(una sintesi forse infelice, ma per chi
ha fretta…
e per non dimenticare la realtà.
Poi se la fretta ti è passata, leggi tutto il racconto di Luigi Pirandello)
(...) La sera, il capo ufficio, entrando nella stanza di
lui, esaminati i registri, le carte: E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con
un’aria d’impudenza, aprendo le mani. Che significa? aveva allora esclamato il
capo ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo.
Ohé, Belluca! Niente, aveva risposto Belluca, sempre
con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. Il treno, signor
Cavaliere. Il treno? Che treno?
Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare…
Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Ha fischiato.
Ma che diavolo dici?
Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare…
Il treno?
Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!
Gli altri impiegati, alle grida del capo ufficio
imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù
risate da pazzi.
(...) Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero
suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa
si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle
condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella
della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; I’altra, la moglie,
senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt’e tre volevano esser
servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole
vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra
con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se
mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del
suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle
bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E
ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette
ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della
casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
(...) Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era
accaduto un fatto naturalissimo. Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo
raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma
naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli
infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. Magari!
diceva Magari!
Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti
anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva. Assorto nel continuo
tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti
del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata,
aggiogata alla stanga d’una nòria o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato
da anni e anni ma proprio dimenticato che il mondo esisteva. Due sere avanti,
buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva
stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso,
nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un
treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso
gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato
via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un
sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del
mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno. S’era tenuto istintivamente
alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro
a quel treno che s’allontanava nella notte. C’era, ah! c’era, fuori di quella
casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto
mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze, Bologna, Torino,Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato
e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì,
sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche
lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una
bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo
s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia
della sua computisteria…(...)
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