Una giornata
di ordinaria deportazione
per un accusato
di mafia
Da trecentoventinove giorni, Sandro Monaco, imprenditore, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, è detenuto secondo il regime di carcere duro.
Da trecentoventinove giorni sta scontando una pena senza essere giudicato. Nel frattempo, il carcerato, si passa il tempo viaggiando. D’altronde, che deve fare? Ha già assaggiato, infatti, le prime merendine al carcere di Bicocca, a Catania – da dove è scattata l’operazione Iblis che l’ha visto pesciolino in una retata a lui estranea (a tempo debito si racconterà il come e il perché di un destino impossibile per gli imprenditori come lui) – dopo di che è stato a Parma, ad Ancona, a Floridia (Siracusa), quindi di nuovo Ancona e poi ancora Floridia.
Chi non ci passa non lo può capire che cos’è la galera. In verità neppure chi ci passa dalle carceri lo capisce, di sicuro non lo dimentica e se Sandro Monaco, detenuto da trecentoventinove giorni, si passa il tempo viaggiando da un carcere all’altro, trova il modo di sgranare gli occhi e vorrebbe pure inghiottire pane, pacienza e tempo – così come raccomandano gli incalliti ospiti della nota catena alberghiera dell’Ucciardone – solo che non si capacita come si possa essere ridotti a comparse di un carnaio viaggiante. E sempre buttando tempo, masticando pazienza e cercando pane.
Chi ci passa dalle carceri se ne deve fare tante di tappe e quando un martedì di questo settembre, alle 21 e 30, viene comunicata al detenuto Monaco Giuseppe Sandro Maria la notizia del trasferimento da Ancona per Floridia, viene svegliato alle 5 e 45 dell’indomani, accompagnato alle pratiche di rito e poi fatto accomodare sul blindato dove viene a conoscenza di un fatto nuovo: si farà tutto il tragitto col cellulare e non in aereo. Prevista una sosta notturna al carcere di Vibo Valentia.
Ecco la celletta del blindato. E’ una gabbia i cui lati sono larghi 50 e 75 centimetri. Le pareti sono lastre d’acciaio. Se non si sta seduti dritti, al modo della marionetta, ci si fa molto male come quando ci s’inginocchia su ceci. Naturalmente mancano le cinture di sicurezza e il poggiatesta. Viaggiare dentro questi blindati è una vera roulette russa. Basta un modesto tamponamento che se va bene, ci si spacca la testa in tanti piccoli pezzi e si muore; se va benino ci si rompe l’osso del collo e si muore; se va male, invece, si ricompongono i pezzi e poi si campa.
E si va avanti col viaggio. Il vettovagliamento in dotazione al detenuto consta di: numero uno di pezzo di pane, duro. Numero uno di bottiglia d’acqua. Numero quattro di würstel. Numero uno di mela e numero uno di prugna ma, infine, il dolce: crostatina di albicocche. Da Ancona a Taranto il viaggio procede nel trattenuto rollio del come viene viene ma, per fortuna, all’altezza di Taranto, alle 15 e 15, il blindato si rompe. Dopo un’ora e mezzo arriva il furgone sostitutivo e si riparte. E’ un blindato garantista, questo. Decisamente comodo.
Alle 21 si arriva a Vibo. La cucina è già chiusa e si va a letto digiuni. Dopo un’educata insistenza viene consegnata una bottiglia d’acqua. Nelle celle d’isolamento riservate ai detenuti in transito non c’è cuscino, pazienza, Sandro – che non è un bandito, ma un figlio di mamma – prende la coperta, la piega e la infila sotto la federa. Il risveglio, con il latte, è rallegrato da due piccole susine. Sono state utili per sopperire l’assenza di un cestino da viaggio quando, alle nove e trenta, partendo, il blindato garantista ha fatto un lungo viaggio senza pane e con molte soste: carcere di Palmi, carcere di Reggio, carcere di Messina, carcere di Catania e, infine, alle 18, a Floridia.
E’, questa di Floridia, una tipica galera di come uno s’immagina debba essere la galera. I parenti in visita stazionano fuori dal portone, sotto il sole d’estate, anche fino a cinque ore. Vi entrano e si sottopongono a tutti i controlli. Firmano, consegnano i vestiti puliti, depositano i soldi, si fanno perquisire e devono farsi strappare pure i nastri a braccialetto – sono le zaredde di Santo Vito, segni votivi che si portano al polso. La cintura si può tenere, la zaredda di Santo Vito, no.
“Perché la cintura sì e il braccialetto no?”, chiede Concetta, la sorella arrivata per la visita-parenti. “Questo lo sappiamo noi”, risponde un tipo. Tutto sanno loro. Passa il tempo a tutti quelli che si passano il tempo girando carceri. E nessuno lo può capire. Quest’estate, quando – dopo tutta la trafila e l’attesa – Concetta si sentì chiamare, “Monaco?”, dopo si sentì dire: “E’ stato trasferito”. Per restarsene lì, nel corridoio con la zaredda strappata. Considerando oggi sono trecentotrenta giorni di carcere quelli di Sandro. E di viaggi.
FOGLIO QUOTIDIANO di Pietrangelo Buttafuoco
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