sabato 10 settembre 2011

ADDIO, CARDINALE

Tettamanzi va,
il suo sottotono resta.



 Pastore mite e rispettabile, ma i risultati sono lentezza e afonia


Con un pontificale di “semplice ma importante saluto e ringraziamento” con maxischermo in Piazza Duomo, il cardinale Dionigi Tettamanzi ha salutato ieri la sua amata diocesi di Milano.

Arrivò nel 2002, nel mezzo dei trambusti post giottini e delle guerre di civiltà, scegliendo per sé il linguaggio afono e un po’ malmostoso del moralismo sociale e del pietismo ecclesiale; se ne va ora dicendo che “gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla”.

Il suo lascito ideale alla chiesa ambrosiana sta soprattutto nella creazione del Fondo di solidarietà famiglia-lavoro, lanciato nel gelido Natale di crisi 2008.
Non c’è niente di male, per carità, nella sua professione di chiesa pastorale, mite e attenta a non prendere di petto le questioni cruciali. Per quanto, mentre il secolarismo prova a sventrare la barca di Pietro e i musulmani invadono il sagrato, non sia esattamente questa la lingua ecclesiale, o anche solo l’estetica, preferita da questo giornale. Ma gli arcivescovi agiscono, è ovvio, in libertà.

Però, mentre Tettamanzi dà l’addio, la “sua” chiesa rimane tale e quale, col suo principio di afasia. In questi giorni di crisi e disorientamento, la sua voce s’è fatta sentire solo con qualche strillo all’immoralità degli evasori fiscali, con qualche lamentela di troppo, con qualche buonismo degno dei film lampedusani di Ermanno Olmi. Ma Olmi non è la chiesa. E’ in corso il Congresso eucaristico ad Ancona, appuntamento importante la cui eco però giunge come affievolita alle orecchie del mondo laico, che non ha l’obbligo di ascoltare sermoni o leggere piani pastorali, ma forse parole importanti sui temi importanti le ascolterebbe pure. E invece si sentono solo voci che rimbalzano sul terreno noto. Suor Giuliana Galli, la religiosa che siede nel cda San Paolo invita a “vestirci di sacco” e chiede “un messia con la minuscola, laico”.

I tempi di reazione, la capacità di prendere il proprio posto nella scena pubblica, tutto è assai lento. Si discerne con sobrietà, come dice don Dionigi, ma si arriva sempre un po’ tardi, e laterali. Tranne quando c’è da moraleggiare fuori proposito, e allora sono degni di Usain Bolt i tempi di reazione della “suora di frontiera” Rita Giaretta, che si sente “offesa come cittadina e come consacrata” per una barzelletta, per altro di sapore clericale, del ministro Sacconi.

Si parla molto di cattolici in politica, ma è alla chiesa che servirebbe una voce più squillante

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