stato è stato fatto oggetto di una aggressione politica, mediatica, giudiziaria, fisica, patrimoniale e di immagine come quella a cui sono stato sottoposto io. È un trattamento inaccettabile, che si accompagna a una campagna di delegittimazione che punta a scardinare il funzionamento regolare delle istituzioni per interessi fin troppo chiari. La campagna si è intensificata quando ho vinto le elezioni per la terza volta, quando il sistema è stato semplificato e reso più trasparente in senso bipolare, quando si è capito che era alle porte una legislatura aperta alle riforme necessarie alla crescita di questo Paese e alla sua modernizzazione.

Missione difficile per la quale ho cercato di mettere in campo gente nuova, estranea ai vecchi giochi dell’establishment, gente giovane e votata al “fare”. Questa campagna non è mai finita, si è nutrita di attacchi a me, al mio partito, ai miei uomini, ai miei ministri, alla generazione di giovani che ho promosso in politica, e si è sparso su tutti il magma eruttivo dello scandalismo per ridurre in cenere una alta popolarità e una grande speranza. Sfruttando ogni aspetto della mia vita privata e della mia personalità, cercando di colpirmi definitivamente con mezzi diversi da quelli della critica politica e della verifica elettorale.

Lei dice bene: Berlusconi è uno scandalo permanente, perché è scandalosa la pretesa di governare stabilmente un Paese con il mandato degli italiani, è scandaloso che un imprenditore rubi il mestiere a una classe politica fallimentare, è scandalosa la pretesa di fronteggiare la grande crisi mondiale con mezzi e con propositi diversi da quelli tradizionali. Ho presentato il mio governo alle Camere nel 2008 chiedendo uno sforzo comune per la crescita e proponendo una fase nuova e pacificata nella vita nazionale dopo le drammatiche divisioni del passato e l’imbarbarimento del linguaggio e dei metodi politici. Ho cercato di fare il mio dovere e di riunificare il Paese, come con il discorso di Onna il 25 aprile. Ho ammonito tutti, nel gennaio di quest’anno, sulla necessità di arrivare alla primavera-estate, mentre nuove regole e parametri incombevano sul sistema finanziario europeo e mondiale, con la più grande frustata della storia al cavallo dell’economia.

Non tutto quello che in politica si vuole è poi possibile ottenerlo, e non nego anche miei possibili errori.

Ma l’obiettivo di distruggere un uomo politico e una leadership, usando mezzi impropri e di dubbia legalità, come ha fatto e fa il circuito mediatico-giudiziario, costituisce un tentativo che sa di profonda, radicale ingiustizia e che va combattuto per la libertà di ciascuno di noi.

Io non mollo, caro direttore. Per quanto lo spionaggio sistematico e l’accanimento fazioso mi abbiano preso di mira, e con me vogliano arrivare a pregiudicare l’autonomia e la sovranità del Parlamento e del popolo elettore, c’è ancora in questo Paese, in questa Italia che amo e che è stata divisa da una partigianeria senza principi, un’opinione pubblica, un insieme di persone e di gruppi leali allo spirito repubblicano, una maggioranza di italiani che non sono disponibili ad avventure e a nuovi ribaltoni decisi nei salotti, nelle redazioni e in certi ambienti giudiziari.

Il mio appello è a tutte le persone e le forze responsabili, e non deriva da interesse personale. È un appello in nome dei valori di libertà, di autonomia e di indipendenza dell’individuo di fronte allo Stato, un monito che viene raccolto ogni giorno da molti e il cui frutto sarà pronto per il giudizio dei cittadini quando si terranno, nel 2013, le prossime elezioni politiche. Alcuni circoli mediatico-finanziari anglofoni mi hanno giudicato inadatto a governare l’Italia ma gli italiani sono stati di diverso parere, e ho dalla mia, dal tempo in cui entrai in politica, risultati che saranno scritti nei libri di storia.

Saranno ancora una volta gli italiani, e poi gli storici, a dare il loro giudizio su un Paese in cui si fanno centomila e poi altre centomila intercettazioni ancora per devastare attraverso i media il lavoro quotidiano di chi ha avuto l’investitura democratica per guidare l’Italia in questi anni difficili.

 Silvio Berlusconi

venerdì 16 settembre 2011

RIDI PAGLIACCIO E OGNUN T'APPLAUDIRA'




 IL CIRCO CONTINUA CON UNA DANZA MACABRA

L'idea di Benedetto XVI, un uomo la cui mitezza è riconosciuta anche dai critici, trascinato davanti alla Corte penale internazionale per crimini contro l'umanità, come il generale Mladic, è uno scenario che sembrerebbe astruso pure ai militanti dell'anticlericalismo.

Eppure potrebbe rivelarsi un rischio concreto, se sarà accolto il ricorso depositato ieri all'Aia da due associazioni americane di vittime dei preti pedofili. Tocca al procuratore generale della Corte, Luis Moreno Ocampo, decidere nei prossimi mesi se accogliere o respingere il ricorso.

Ma tocca a noi, fin da ora, interrogarci su come i nuovi strumenti del diritto internazionale possano creare imbarazzi politici, mostruosità giuridiche e profonde ingiustizie umane.

La pedofilia è il più odioso dei crimini. Lo dice anche il Cristo del Vangelo secondo Matteo, in un passo evocato più volte proprio da Benedetto XVI: «Piuttosto di scandalizzare un innocente, meglio sarebbe legarsi una macina di mulino al collo e gettarsi nel mare profondo». La richiesta di giustizia, che sale dalle famiglie delle vittime dei preti pedofili in America e non solo, deve trovare una risposta. E la Chiesa stessa in passato non ha fatto tutto il possibile per punire e prevenire, preferendo talora sopire e troncare.

Ma, se c'è un Papa che non si è nascosto nel silenzio e nell'imbarazzo, ma ha denunciato con forza i crimini e l'omertà, quello è papa Ratzinger. La sua «Lettera ai cattolici d'Irlanda» è il documento più coraggioso che il Vaticano abbia prodotto al riguardo nella sua storia. Benedetto XVI non merita proprio di vedersi piombare addosso l'assurda accusa di crimini contro l'umanità.

Al centro della questione, però, non ci sono soltanto la pedofilia e lo status giuridico del Pontefice, unico capo religioso a essere anche capo di Stato.

È il nuovo diritto internazionale a finire in discussione. Il mondo globale ha bisogno anche di codici e tribunali globali. Il diritto di ingerenza è stato rivendicato sia dalle Nazioni Unite sia dalle amministrazioni americane, democratiche e repubblicane. Fu in nome di quel diritto che Bush padre decise l'intervento in Somalia, poi precipitosamente chiuso da Clinton. All'istituzione della Corte dell'Aia si è opposto Bush figlio; che però ha posto la globalizzazione della democrazia alla base delle guerre in Afghanistan e in Iraq.

La questione è aperta, il confine tra tutela dei diritti umani e rispetto della sovranità nazionale è ancora da tracciare. Saranno la storia e gli equilibri geopolitici a farlo. Ma l'idea che il Papa possa essere chiamato in causa per i crimini, per quanto odiosi, dei sacerdoti cattolici e per il silenzio delle gerarchie spalanca scenari che sarebbero rifiutati da qualsiasi governo. In teoria, ogni capo di Stato, anche il Nobel per la pace Obama, potrebbe essere processato all'Aia. Nell'antica Roma si era intuito che il massimo del diritto coincide con il massimo dell'ingiustizia. Oggi il formalismo e l'ideologismo possono creare formidabili danni alla causa della giustizia globale, forgiare argomenti a beneficio dei suoi avversari, e consentire ai veri criminali di agire indisturbati.

di Aldo Cazzullo Tratto da Il Corriere della Sera del 14 settembre 2011

RIFARE I CONTI CON BUSH


RENDERE GIUSTIZIA
A UN GRANDE PRESIDENTE


La storia non testimonia ai processi sommari contro l’ex presidente


Non è certo l’effimera soddisfazione di un applauso nel mezzo della commemorazione che può rendere giustizia a George W. Bush, il presidente più bistrattato della storia recente.

Del resto, attorno a Ground Zero c’erano anche i cartelli che accusavano il suo “regime” di avere orchestrato gli attacchi alle Torri gemelle, grottesca sintesi dei concetti che gli opinionisti salottieri di mezzo mondo hanno sostenuto per otto anni in modo soltanto leggermente più blasé.

E’ la stessa eredità politica e storica lasciata a Barack Obama dai mostrificati Bush e Cheney che reclama un’attenta revisione dei conti da parte della storia. Il Patriot Act, gli interrogatori duri ed efficaci, il carcere speciale di Guantanamo, l’esportazione della democrazia e la militarizzazione dell’intelligence sono alcuni dei pilastri su cui Bush ha costruito un assetto in grado di fronteggiare minacce straordinarie in un tempo straordinario; la copernicana rivoluzione legale, il senso dell’eccezionalità americana, la fondazione anche filosofica di un modus operandi e la costruzione di personaggi inossidabili come il generale David Petraeus, che ora troneggia e droneggia da Langley per conto di un democratico, sono i fatti sonanti con il quale “Dubya” ha spolverato un paese offuscato dalla più titanica delle minacce.

Per questi fatti mezzo mondo lo avrebbe voluto friggere su una sedia elettrica – e qualcuno è tentato anche ora – e per questi stessi fatti, che il suo successore cavalca a briglia sciolta, la storia gli dovrebbe concedere quel tributo sostanziale che nemmeno una standing ovation potrebbe restituire.

Quello che hanno scritto certi giornali è semplicemente falso: Bush non ha rifiutato di celebrare assieme a Obama l’uccisione di Bin Laden per invidia o per timore di dover portare gli omaggi all’odiato successore; al contrario, Bush aspettava in silenzio che una volta raffreddate le passioni, la storia si accorgesse che l’America come l’aveva concepita e realizzata era ancora “the land of the free and the home of the brave”. Compromessi, tentativi e scelte discutibili sono pietre d’inciampo inevitabili, ma la strada tracciata da Bush è dritta e il presidente Obama lo sa bene. Molto meno i suoi tetragoni opinion maker.

Tratto da Il Foglio del 13 settembre 2011

LAPIDAZIONE MEDIATICA




Nel suo editoriale il direttore Minzolini ha usato soltanto parole di buon senso e degne di un paese civile. E` l`ora di fermare la strumentale lapidazione mediatica nei confronti del premier a cui stiamo assistendo da troppi anni.


Chi si indigna per l’editoriale di Minzolini non ha mai visto il TG3, dove c’è la perfetta narrativa televisiva semplificata e binaria: ci sono i buoni (le opposizioni) gli aiutanti (Napolitano - il mentore, il vecchio saggio, l’auctoritas - e l’Europa - il mitologico organismo super partes), e i cattivi (Berlusconi e la Lega), quelli che minacciano l’Italia. Altro che editoriali, quelli di RAI 3: minuti di fiction con trasposizione sintetica della mitologia del viaggio dell’eroe Bersani alla ricerca del tempo perduto, quello di Mosca.

Ah, che nostalgia della DDR ha il TR3, perché allora sì che la verità sarebbe nota e condivisa da tutti. Obbligatoriamente.

lunedì 12 settembre 2011

I BUONISTI DI COMPLEMENTO



Diversi settimanali cattolici,
fra cui quello della mia città, Cesena,
hanno pubblicato un articolo, sponsorizzato dall’agenzia SIR,
("é cambiata la Storia") 
nel quale un economista sostiene alcune tesi frutto di luoghi comuni, di antiamericanismo, e di strabismo desolatamente banale

In particolare sostiene che : Ci prestiamo anche noi a questo rito perché la data è rilevante, ma chiedendoci se davvero quell’evento abbia cambiato la storia”.
Infatti di fronte alle ambizioni internazionali grandiose e temerarie di Bush l’attentato “non cambiò realmente la storia, ne rese solo più rapido lo sviluppo: le intenzioni militari di chi davvero contava nell’amministrazione Bush erano già determinate e l’attentato fu l’occasione per metterle in atto con un consenso altrimenti più difficile da ottenere”.

E poi continua dicendo che le fratture generate da Bush col mondo arabo sono: “in parte recuperate oggi solo dalla rottura col passato operata da Obama” (?)

Questa interpretazione, passata come vera perché avvallata dalla SIR, permette anche di capire da dove nasce l’infezione che mette in giro tutta questa spazzatura nella chiesa italiana.

Propongo tre link per approfondire un giudizio sull’11 settembre

Un testo di Robert Imbelli, dal Blog di sandro Magister http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/09/11/11-settembre-dieci-anni-dopo-come-lanamnesi-della-liturgia/

un articolo di Alain Besancon, tratto dall’Osservatore Romano, (tramite il Miraduro) http://www.miradouro.it/node/53202

e un’analisi molto interessante di Massimo Introvigne, da la Bussola quotidiana del 10 settembre
http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-sei-tesi-per-comprendere-prima-dopo-e-durante-2972.htm

11 SETTEMBRE 10 ANNI DOPO

Attenti a chi festeggia e a chi dice che Al Qaeda è stata sconfitta.

O a chi come Barack Obama incoraggia i Fratelli Musulmani

Per ora si salva solo la costruzione alla forza dell’uomo e della sua libertà che è diventato Ground Zero. Nell’afflusso di inevitabili allarmi della vigilia, nel tripudio di organizzazioni melense e consolatorie dove tutto si annacqua e il nemico non si vede più, manca dolorosamente una bella riflessione su chi ha sfidato, chi ha vinto, chi ha capito e fatto tesoro, chi persevera negli errori e questo decennio lo ha sprecato.

Da «Siamo tutti americani», che fu frase nobile e felice di dieci anni fa, eccoci pronti per le frasi assai meno nobili che si sono affermate nell’arco di dieci anni e che nelle celebrazioni di questi giorni trovano spazio spropositato.

Ne cito alcune: abbiamo creato un decennio di guerra, gli Usa hanno reagito esageratamente, al Qaeda non era potente e pericolosa come l’avevamo immaginata, siamo sull’orlo della bancarotta mondiale per colpa delle guerre, via le nostre truppe dall’Afghanistan, e fin qui siamo alla sottovalutazione anche denigratoria, comunque offensiva di quei poveri morti, poi si arriva alla costruzione complottista del si sono inventati tutto.

Niente di meno vero, è solo grazie a dieci anni di guerra implacabile al terrorismo condotta dall’America con l’aiuto spesso riluttante, spesso parziale dell’Europa, che al Qaeda è strategicamente sconfitta anche se non cancellata, che Osama bin Laden è stato scovato ed eliminato. È grazie alla guerra in Afghanistan, non ancora terminata, e a quella in Iraq, che è finita, e bene.

È soprattutto grazie all’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, etichettato a torto come un reazionario e un minore. In entrambe le guerre sono stati fatti tanti errori, ci sono state troppe vittime, ma è difficile sostenere che ci sia mai stata una guerra senza molti errori e senza troppi morti nella storia dell’umanità. Gli Stati Uniti si sono dotati in tempo record di un valido apparato antiterrorismo, che ha protetto loro ma non solo loro da nuovi e peggiori attacchi; sono state indispensabili misure di sicurezza eccezionali, prima mai conosciute nella terra dei liberi: il Patriot Act, le extraordinary rendition, le detenzioni preventive, il campo prigionia di Guantanamo. Retorica liberal e finta protezione dei diritti umani non cambiano questa realtà, non sarà un caso se, esaurite le chiacchiere della campagna elettorale, Barak Obama non ha cambiato praticamente nulla.

INVETTIVE SOSPETTO INSINUAZIONI: LA CULTURA POLITICA DELL'ESTREMISMO DI SINISTRA

Commemorare l’11 settembre pubblicando balle colossali è una scelta lecita e può anche aumentare le vendite, ma ha il difetto di essere un gioco –oltre che sporco- troppo scoperto e che non fa onore a chi lo pratica.


Pure, l’Espresso oggi pubblica tre Dvd con la supervisione di Giulietto Chiesa che ci raccontano “l’altra verità” su quel dramma.

Che sia un operazione impresentabile lo sa bene anche il settimanale di Carlo De Benedetti che prende subito le distanze dalla sua stessa iniziativa, con una precisazione che lascia esterrefatti: “ L'Espresso', che come dimostra la sua storia è da sempre aperto anche alle opinioni diverse dalle proprie, lo propone come documento certamente di parte, ma su cui discutere per farsi un'idea completa”. Insomma, sono tutte balle ma “teniamo famiglia”, dobbiamo vendere, non abbiamo idee serie e quindi vi proponiamo una sòla con la scusa alla Nanni Moretti di “aprire il dibbbattito”.

Naturalmente non abbiamo potuto esaminare i tre Dvd (escono oggi), ma possiamo ben immaginarci che altri non siano che la collazione di tutte le fantasticherie che Giulietto Chiesa propaga da dieci anni circa il “complotto americano”, con un Pentagono che non è mai stato colpito dal Boeing 747 del volo 77 della American Airlines, con una guerra in Afghanistan motivata dagli oleodotti e quindi complotto e poi complotto e ancora complotto degli yankees.

Una serie di menzogne e di insinuazioni prive dei più elementari riscontri col marchio della più becera e puteolente ideologia antiamericana, assemblata da un personaggio di scarso successo, emarginato da tutte le forze politiche che ha corteggiato per ottenere una candidatura e che alle ultime europee, non a caso, si è presentato (ma è stato trombato) in Lettonia, nella speranza di ottenere i voti della minoranza russa dalle nostalgie sovietiche.

Stessa solfa per il Fatto che domenica ha pubblicato un delirante articolo di Robert Fisk che –in sintesi- sostiene che la responsabilità ultima degli attentati è degli Usa che hanno appoggiato sempre Israele, quando gli attentatori si sono schiantati sulle Twin Towers proprio in difesa dei palestinesi. Fisk, come sa chi ha una conoscenza anche superficiale di al Qaida, è smentito platealmente proprio da Osama bin Laden che ha sempre posto la questione palestinese almeno al nono posto tra i propri obbiettivi. Ma non importa. Così come non ha peso la smentita più chiara ed evidente di tutte le tesi e insinuazioni di Giulietto Chiesa e Robert Fisk. Dopo l’11 settembre al Qaida e il terrorismo islamico hanno colpito in paesi come l’Indonesia (a Bali), l’Arabia Saudita, il Bangladesh, l’India (a Mumbai), il Marocco, la Nigeria e l’Algeria, paesi, contesti, che nulla hanno a che fare con gli Usa e ancora meno con la questione israelo-palestinese.

Chi segue anche da lontano il terrorismo islamico sa che le sue radici sono solo e esclusivamente nel fondamentalismo islamico, che uccide nella logica di una guerra di religione, innanzitutto contro quelli che considera i “falsi musulmani” e poi, solo in seconda battuta, contro i loro alleati occidentali. Basti pensare che sono ben più i musulmani straziati da kamikaze islamici dentro le moschee, mentre pregavano, di quante non siano state le vittime dell’11 settembre.

Ma personaggi come Giulietto Chiesa e Robert Fisk non si occupano né preoccupano della realtà e piacciono all’Espresso e al Fatto proprio. -e solo- perché ripropongono il più basso, stantio e viscerale antiamericanismo che si sia mai visto in Italia e in Europa. Una sottocultura, che vive e sopravvive nei siti Internet più squalificati dell’estremismo di sinistra, che ci viene oggi riproposta con iniziative editoriali che però, in fondo, hanno un pregio. Indicano come ormai a sinistra non vi sia più alcuna capacità di elaborazione, comprensione, analisi del mondo e di un fenomeno complesso come il terrorismo islamico.

Non più cultura politica –anche antiamericana, come era, ma con serietà e sostanza quella del vecchio Pci filosovietico- ma solo invettive, sospetto, insinuazioni

di Carlo Panella
Tratto da Libero del 9 settembre 2011
Tramite il blog di Carlo Panella

sabato 10 settembre 2011

LA RICORRENZA COME MENZOGNA

Le ricorrenze sono pigre, fanno abitudine e circolo vizioso, riscrivono malamente la storia, sono pegno quasi certo di insincerità, sono luce spenta, dolore farlocco, bolsaggine in azione a profitto di chi non ha agito quando era il tempo.

L’11 settembre non fa eccezione. Io detesto le ricorrenze. Questo giornale quel giorno aveva di spalla in prima un articolo su Osama bin Laden, “l’uomo che vuole uccidere gli americani”. Del defunto capo di al Qaida aveva pubblicato qualche tempo prima un raro ritratto impietoso.

Dal 12 settembre al finale surge di Petraeus in Iraq, passando con accanito dolore attraverso le tempeste del pacifismo europeo, del negazionismo complottardo, dell’antisemitismo travestito da antisionismo, dell’odio antiamericano e anticristiano, antioccidentale, nutrito di luoghi comuni islamofili, di cacadubbismi sull’emergenza nel campo del diritto interno americano (Patriot Act, carcere di Guantanamo, interrogatori duri) e del diritto internazionale, abbiamo cercato di fare la nostra parte con razionalità.

L’11 settembre non fu soltanto una tragedia umanitaria, morte e distruzione nell’attentato più grande e più infame nella storia dell’umanità, fu sopra tutto un atto di guerra, la delineazione di un campo in cui amico e nemico dovevano amarsi e distruggersi.

La ricorrenza è per quelli che la loro parte non l’hanno voluta fare, per chi oggi infioretta la chiacchiera su un decennale vissuto, intellettualmente ed emotivamente, senza pagare alcun prezzo, mantenendo sempre salda la propria convinzione irenista, la capacità di attraversare il guado senza bagnarsi il fondo dei calzoni.

E’, la Ricorrenza, il grande momento delle lettere maiuscole, delle iperboli insensate che suonano bene, delle interpretazioni ipermoderne, un modo di trattare la cosa (o meglio la sua manipolazione) in tutto simile al cinquantennale della produzione della Cinquecento, alle stagioni della moda, ai centenari del patriottismo spento, folcloristico, invivibile per esseri umani che abbiano un senso non abusivo del concetto di dignità dell’esistere.

Siamo tutti americani, e non era vero. Tutti ebrei, e non era vero. Tutti cristiani, e non era vero. Niente sarà più come prima, e non era vero. Ci battiamo contro l’oppressione califfale delle donne, e non era vero.

Vero era invece il disprezzo verso i figli poveri e combattenti dell’impero americano, degli inglesi, degli italiani, dei polacchi, degli australiani, dei danesi, dei giapponesi, che morivano a centinaia, poi a migliaia, nella guerra al terrorismo. I Ricorrenti di oggi sono gli stessi che spiegavano come una banale operazione di polizia internazionale sarebbe stata la scelta giusta, altro che smantellamento del sistema talebano in Afghanistan, altro che attacco strategico alla Baghdad di Saddam Hussein.

Ma non era vero nemmeno quello, perché la detenzione dei combattenti illegali nella base americana fu scandalo ideologico, le operazioni speciali contro i capi e i fiancheggiatori del terrorismo internazionale furono additate come cedimento illiberale, crimine contro l’umanità le vittime civili dei bombardamenti bellici; e ancora adesso il sociologo più vuoto e ciarliero del mondo, quello Zygmunt Bauman coccolato dalle mezze calze universali e dai giornali dei preti, si permette di paragonare la barriera difensiva israeliana contro il terrore al ghetto di Varsavia.

I Ricorrenti e magniloquenti di adesso sono quelli che il 10 novembre 2001 a piazza del Popolo non c’erano, quelli che non c’erano alla giornata per Israele, convocata per tutelare il diritto di difesa esercitato da Ariel Sharon, quelli che muovevano un baffo moscio quando manifestavamo davanti all’ambasciata della Repubblica islamica d’Iran perché Mahmoud Ahmadinejad proclamava la necessità di cancellare l’unica democrazia del medio oriente dalla cartina geografica. La Ricorrenza è il modo di imbruttirsi ora delle anime belle di allora.

La retorica della memoria, sempre “condivisa” per carità, è una delle brutture culturali del nostro tempo. La memoria ha un senso quando si esercita nella responsabilità, non quando serve a cancellare le tracce e a illuminare il cammino di una fredda luce artificiale, di un neon opalescente che ammazza i chiaroscuri, che liquida le verità del tempo perduto alla cui ricerca ci si dedica con sentimentalismo, senza realismo, senza quel sentimento tragico della vita la cui scomparsa è il segno più chiaro della stanchezza dell’occidente.

Dimenticate l’11 settembre, voi che in quelle abluzioni rituali, in quegli addestramenti al volo capaci di bucare la sicurezza e la democrazia americana, in quell’omicidio di massa kamikaze, ma di civili e a tradimento, e dunque senza onore, avete visto un’occasione per continuare come prima. Voi che avete lordato l’eroismo politico di Bush, Cheney, Rumsfeld e Petraeus con l’accusa di scambiare oil for blood, quando l’unica guerra per il petrolio è la sconcia rissa tribale di Libia, una rissa francese e di sinistra per contratti più vantaggiosi in un’area di influenza contesa dalle potenze postcoloniali. Me lo ricordo l’ambasciatore di Sua Maestà Britannica, un paese che la sua parte l’ha fatta ma non nelle legazioni all’estero, quando diceva che Dubya era il maggior reclutatore del terrorismo, e pretendeva che il direttore di questo giornale lo raggiungesse a un party in ambasciata, ricevendo la risposta che meritava. Me li ricordo tutti, i Ricorrenti di oggi. E non voglio passare l’11 settembre in loro compagnia.

G.Ferrara il foglio 6 settembre

ADDIO, CARDINALE

Tettamanzi va,
il suo sottotono resta.



 Pastore mite e rispettabile, ma i risultati sono lentezza e afonia


Con un pontificale di “semplice ma importante saluto e ringraziamento” con maxischermo in Piazza Duomo, il cardinale Dionigi Tettamanzi ha salutato ieri la sua amata diocesi di Milano.

Arrivò nel 2002, nel mezzo dei trambusti post giottini e delle guerre di civiltà, scegliendo per sé il linguaggio afono e un po’ malmostoso del moralismo sociale e del pietismo ecclesiale; se ne va ora dicendo che “gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla”.

Il suo lascito ideale alla chiesa ambrosiana sta soprattutto nella creazione del Fondo di solidarietà famiglia-lavoro, lanciato nel gelido Natale di crisi 2008.
Non c’è niente di male, per carità, nella sua professione di chiesa pastorale, mite e attenta a non prendere di petto le questioni cruciali. Per quanto, mentre il secolarismo prova a sventrare la barca di Pietro e i musulmani invadono il sagrato, non sia esattamente questa la lingua ecclesiale, o anche solo l’estetica, preferita da questo giornale. Ma gli arcivescovi agiscono, è ovvio, in libertà.

Però, mentre Tettamanzi dà l’addio, la “sua” chiesa rimane tale e quale, col suo principio di afasia. In questi giorni di crisi e disorientamento, la sua voce s’è fatta sentire solo con qualche strillo all’immoralità degli evasori fiscali, con qualche lamentela di troppo, con qualche buonismo degno dei film lampedusani di Ermanno Olmi. Ma Olmi non è la chiesa. E’ in corso il Congresso eucaristico ad Ancona, appuntamento importante la cui eco però giunge come affievolita alle orecchie del mondo laico, che non ha l’obbligo di ascoltare sermoni o leggere piani pastorali, ma forse parole importanti sui temi importanti le ascolterebbe pure. E invece si sentono solo voci che rimbalzano sul terreno noto. Suor Giuliana Galli, la religiosa che siede nel cda San Paolo invita a “vestirci di sacco” e chiede “un messia con la minuscola, laico”.

I tempi di reazione, la capacità di prendere il proprio posto nella scena pubblica, tutto è assai lento. Si discerne con sobrietà, come dice don Dionigi, ma si arriva sempre un po’ tardi, e laterali. Tranne quando c’è da moraleggiare fuori proposito, e allora sono degni di Usain Bolt i tempi di reazione della “suora di frontiera” Rita Giaretta, che si sente “offesa come cittadina e come consacrata” per una barzelletta, per altro di sapore clericale, del ministro Sacconi.

Si parla molto di cattolici in politica, ma è alla chiesa che servirebbe una voce più squillante

11 SETTEMBRE: LA RABBIA E L'ORGOGLIO

Cara Oriana, eri atea ma difendevi il battesimo dell'Occidente

Renato Farina venerdì 9 settembre 2011
ilsussidiarionet

Dieci-anni-dopo l'11 settembre c'è anche il dieci-anni-dopo “La rabbia e l'orgoglio” di Oriana Fallaci. Che cosa ne resta dell'assalto di Al Qaeda?

É stato scritto che la nostra vita non sarebbe più stata come prima, ed è vero. Ma purtroppo abbiamo dimenticato la sorgente di questa differenza, delle code estenuanti ai controlli negli aeroporti, della guerra contro il terrorismo in Afghanistan; le immagini degli aerei che si schiantano sulle Torri Gemelle non suscitano emozione, non contengono più la tragedia che esplodeva anche nel nostro cuore.

“La rabbia e l'orgoglio” nacque così: una grande scrittrice (lei vorrebbe si dicesse “uno scrittore”) che si lascia ferire da troppo dolore, dalle persone che come formiche impazzite saltano dall'alto dei grattacieli, l'odore della morte, la volontà di annientarci da parte di un nemico che sputa in faccia alla vita propria e altrui, e che impugna il Corano come un il codice dell'orrore e della sottomissione dell'Occidente “crociato ed ebreo” all'Islam.

Oriana Fallaci in quel momento diede voce forte a quello che serpeggiava nelle coscienze di tanti: e cioè che l'Islam era orribile e pericoloso, ma che anche noi occidentali e specialmente noi italiani facevamo schifo per la nostra debolezza, per aver buttato via qualsiasi ideale per cui si potesse accettare di dare la vita fino a morire.
Oriana Fallaci esaltò il patriottismo americano contrapponendolo all'apatia dei politici e degli intellettuali italiani. Detta così, però, non rende l'idea.

Lo confesso: mi esaltai dinanzi a quella prosa potentissima. La bellezza di quelle pagine che ci sbattevano addosso come onde impetuose ma profumate lavando via il conformismo multiculturale, valeva di più di mille analisi di filosofi e sociologi. C'era rabbia e c'era orgoglio.

Ma a me commosse di più l'amore per quella cosa invisibile ma che batte nel petto e ci fa tremare e che è il sentimento dell'essere figli di una tradizione cristiana, e che questa tradizione o è attuale e diventa metro della politica oppure è una mummia infetta. Oriana Fallaci, atea, si professò cristiana. Non alla maniera degli atei devoti, che escludono la fede e del cristianesimo si impossessano dei valori. Lei era un'atea neanche un po' devota, ma innamorata del cristianesimo.

Non il cristianesimo astratto e dottrinario, ma quello espresso dal suono delle campane. Scrive proprio di suono delle campane. Lei cercava di ritrovare questa armonia insieme incantevole e infrangibile trasfusa in persone vive, che credessero al suo posto, per farle proprio un piacere, in Dio e in Gesù Cristo Figlio di Dio, perché lei proprio non poteva. Mi ricordo come fosse adesso l'incontro in cui mi chiese di fare di tutto perché potesse vedere e parlare con l'allora cardinale Ratzinger. Nacque in quei giorni anche la sua amicizia profonda con il vescovo Rino Fisichella.

Io penso resti, prezioso come oro dopo dieci anni, e debba essere conservato per sempre questo, de “La rabbia e l'orgoglio”: il desiderio che l'Occidente riscopra il suo battesimo. L'Occidente inteso come me e te, come noi. Un battesimo di fuoco e vento. Non un'acquerugiola. Questo desiderio possente di essere noi stessi, di possedere anzi di essere posseduti da un'identità di cui essere orgogliosi...

E invece proprio questo del libro di Oriana è stato nel frattempo smarrito. L'identità si è trasformata in una etichetta per prodotti tipici. Oppure in un martello da picchiare in testa al prossimo. Invece io imparai da lei che l'identità è il nostro nome pronunciato da chi ci ama. Lei accettò questa mia interpretazione del suo scritto. Le piaceva che pensassi così. Ma lei proprio non poteva accettare di rinunciare all'odio. Odio profondo per l'Islam. Riteneva l'Islam un unico blocco di violenza e disumanità.

Non c'era per lei un islam moderato e uno radicale. Era tutto la stessa e unica infamia. Esistono ragioni teoriche per poter dire questo. La questione del rapporto tra verità e libertà non è risolto. E neanche quello di chi sia davvero Dio: un Essere così lontano ma forse irrazionale, di certo non chiede di capire ma solo che ci sottomettiamo, a prezzo anche della rinuncia a ragionare. Per cui secondo lei il musulmano concreto, quello che vedevamo in giro per strada, era comunque e sempre il nemico. Uno che ci avrebbe ammazzato e dunque da cacciare via. Non c'erano eccezioni per lei. Figuriamoci se io potevo sottovalutare il pericolo mortale che è contenuto nell'Islam.

Però le ripetevo che la grazia di un incontro è così forte che cambia i cuori. Le persone sono più grandi delle dottrine magari accettate. C'è uno spazio che è quello del paragone tra una proposta di vita e le esigenze originarie del cuore.

Si chiama senso religioso. Io avevo amici musulmani, ad esempio. Qualcuno disposto a rischiare la vita per me (è capitato davvero). Lei rispondeva: impossibile, sei troppo cattolico. Poi vi troverete a mangiare e a bere insieme, ma adesso c'è la guerra, non fidarti. Ecco, lei che credeva fortissimamente alla libertà, in quel libro ha negato potesse esistere in quella parte dell'umanità professante l'Islam. Dopo “La rabbia e l'orgoglio” ha insistito sempre nell'esercitare il suo ruolo di Cassandra, ripetendo: Troia-brucia-Troia-brucia!

Ma l'incontro con papa Benedetto XVI nell'agosto del 2005 l'ha cambiata. Si è aperta ad un'altra possibilità. Alla lotta contro l'invasione islamica ha associato con determinazione e amore formidabili la guerra contro il nichilismo e la presunzione della scienza medica di regalare l'immortalità e quella dei giudici e dei politici di concedere spazio all'eutanasia e alla manipolazione degli embrioni. Amava tantissimo la vita. Per questo i suoi eccessi sono colori troppo forti della verità ma di essa odorosi. Ed io credo sia un peccato aver dimenticato “La rabbia e l'orgoglio”, non per la rabbia e neanche per l'orgoglio, ma per il desiderio che ci sta dentro di libertà, bellezza, di qualcosa di grande e buono.

Insomma, in fondo di Cristo.

venerdì 9 settembre 2011

OLMI E IL CATTOLICESIMO SUICIDATO

“La Chiesa dovrebbe essere una casa che accoglie, non deve domandare se una persona è credente o no. I cattolici dovrebbero ricordarsi di essere cristiani. Non bisogna inginocchiarsi davanti al crocifisso, che è solo un simulacro di cartone, ma verso chi soffre come gli extracomunitari”.


A parlare è Ermanno Olmi, regista cattolico, che in questi giorni è al Festival del Cinema di Venezia per presentare il suo film Il Villaggio di cartone.

Le farneticazioni di Olmi potrebbero anche lasciarci indifferenti, considerato che il mondo moderno ci ha fatto sviluppare una considerevole quantità di pelo sullo stomaco, e siamo abituati a sentirne davvero di tutti i colori, quando c’è da sparlare della Chiesa cattolica. Ovviamente, guai se l’oggetto delle offese fosse una religione diversa: si scatenerebbe un putiferio. Ma tirare un po’ di fango su Roma e sul Papa è uno sport sempre apprezzato. Così è successo anche a Olmi, che è stato accolto da uno stuolo di critici pronti a sviolinarlo per il suo “film-capolavoro””, che in verità Francesco Borgonovo su Libero ha paragonato alla mitica Corazzata Potemkin di fantozziana memoria.

Dicevamo che si potrebbe lasciar perdere, e buona notte, se non fosse che il nostro uomo è un accreditatissimo uomo-di-cultura-cattolico. Dici Olmi, e nelle parrocchie e nei cinema parrocchiali, negli oratori e nei centri culturali cattolici è tutto un compiaciuto annuire di capoccioni pensierosi e plaudenti: “Eh, Olmi, che regista! E che cattolico! E che film di denuncia!” E così via celebrando. Questo è, purtroppo, il problema: che nel mondo cattolico si considerino batteriologicamente pure delle sorgenti inquinatissime, per nulla potabili, dalle quali sarebbe molto meglio stare alla larga.

Olmi è padrone di continuare a fare i suoi film, che tanto non vede praticamente nessuno. Ed è anche padrone di dire le sciocchezze che ha inanellato nei giorni scorsi. L’importante è che non pretenda di parlare “da cattolico”.

Perché uno che invita a non inginocchiarsi davanti al crocifisso, definendolo “simulacro di cartone” (sic) cattolico non lo è affatto. In quelle parole non c’è solo dabbenaggine, ma anche livorosa malevolenza e inquietante compiacimento per la provocazione blasfema. Ma c’è dell’altro.

Il film di Olmi è a suo modo un perfetto manifesto di quel “cattolicesimo suicidato” che si dissolve nel solidarismo e nell’ossessione del primato degli ultimi. Vi si racconta infatti di una chiesa che viene sconsacrata, e del vecchio parroco che – superato il primo sconcerto – la trasforma in un luogo di accoglienza per immigrati. Invece che adorare Dio che si fa uomo in Gesù Cristo crocifisso, la “chiesa” di Olmi si mette ad adorare l’uomo che si fa dio, togliendo di mezzo Cristo e il mistero dell’incarnazione.

E’ l’umanesimo ateo che soppianta il cattolicesimo, è l’attivismo per i più poveri che rimpiazza la preghiera, è il relativismo della volontà che rimpiazza il realismo della verità.
E infatti il regista-predicatore, determinato a cantarle soavi ai cattolici papisti, rincara la dose, dicendo che “non possiamo avere solo certezze; ognuna di esse è una ferita che portiamo alla fede. Il peso dei dubbi deve essere superiore alla stessa fede”.

Forse nemmeno Odifreddi, Severino, Galimberti e Cacciari, schierati insieme a coorte, avrebbero saputo dir meglio qualche cosa di così totalmente non cattolico e, insieme, di così desolatamente banale. Sarebbe poi una buona cosa che d’ora in avanti di immigrazione parlassero solo le persone comuni: quelle che vivono gomito a gomito con gli extracomunitari, fanno la spesa nel quartiere, vanno al lavoro in autobus; insomma, solo quelle persone che non fanno i registi, o i critici cinematografici, vivendo magari ai Parioli o in qualche quartiere superlusso dove l’unico immigrato è la colf. O, vista l’età di certi cineasti, la badante moldava.

di Mario Palmaro Tratto da La Bussola Quotidiana l'8 settembre 2011

IL FUTURO E LA SPERANZA

GRANDI ASPETTATIVE PER IL CARDINALE SCOLA A MILANO

Tornielli racconta in un libro il nuovo Arcivescovo ambrosiano
di Antonio Gaspari, giovedì, 8 settembre 2011 (ZENIT.org).

La nomina ad Arcivescovo di Milano del Cardinale Angelo Scola sta suscitando molte speranze nel popolo ambrosiano. Secondo quanto annunciato dal Vicario generale, monsignor Carlo Redaelli, il Cardinale Scola prenderà possesso della Diocesi venerdì 9 settembre.

Sono già previsti incontri con i mondi della “fragilità” (27 settembre), della cultura (29 settembre), dell’economia e del lavoro (4 ottobre) e della politica (6 ottobre).

Andrea Tornielli ha appena pubblicato una biografia del Cardinale Angelo Scola dal titolo “Il futuro e la speranza” (edizioni Piemme).

Chi è Angelo Scola? Qual è la sua storia e quali le sue rilevanti virtù?

Tornielli: Angelo Scola è un Vescovo che proviene da una famiglia umile: il padre era un camionista, socialista massimalista, e leggeva l'Unità e l'Avanti!. La madre era religiosissima. La mamma lo introdusse alla fede cristiana, il padre volle che studiasse. Il nuovo Arcivescovo di Milano ha ricordato: “La passione per il popolo l’ho presa da lui. Gli devo molto. Compreso il fatto che, essendo un socialista massimalista, mi ha fatto studiare perché 'l’Unità' e l’'Avanti!' raccomandavano di mandare i figli a scuola… Si ammazzò di lavoro, per farci studiare”.

Cosa cambia nella Diocesi di Milano con l’arrivo del Cardinale Scola?

Tornielli: E' presto per dirlo: ogni nuovo Vescovo, a motivo della sua formazione e del suo temperamento, e soprattutto a motivo delle priorità che individua, porta dei cambiamenti. Si può cercare di intuire qualcosa guardando agli anni - quasi dieci - trascorsi a Venezia. Scola da un lato ha insistito molto sull'evangelizzazione e sull'unità della Chiesa, dall'altro non ha mancato di dialogare con tutti i mondi - da quello della cultura a quello della politica -, puntando in particolare sull'educazione. Il polo Marcianum, che comprende un percorso formativo dalle scuole materne all'università, ne è un esempio.

Negli anni Settanta i seguaci di monsignor Luigi Giussani trovarono difficoltà ad essere pienamente accettati nella Diocesi milanese. Perché?

Tornielli: Erano anni difficili per i nuovi movimenti, vissuti talvolta come un corpo estraneo nella Chiesa "istituzionale". C’è chi ritiene che la decisa opposizione, soprattutto nei confronti dei chierici vicini a don Giussani, sia stata determinata dal ricordo di quanto accaduto nella Diocesi ambrosiana al tempo del beato Cardinale Andrea Ferrari e protrattosi fino all’episcopato di Achille Ratti, quando a Milano esisteva una sorta di doppio clero, con due seminari, uno di tendenza più “modernista”, l’altro più “tradizionale”. Il Papa aveva mandato l’abate Alfredo Ildefonso Schuster, anche lui oggi beato, a compiere una visita apostolica, e sarebbe stato lo stesso Schuster a diventare, successivamente, Arcivescovo di Milano. Per i preti che si erano formati in quegli anni, lo spettro del clero diviso, del “doppio clero”, doveva ancora aleggiare, e questo potrebbe aver influito in modo significativo nel clima di sospetto che circondava i seminaristi ciellini.

Come è accaduto che l’allora seminarista Angelo Scola dovette andare a Teramo per diventare sacerdote?

Tornielli: I seminaristi ciellini erano mal sopportati. Nel caso di Scola il motivo dell'allontanamento fu legato al servizio militare. L’obbligo della leva decadeva nel momento in cui i seminaristi ricevevano l’ordine del suddiaconato, che veniva amministrato di norma solo all’inizio dell’ultimo anno di teologia. Ma Scola prima di entrare in seminario aveva fatto l'università: chiese che gli venisse anticipato il suddiaconato, in modo da non dover abbandonare il seminario e gli studi teologici per fare il militare, senza alcuna prospettiva certa di poter rientrare a Venegono. I superiori gli comunicarono che non intendevano anticipare il suddiaconato. E così il futuro Arcivescovo di Milano, durante l’estate del 1969, dopo essersi confrontato con don Giussani ed altri sacerdoti ambrosiani, decise di non incominciare il nuovo anno nel seminario ambrosiano. Voleva diventare prete, non indossare la divisa e abbandonare gli studi per diciotto mesi, che avrebbero potuto comportare fino a tre anni di lontananza dagli studi seminaristici. Trovò accoglienza dal Vescovo di Teramo Abele Conigli.

Quali i problemi pastorali della Diocesi di Milano, e in che modo interverrà il Cardinale Scola?

Tornielli: La Diocesi ha molti problemi, innanzitutto il calo delle vocazioni. Immagino che la cura del seminario sarà una priorità. C'è poi il problema delle comunità pastorali, una riforma che si è resa necessaria a motivo della scarsità dei preti, ma che nell'essere attuata non ha mancato di provocare qualche problema. C'è stata anche qualche difficoltà nell'introduzione del nuovo Lezionario. Ma credo che la vera, decisiva questione rimanga quella dell'annuncio del Vangelo in una società sempre più secolarizzata.

Tutti concordano sulle qualità intellettuali e pastorali del Cardinale Scola. Qualcuno però sostiene che il suo modo di parlare non sia sempre facile da comprendere. Lei che ne pensa?

Tornielli: Credo che lo stesso Cardinale se ne sia reso conto, dato che nella lunga intervista di congedo rilasciata al settimanale diocesano Gente Veneta ha affermato: “Questo tempo a Venezia mi ha fatto via via capire quanto ancora di intellettualistico e di astratto c'era nel mio modo di vivere e di proporre l'esperienza cristiana, cosa che poteva non favorire il mio rapporto con il popolo di Dio, che è invece il compito numero uno del pastore. Ho imparato un po' di più ad abbandonarmi alle circostanze, a non pretendere di dominarle, ad aprirmi di più a tutte le persone che incontravo, a cercare sempre il positivo nel mio interlocutore anche quando vistosamente aveva un'opinione diversa dalla mia. E' un ridimensionamento che va nella direzione di una domanda di maggiore umiltà. Meno fiducia nelle mie capacità, nelle mie forze; più domanda di aiuto a Dio e alla Vergine Santissima, come dice il mio motto: Basta la Tua grazia”.

Da Patriarca di Venezia il Cardinale Scola ha sviluppato i rapporti con il mondo islamico e con quello ortodosso. Continuerà quest'opera anche a Milano?

Tornielli: Il Cardinale Scola ha avuto una visione realistica del problema e del fatto che, volenti o nolenti, non possiamo pensare di "difenderci" dalle ondate migratorie provenienti in parte da Paesi musulmani alzando muri. Dobbiamo invece cercare di governare il fenomeno e viverlo come stimolo a riscoprire la nostra identità non come una barriera da alzare di fronte all'altro, ma come l'imprescindibile punto di partenza per un dialogo vero e costruttivo. L'esperimento di Oasis, la rivista internazionale che mette in rete le esperienze dei cristiani in particolare nei Paesi a maggioranza musulmana, è un tentativo che va in questo senso. Non penso che a Milano il Cardinale si comporti in modo diverso, ma - come è bene ripetere - stiamo facendo solo delle speculazioni: bisogna aspettare e vedere. Per quanto riguarda il mondo ortodosso, Venezia aveva e ha una speciale vocazione nei confronti dell'Oriente, e anche se a Milano le priorità possono essere altre mi sembra che la strada del dialogo ecumenico sia tracciata dal magistero dei Pontefici e oggi sia portata avanti dall'esempio di Benedetto XVI.