In Europa nessuna dirigenza comunista è sopravvissuta
al 1989
di Goffredo Pistelli
da Italia oggi
È uno storico
contemporaneo, insegna all'Università di Bergamo, ma soprattutto Adolfo Scotto di Luzio, classe 1967,
napoletano di Pozzuoli, è un osservatore acutissimo della realtà sociale e
politica. I suoi taglienti editoriali, sul Corriere del Mezzogiorno,
rappresentano una visione mai banale dei fatti e degli uomini.
Domanda.
Professore, domani (oggi per chi legge, ndr), il Pd vive un'assemblea
drammatica quanto, del tutto confusa, per certi versi sconclusionata
nell'avvicinamento, con nomi bruciati uno via l'altro...
Risposta. Ci
sono tutti i nodi di una storia molto ambigua che stanno venendo al pettine: il
Pd in realtà non affonda né affondava le radici in nessuna delle tradizione a
cui il partito si richiamava. Non solo, quell'occhieggiare a cose che stanno di
la dall'Atlantico, penso alla tradizione democratica americana, aveva
ulteriormente complicato le cose. Quelle contradizioni, oggi, portano
all'implosione.
D. Che cosa non
ha funzionato? La chimica?
R. La ricetta.
E il problema sta tutta dagli antecedenti comunisti, perché, la sinistra dc, è
meno rilevante. Per anni, cioè dalla fine del comunismo in poi, si è credere
per anni che dei comunisti potessero diventare socialdemocratici. Errore: non
si può tornare indietro dal comunismo. Un problema analogo ai postfascisti che
hanno preteso di diventare liberali.
D. Un'anomalia
italiana?
R. Esattamente.
In Europa nessun dirigenza comunista è sopravvissuta al 1989, in Italia sì. Ed
ha sequestrato il destino politico della sinistra negli anni '90, inchiodandola
al travaglio inconcludente di una generazione di post-comunisti. Non è nata una
nuova sinistra, c'è stata solo un'estenuazione infinita della svolta della
Bolognina, che non s'è mai conclusa.
D. E con Pier
Luigi Bersani è crollato tutto...
R. Bersani, con
queste elezioni e con quelle presidenziali, coltivava illusione di chiudere il
ciclo politico del 1989, riportando a casa i pezzi della diaspora, ricomponendo
quella tradizione, recuperando con Nichi Vendola, la sinistra radicale.
D. E Vendola
era ben felice di mescolarsi...
R. Sì, come
disse in un'intervista a Lucia Annunziata: siamo pronti. Sarebbe stato un
dramma.
D. In che
senso?
R. Una nuova
sinistra di governo, con un pensiero nostalgico e restaurativo, guidata da una
classe dirigente forgiata nella Fgci di fine anni '70 primi anni '80, che pensa
spesso a Enrico Berlinguer ed esprime il più tipico moralismo berlingueriano.
D. Per esempio?
R. Pensiamo a
tutto il discorso sull'austerità, che Bersani aveva richiamato, pensando di
poterlo riadattare ai nostri tempi di crisi. Non una vaga ispirazione: a pochi
giorni dal voto, auspice Miguel Gotor, Einaudi ha rieditato alcuni scritti
berlingueriani. Un tantivo di egemonia culturale in sedicesimo, ma che parlava
da solo.
D. Dove hanno
sbagliato?
R. Nei calcoli
soprattutto ma c'era un'impossibilità di leggere la realtà attuale, procedevano
con la testa girata all'indietro, pensando a quanto fosse bella quell'Italia,
frugale e austera, di trent'anni fa e più. Questo il loro mondo, questa la loro
forma mentale. Un'ànchilosi intellettuale, che rende impossibile guardare
all'oggi, se non in forma scandalizzata, da rigettare.
D. Secondo lei,
dove si esemplifica maggiormente questo stato di cose?
R. Nella
struttura stessa del partito, il cui radicamento sociale parla chiaro: oltre la
metà degli iscritti ha più di 55 anni. Il Pd ha perso totolmente il contatto
con le fasce giovanili. Ora se la sinistra, che si attesta per definizione
sulla frontiera dell'innovazione, del cambiamento, perde di vista i giovani, è
evidente che si avvia a diventare una forza residuale, destinata a ingrigire.
Sa cosa mi viene in mente?
D. Che cosa
professore?
R. Quel film di
Sam Peckinpah, Pat Garret & Billy.
D. Sceriffo e
pistolero? E che c'azzeccano?
R. C'è una
battuta che è una metafora perfetta per questo Pd ed è quella del vecchio Pat
Garret che dice: «Questo Paese sta invecchiando e io voglio invecchiare con
lui». E Garret era appunto il vecchio sceriffo difendeva gli interessi dei
grandi latifondisti di Santa Fé.
D. Tuttavia il
Pd a febbraio pensava di farcela, il già citato Gotor, in un'intervista a
L'Unità prima del voto, parla di Bersani come primo leader della sinistra
arrivato al governo col voto.
R. Lo pensavano
perché quella generazione, Bersani in primis, era sufficientemente giovane,
sufficientemente in forze, sufficientemente ricca di energie intellettuali.
Dinnanzi al comunismo che crollava, negli anni '90, hanno sperato di
raccoglierne i dividendi quando, all'improvviso, è comparso all'orizzonte
Silvio Berlusconi. Di nuovo, oggi, davanti allo sgretolamento del
berlusconismo, della destra frantumata, pensavano di passare col cappello a
raccogliere consensi. Ma stavolta è spuntato Beppe Grillo.
D. E Matteo
Renzi può farcela a salvare capra e cavoli, vale a dire a evitare il collasso e
a essere lui il traghettare finale?
R. Non ne sono
tanto sicuro. Non credo che Renzi possa essere in grado di intercettare il malcontento
giovanile. E poi c'è un nodo è psicologico e culturale. Lì, nel Pd, è mancata
la paternità...
D. Vale a dire?
R. Le figure di
riferimento, sino a ieri, sono state Massimo D'Alema e Walter Veltroni. Si
tratta di ex giovani, che non hanno mai fatto passaggi ulteriori e tali sono
rimasti nell'immaginario di chi li ha percepiti. Loro, che hanno avuto padri, e
quali padri, non hanno saputo esserlo. Loro e la loro generazione esprimono la
tragedia di una paternità politica mancata. Non hanno fatto figli, ma hanno
creato dipendenza psicologica.
D. Esempi da
imitare...
R. Esatto,
persino nei modi di parlare come fa qualche giovane oggi. Per questo oggi non
c'è nessun padre da uccidere. Per questo l'atto di nascita del nuovo gruppo
dirigente, piccoli burocrati, giovani solo anagraficamente, è stata il
tradimento che, perfino nel nome, evoca ritualità politiche da mutuare da
quegli stessi padri: i franchi tiratori. Non c'è qualcosa di vecchio da
abbattere ma un sotterfugio da mettere in atto.
D. Un passaggio
che molti non colgono...
R. É un
passaggio antropologico e culturale, non politicistico, ma prima lo si
percepisce, prima questa crisi vedrà la sua fine.
D. Renzi, stava
dicendo?
R. É un uomo
ambizioso, che vuol fare della politica la propria carriera e questo non
scandaloso, anzi lo trovo moderno. Ma qui siamo in presenza di meccanismi più
profondi: qui c'è da dare leva a una nuova generazione. Non credo che possa
bastare.
D. Forse un
uomo come Fabrizio Barca, che ha lo stesso Dna dei padri mancati, può essere
più adatto?
R. Il suo
documento è interessante perché lui è un uomo di rilievo. Con la sua
«mobilitazione cognitiva» echeggia molte cose del dibattito sociologico
contemporaneo, come Luc Boltanski sulla capacità critica diffusa. Già, Barca
pensa a persone che interagiscono e producono idee. Manca sempre il partito, ci
sarà bisogno di qualcuno che decide, che esprime un giudizio generale sulla
società. E quelli che non prendono parte alla discussione? Che magari sono
portatori degli interessi più corposi, che ne facciamo? Nessun partito,
tantomeno di sinistra, può risolversi in un dibattito fra giovani scolarizzati.
Il partito è una guida.
D. Quanto
questa storia ha impedito lo sviluppo del Paese.
R. Un'ipoteca
gigantesca: non esiste infatti una socialdemocrazia compiuta in Italia, ma solo
i contorcimenti del post-comunismo che hanno inibito interpretazioni
intellettuali, hanno gravato sui processi sociali, hanno impedito uno sbocco
moderno, una riforma vera.
D. Finisce con
l'implosione, quindi?
R. Non
immediata. Far fallire il governo di Enrico Letta significherebbe per il Pd
assumere una responsabilità che potrebbe avere conseguenze a lungo: sarebbero
quelli che per la mancanza di tenuta del loro partito, per i loro problemi
interni hanno affondato un esecutivo in un momento delicatissimo. Sarebbe un
suicidio destinato a pesare e B. diventerebbe un gigante.
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