Dopo aver seppellito la Balena bianca travolta da Tangentopoli, Martinazzoli fece risorgere il Ppi spinto da Rosy Bindi: un’operazione considerata il suo suicidio politico.
In punta di piedi come ha vissuto, se n’è andato a 79 anni Mino Martinazzoli. Da almeno tre lustri si era ritirato dalla politica attiva per riprendere a Brescia la professione di avvocato. Era tornato nell’ombra con qualche nostalgia, ma senza rimpianti, nonostante che per un ventennio - tra i 1975 e il 1995 - fosse stato al centro della scena.
Il suo bilancio come uomo - galantuomo e gentiluomo - è più positivo del suo lascito politico.
Martinazzoli è il seppellitore della Dc. Ne divenne il segretario sul finire del 1992 mentre infuriava Tangentopoli. Fu scelto per disperazione, perché era tra i pochi maggiorenti senza avvisi di garanzia. La guidò per un anno mezzo, guardandola morire senza muovere un dito. Collezionò sconfitte elettorali, mentre l’esodo dal partito era quotidiano. Fu con lui che si congedarono dalla Dc i moderati, Pier Ferdinando Casini, Mario Segni, ecc. In pochi mesi, un partito del 25 per cento passò al dieci, forse meno. Preso atto della dissoluzione, Martinazzoli decise di celebrarne il funerale, facendo risorgere il Partito popolare di sturziana memoria. Sua musa ispiratrice in questa luttuosa operazione fu Rosy Bindi che al motto: «Meglio pochi ma puri», lo spinse a quello che è stato unanimemente giudicato un suicidio.
Martinazzoli non aveva il temperamento del salvatore. Era un uomo per i tempi normali, non un condottiero dell’emergenza. Di natura pensosa - almeno per l’apparenza taciturna - era negato per l’azione. La sua oratoria criptica affascinava i cronisti per la proverbiale oscurità che ricordava Aldo Moro. Una volta, quando già (1990) c’erano le avvisaglie dei tempi a venire, dichiarò a Famiglia Cristiana: «Credo solo che nella Dc di oggi, per quanto integrati negli apparati, coinvolti nelle convenienze, per quanto ottusi in questo barocco della nomenclatura ci sia ancora una potenzialità di futuro». Il suo modo di parlare fu studiato dai filologi - come oggi il lessico di Bersani è sotto la lente di Crozza - e furono scritti un paio di libri sull’argomento. Amava i calembours venati di tristezza. In un’intervista: «La forza del destino è il destino della forza». Sprofondato su un divano del Transatlantico: «La solitudine dell’amore è talvolta l’amore della solitudine».
Al Congresso dc del 1989, scatenando un applauso di venti minuti: «Noi (democristiani, ndr) non vogliamo un futuro di ritorno ma vogliamo il ritorno al futuro». Un suo compagno di corrente (sinistra dc), Guido Bodrato, considerando la sua libido per la parola un sintomo di impotenza vitale, stilò questa diagnosi: «È rimasto con la mentalità dell’avvocato di provincia. Dopo un bel discorso si sente appagato e trascura la sorte del cliente». Niente spiega meglio la fine della Dc che Martinazzoli portò alla tomba tra bellissimi discorsi, fino all’ultimo pronunciato il giorno delle esequie. Toccò tutte le corde possibili facendo lacrimare un intero congresso. Ottenuto l’effetto, concluse: «Siate allegri». La frase più spiritosa della sua vita pubblica.
di Giancarlo Perna
da Il Giornale
Fermo Mino Martinazzoli nacque nel novembre 1931 a Orzinuovi, cittadella fortificata a qualche chilometro da Brescia. A Brescia di Dc ce ne erano due. Una popolare e praticona che ha fatto capo prima a Bruno Boni, sindaco per trent’anni, poi a Gianni Prandini, discusso ministro.
L’altra, nella quale si riconoscevano le grandi famiglie e l’alto clero. Questi - conforme al detto «portafoglio a destra, cuore a sinistra» - erano più progressisti. Il loro modello era Paolo VI, il bresciano Giambattista Montini, un papa senza sorriso. Martinazzoli apparteneva a questo gruppo.
In principio, Fermo Mino si divise tra tribunale e politica. Fu consigliere comunale di Orzinovi, a 29 anni era consigliere provinciale, a 39 presidente della Provincia. Su scala nazionale era ignoto. Il suo leader era Giovanni Salvi, il prototipo della seriosità. Portava il cilicio, camminava guardandosi le punte ed era senatore. I compagni di Mino erano due legali dello stesso Studio, Piero Padula e Tarcisio Gitti. Tutti fatti con lo stampino. Padula, che pareva un requiem, sarà sindaco di Brescia e deputato. Gitti che rideva in media due volte l’anno a scadenze non fisse, è stato vicepresidente della Camera. Martinazzoli, austero e sospiroso, è diventato senatore nel ’72 e verrà rieletto fino a metà anni Novanta. Nella Dc locale li chiamavano la corrente degli avvocati. In realtà, erano i cosiddetti «basisti», il gruppo di Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi e altri così.
Il più cordiale dei «basisti» era il capo in testa, Giovanni Marcora, un lombardo sanguigno e fattivo. Quando era giocoforza, andava a Brescia col cornetto in tasca. Quei tristanzuoli non gli andavano giù. A Salvi aveva affibbiato il soprannome di «2 novembre». A Padula «bonjour tristesse». A Martinazzoli «cipresso» (per l’alta figura). Mino se ne conquistò poi altri: «crisantemo», «cripta», ecc. In realtà, l’uomo era molto più alla mano di quanto non desse a intendere. In privato, era spiritoso e quasi allegro. La sua inalberata tristezza era una maschera per darsi un tono. Non la sua vera natura. Martinazzoli era infatti un narciso. Si dava un’aria da poeta con la testa tra le nuvole, spirito disincarnato dagli interessi, scrigno di idee. In effetti, non era uno con le mani in pasta e quando si cercava un onesto cui affidare un incarico delicato si ricorreva a lui.
È così che, quattro anni dopo il suo ingresso a Palazzo Madama, fu nominato presidente dell’Inquirente, allora Tribunale dei ministri....
Bisognava sviscerare il grande scandalo dell’epoca, quello degli aerei da guerra Lockheed. Da perfetto sconosciuto, Mino fu di colpo sulla bocca di tutti.
La Dc era sotto accusa. Il suo presidente, Moro, la difese con il famoso discorso in Parlamento: «La Dc non si farà processare». L’Inquirente scoprì invece le prove dei maneggi tangentiizi. Moro ordinò a Martinazzoli di chiudere un occhio e votare per l’archiviazione. Mino, più scrupoloso di Aldo, rifiutò. L'altro la prese male e tra loro non corse più buon sangue.
Fu allora il segretario del partito, Benigno Zaccagnini, anche lui della sinistra, a guardare con occhi benevoli l’astro nascente. I due avevano temperamenti affini. Entrambi erano affetti da una sofferenza misteriosa che non li abbandonava mai. Erano sull’orlo del pianto anche bevendo un cappuccino alla buvette. La cosa era talmente ingiustificata che lo stesso Moro, tutt’altro che un allegrone, un giorno - riferendosi a Zac - sbottò: «Dolente senza dolore, appassionato senza passione». L’incomprensione con Moro non ebbe seguito, perché le Br lo uccisero di lì a poco. La protezione di Zac finì anch’essa perché il mutato clima politico lo mise ai margini. Il nuovo alleato di Martinazzoli divenne De Mita.
Ciriaco gli dette fiducia e cominciò un decennio di fasti martinazzoliani. Fu per quattro anni Guardasigilli nel governo Craxi. Poi capogruppo dc alla Camera, ministro della Difesa, ministro delle Riforme istituzionali. Onesto in tutte le funzioni, non incise su alcuna. Senza essere un padre della Patria, Martinazzoli ha suscitato ammirazione e profondi affetti nel suo mondo. Per anni, ebbe l’abnegazione di Carlo Grazioli, un barbuto senatore e maestro elementare, che non lo lasciava mai, appagato di essere la sua ombra. La Bindi lo ha portato in palmo di mano. Prodi lo ha spesso evocato e più di una volta, anche in anni recenti, la sinistra in crisi ha pensato di trovare in lui un’ancora.
Ma Mino non ha mai risposto agli appelli, anche perché la malattia che l’ha ucciso lo tormentava da tempo. Con l’aria da bel tenebroso piaceva alle signore, affascinate dal sussurro delle sue frasi ingarbugliate che le faceva sentire intelligenti. Ma si tenne stretta, Giuseppina, la moglie di un unico e lungo matrimonio senza figli. Tutto sommato, un buon bilancio.
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