sabato 10 settembre 2011

LA RICORRENZA COME MENZOGNA

Le ricorrenze sono pigre, fanno abitudine e circolo vizioso, riscrivono malamente la storia, sono pegno quasi certo di insincerità, sono luce spenta, dolore farlocco, bolsaggine in azione a profitto di chi non ha agito quando era il tempo.

L’11 settembre non fa eccezione. Io detesto le ricorrenze. Questo giornale quel giorno aveva di spalla in prima un articolo su Osama bin Laden, “l’uomo che vuole uccidere gli americani”. Del defunto capo di al Qaida aveva pubblicato qualche tempo prima un raro ritratto impietoso.

Dal 12 settembre al finale surge di Petraeus in Iraq, passando con accanito dolore attraverso le tempeste del pacifismo europeo, del negazionismo complottardo, dell’antisemitismo travestito da antisionismo, dell’odio antiamericano e anticristiano, antioccidentale, nutrito di luoghi comuni islamofili, di cacadubbismi sull’emergenza nel campo del diritto interno americano (Patriot Act, carcere di Guantanamo, interrogatori duri) e del diritto internazionale, abbiamo cercato di fare la nostra parte con razionalità.

L’11 settembre non fu soltanto una tragedia umanitaria, morte e distruzione nell’attentato più grande e più infame nella storia dell’umanità, fu sopra tutto un atto di guerra, la delineazione di un campo in cui amico e nemico dovevano amarsi e distruggersi.

La ricorrenza è per quelli che la loro parte non l’hanno voluta fare, per chi oggi infioretta la chiacchiera su un decennale vissuto, intellettualmente ed emotivamente, senza pagare alcun prezzo, mantenendo sempre salda la propria convinzione irenista, la capacità di attraversare il guado senza bagnarsi il fondo dei calzoni.

E’, la Ricorrenza, il grande momento delle lettere maiuscole, delle iperboli insensate che suonano bene, delle interpretazioni ipermoderne, un modo di trattare la cosa (o meglio la sua manipolazione) in tutto simile al cinquantennale della produzione della Cinquecento, alle stagioni della moda, ai centenari del patriottismo spento, folcloristico, invivibile per esseri umani che abbiano un senso non abusivo del concetto di dignità dell’esistere.

Siamo tutti americani, e non era vero. Tutti ebrei, e non era vero. Tutti cristiani, e non era vero. Niente sarà più come prima, e non era vero. Ci battiamo contro l’oppressione califfale delle donne, e non era vero.

Vero era invece il disprezzo verso i figli poveri e combattenti dell’impero americano, degli inglesi, degli italiani, dei polacchi, degli australiani, dei danesi, dei giapponesi, che morivano a centinaia, poi a migliaia, nella guerra al terrorismo. I Ricorrenti di oggi sono gli stessi che spiegavano come una banale operazione di polizia internazionale sarebbe stata la scelta giusta, altro che smantellamento del sistema talebano in Afghanistan, altro che attacco strategico alla Baghdad di Saddam Hussein.

Ma non era vero nemmeno quello, perché la detenzione dei combattenti illegali nella base americana fu scandalo ideologico, le operazioni speciali contro i capi e i fiancheggiatori del terrorismo internazionale furono additate come cedimento illiberale, crimine contro l’umanità le vittime civili dei bombardamenti bellici; e ancora adesso il sociologo più vuoto e ciarliero del mondo, quello Zygmunt Bauman coccolato dalle mezze calze universali e dai giornali dei preti, si permette di paragonare la barriera difensiva israeliana contro il terrore al ghetto di Varsavia.

I Ricorrenti e magniloquenti di adesso sono quelli che il 10 novembre 2001 a piazza del Popolo non c’erano, quelli che non c’erano alla giornata per Israele, convocata per tutelare il diritto di difesa esercitato da Ariel Sharon, quelli che muovevano un baffo moscio quando manifestavamo davanti all’ambasciata della Repubblica islamica d’Iran perché Mahmoud Ahmadinejad proclamava la necessità di cancellare l’unica democrazia del medio oriente dalla cartina geografica. La Ricorrenza è il modo di imbruttirsi ora delle anime belle di allora.

La retorica della memoria, sempre “condivisa” per carità, è una delle brutture culturali del nostro tempo. La memoria ha un senso quando si esercita nella responsabilità, non quando serve a cancellare le tracce e a illuminare il cammino di una fredda luce artificiale, di un neon opalescente che ammazza i chiaroscuri, che liquida le verità del tempo perduto alla cui ricerca ci si dedica con sentimentalismo, senza realismo, senza quel sentimento tragico della vita la cui scomparsa è il segno più chiaro della stanchezza dell’occidente.

Dimenticate l’11 settembre, voi che in quelle abluzioni rituali, in quegli addestramenti al volo capaci di bucare la sicurezza e la democrazia americana, in quell’omicidio di massa kamikaze, ma di civili e a tradimento, e dunque senza onore, avete visto un’occasione per continuare come prima. Voi che avete lordato l’eroismo politico di Bush, Cheney, Rumsfeld e Petraeus con l’accusa di scambiare oil for blood, quando l’unica guerra per il petrolio è la sconcia rissa tribale di Libia, una rissa francese e di sinistra per contratti più vantaggiosi in un’area di influenza contesa dalle potenze postcoloniali. Me lo ricordo l’ambasciatore di Sua Maestà Britannica, un paese che la sua parte l’ha fatta ma non nelle legazioni all’estero, quando diceva che Dubya era il maggior reclutatore del terrorismo, e pretendeva che il direttore di questo giornale lo raggiungesse a un party in ambasciata, ricevendo la risposta che meritava. Me li ricordo tutti, i Ricorrenti di oggi. E non voglio passare l’11 settembre in loro compagnia.

G.Ferrara il foglio 6 settembre

Nessun commento:

Posta un commento