Recensione
del nuovo libro di don Massimo Camisasca "La luce che attraversa il tempo".
«Solo
dalla vita comune potrà venire un’autentica riforma della vita nella Chiesa»
Rodolfo Casadei
La Chiesa sempre ha bisogno di essere
riformata, ma la riforma non è questione di strutture o di innovazioni
istituzionali: la Chiesa si riformerà attraverso la comunione vissuta, la
Chiesa rinascerà attraverso i santi. Ovvero, come sintetizza il presidente
della Cei cardinale Matteo Zuppi nella prefazione del libro: «La santità è la
vera riforma della Chiesa».
È questo il succo di La luce che attraversa il tempo – Contributo per una
riforma nella Chiesa, l’ultimo libro di don Massimo
Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla e
fondatore della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo.
Le due
parti del libro
Frutto di anni di riflessioni e di
appunti che fondono insieme la coscienza maturata nel cammino di conversione
personale, il sapere pratico di 50 anni di attività pastorale e suggestioni
teologiche, le 321 pagine di La luce che attraversa il tempo sono
organizzate in due parti.
La prima
si presenta come una «riflessione teorica sul significato di una riforma nella
Chiesa» che viene corroborata da un’esposizione ragionata dei «quattro grandi
pontificati riformatori che hanno segnato gli ultimi quarant’anni del secolo passato
e i primi vent’anni del nostro», quelli cioè di Paolo VI, Giovanni Paolo II,
Benedetto XVI e Francesco.
La
seconda parte tratteggia «alcune linee di rinascita delle varie vocazioni che,
assieme, contribuiscono a formare il popolo di Dio», e cioè
quelle di vescovo, sacerdote, chiamato alla vita religiosa e laico. Anche in
questo caso alle considerazioni e ai giudizi che vengono espressi si abbinano
esempi concreti di persone reali che hanno segnato la storia della Chiesa:
Gregorio Magno, Bernardo di Chiaravalle e Carlo Borromeo per la figura del
vescovo, Rolando Rivi e don Calabria per quanto riguarda i sacerdoti, san
Francesco, madre Cànopi e madre Piccardo per quanto riguarda la vita religiosa,
Chiara Lubich e don Luigi Giussani, cioè due fondatori di movimenti ecclesiali,
relativamente ai laici, coerentemente con la convinzione di Camisasca che «il
futuro della Chiesa nel nostro Occidente stanco e malato sarà probabilmente
deciso dalla capacità di integrazione reciproca fra parrocchie e nuove comunità
ecclesiali, fra “doni gerarchici e doni carismatici”».
La santità
Le otto pagine della Conclusione, che si
presenta sotto il titolo “La santità”, sono fra le più entusiasmanti e
commoventi di tutto il libro.
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Gustave Moreau, Saint Marten 1882 |
«Attorno a questi uomini semplici e
straordinari, spesso strani e contemporaneamente spettacolo ai loro stessi
occhi, nasce un popolo nuovo. Essi sono costruttori di unità fra gli uomini,
attori di riconciliazione, creatori della Chiesa», ma solo perché il santo è
tale in quanto lascia operare l’Altro, si rende trasparente e disponibile
all’opera di Dio. Perché i santi non sono uomini senza macchia, ma uomini veri,
consapevoli del proprio peccato, e tuttavia certi che seguire Cristo è l’ideale
della vita, ciò per cui si è nati.
Quel
“nonostante”
Le pretese nei confronti della Chiesa
nascono dall’incomprensione della logica dell’incarnazione: «È Dio che ha voluto la Chiesa e che l’ha
affidata a degli uomini fragili e peccatori. Ma egli non smette mai di guidarla
e la rinnova continuamente attraverso la conversione di coloro che ne fanno
parte. Tutti desidereremmo che la Chiesa fosse affidata e soprattutto guidata
sensibilmente soltanto da persone sante. Invece, il tempo della storia è tempo
di combattimento».
Detto con le parole di Ratzinger ne Il nuovo popolo di
Dio:«La Chiesa non si fonda (come Israele) sulla moralità degli uomini, ma
sulla grazia concessa contro la amoralità degli uomini, sulla umanizzazione di
Dio. Essa si fonda su un “nonostante”,
sul “nonostante” della grazia divina, la quale non si lega più a nessuna
condizione, ma ha definitivamente deciso di salvare gli uomini».
Vita comune
Come si accennava all’inizio, il
fondatore dei missionari di San Carlo insiste tantissimo su comunione e
comunità: «Sono
profondamente convinto che solo dalla vita comune potrà venire un’autentica
riforma della vita nella Chiesa, che vinca le terribili concezioni e prassi
odierne segnate dall’individualismo, dal carrierismo clericale (che coinvolge
indifferentemente laici e preti) e dall’aridità affettiva di una vita cristiana
basata sull’organizzazione, sui piani pastorali o sui progetti che dimenticano
o emarginano la persona», scrive.
E ancora: «Le persone non vanno solo
cercate e incontrate nelle periferie fisiche o esistenziali in cui si trovano.
Hanno bisogno di una comunità che faccia loro scoprire la bellezza, il calore e
la luce della comunione per cui sono fatte».
La vita
della Trinità nel tempo
“Comunione per cui sono fatte” significa
che non è per ragioni sentimentali o psicologiche o sociologiche che la Chiesa
si esprime così, ma a motivo della natura trinitaria del Creatore: «La
comunione, il cui desiderio è presente in ogni uomo e in ogni donna come
sigillo dell’immagine di Dio in noi, è la vita della Trinità nel tempo».
Viene citato l’abate generale dell’ordine
cistercense Mauro Lepori: «Conoscere
e vivere la comunione trinitaria è il senso ultimo di ogni persona e di ogni
comunità. La comunità cristiana ha un solo significato: permettere all’individuo di entrare, attraverso Cristo e la grazia
dello Spirito Santo, nella comunione trinitaria, origine e fine di tutte le
cose, origine e scopo di ogni cuore umano. Quando tutto ciò che una
comunità offre e domanda non è al servizio di questa origine e di questo fine,
essa diventa una comunità abusiva».
Per questo Camisasca racconta di avere
cercato sempre di stimolare «forme espressive di vita comune» fra famiglie,
sacerdoti, giovani, ecc.
Obbedienza
all’autorità
Garanzia dell’esperienza comunitaria
contro sentimentalismi e psicologismi è l’obbedienza all’autorità: «Non c’è
cammino di risposta a Dio se non si risponde alla domanda: chi è l’autorità che seguo nella mia vita? Non basta riconoscere
l’autorità del papa, del magistero, della tradizione, se tutto questo non si
incarna nella sequela di una persona concreta la cui alterità e vicinanza sono
per me garanzia del mio seguire Cristo e non me stesso».
In molti passaggi Camisasca chiarisce la
dinamica dell’autorità, esigente per chi è chiamato a esercitarla non meno che
per chi è chiamato a seguirla: «(…) noi impariamo dalle autorità terrene a
riconoscere ed amare l’autorità e la paternità di Colui che è nel cielo. Per
questo, grande è la responsabilità davanti a Dio e agli uomini di ogni
autorità! I superiori possono facilitare o ostacolare il cammino dei loro
fratelli verso la verità e il bene, possono svelare o offuscare il volto di
Dio».
Carismi
nella Chiesa |
Mons. Massimo Camisasca |
Il rapporto fra autorità gerarchica e
carismi nella Chiesa è ripreso in sintonia col concetto di coessenzialità tra
doni gerarchici e doni carismatici affermata nel documento della Congregazione
per la dottrina della fede Iuvenescit Ecclesia.
«Innanzitutto
è bene chiarire che il carisma dato ad un fondatore non si trasmette
automaticamente ai suoi successori nella guida della comunità», scrive
Camisasca. «Esso proviene da Dio che ha scelto una persona e l’ha ricolmata di
un dono particolare del suo Spirito per aprire una strada nuova nella Chiesa.
Alla sua morte, come è avvenuto per tutti i grandi carismi della storia
ecclesiastica, il carisma è consegnato
alla Chiesa, la quale continua a trarre ispirazione da esso per la nascita
di sempre nuove comunità, anche indipendenti, in molti casi, dalla famiglia
religiosa o dal movimento in senso stretto. (…) Nello stesso tempo, il carisma
è affidato alla comunità nata da quel fondatore». In definitiva, «la continuità di un
carisma vive attraverso gli uomini, è salvata o è uccisa dagli uomini».
L’ombra nel
pontificato di Giovanni Paolo II
Il testo è ricco anche di giudizi
pungenti; il vescovo emerito di Reggio Emilia non rinuncia, in alcuni passaggi,
alla parresia spesso auspicata da papa Francesco.
A proposito di Giovanni Paolo II scrive:
«I viaggi (…) furono l’occasione in cui apparve la sua enorme statura. Ma la
traccia che essi lasciarono non fu sempre profonda. Generalmente non furono
proseguiti localmente dall’opera dei vescovi. Questo, forse, è il punto più in
ombra del pontificato di Giovanni Paolo II: non fu adeguatamente aiutato a
operare un ricambio nelle nomine dei pastori. (…) All’inizio del pontificato
aveva attorno a sé, a mio parere, una buona equipe di collaboratori;
successivamente le congregazioni, anche quelle più importanti, dedicate al
clero, alla vita religiosa, ai seminari, non ebbero la capacità di esprimere
qualcosa di adeguato alla riforma che Giovanni Paolo II aveva intrapreso in
tutta la Chiesa».
L’unico
vero riformatore
Ripetuti strali vengono lanciati contro la clericalizzazione del
laicato e la secolarizzazione del sacerdozio, definiti «i due veri ostacoli
al cammino del popolo di Dio dopo il Concilio. Ambedue questi fenomeni hanno
avuto origine nella Chiesa tedesca, supportati dalla teologia di Karl Rahner».
Molti altri sono i passaggi frizzanti
presenti nel libro, alternati a citazioni formidabili, come quelle da Bernanos: «La Chiesa non ha bisogno di
riformatori, ma di santi. (…) Non si riforma la Chiesa che soffrendo per essa,
non si riforma la Chiesa visibile che soffrendo per quella invisibile».
«Il
mio desiderio», conclude Camisasca, «è stato mostrare che l’unico vero
riformatore è Dio e dietro a lui gli uomini di Dio».
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