lunedì 20 febbraio 2023

ALLE ORIGINI DELL'ASTENSIONISMO

 PERCHÉ CRESCE IL PARTITO DEL NON-VOTO

di Luca Ricolfi

 Il declino della partecipazione alle elezioni regionali è solo uno dei modi in cui si manifesta un cambiamento culturale più ampio, che ha trasformato la società dagli anni '50 a oggi. E ha alterato l'equilibrio fra diritti e doveri


Raramente una consultazione elettorale ha fornito risultati tanto chiari: netto successo della destra, tenuta della Lega, sconfitta della sinistra, evanescenza del Terzo polo. Ma altrettanto raramente il risultato elettorale è stato così fragile: con una partecipazione del 40%, in due Regioni che includono Roma e Milano, il dato sociologico dominante diventa il non-voto.

Sulle ragioni della disaffezione, molto potranno dire i sondaggi che le esploreranno in profondità, analizzandone i risvolti psicologici e politici. Qui vorrei però formulare una riflessione di tipo storico, visto che il calo della partecipazione è in atto da decenni, non solo in Italia.

La mia impressione è che, se vogliamo comprenderne l'origine profonda, dobbiamo metterlo in relazione a fenomeni più generali, anch'essi in atto da tempo. Detto altrimenti, il declino della partecipazione è solo uno dei modi in cui si manifesta un cambiamento culturale molto più ampio, che ha radicalmente trasformato la società italiana dagli anni '50 a oggi.

Volendo andare subito all'osso, la metterei così: è progressivamente sparita la convinzione, profondamente radicata almeno fino agli anni '70, che il progresso sociale e individuale ha costi elevati. La generazione dei miei genitori considerava ovvio che le aspirazioni di ascesa sociale richiedessero duro lavoro, risparmi, sacrifici, differimento della gratificazione.

La mia generazione era perfettamente consapevole che lo studio e l'impegno scolastico fossero prerequisiti necessari per la propria autorealizzazione. Ed entrambe non mettevano in dubbio che il progresso sociale, fatto di migliori condizioni di vita per gli oppressi e conquiste di libertà per tutti, richiedesse la fatica della lotta politica e sindacale, la mobilitazione dei movimenti collettivi, e naturalmente la partecipazione al voto.

Ebbene oggi tutto questo è venuto meno. Poco per volta, all'idea che qualsiasi meta comporti sacrifici e impegno, è subentrata l'idea di essere titolari di diritti, che è compito di altri, Stato e istituzioni innanzitutto, rendere esigibili.

Questa inclinazione alla delega si manifesta un po' in tutti gli ambiti. Ai problemi dello sfruttamento - nelle fabbriche come nei campi, negli uffici come nelle consegne a domicilio - non si pensa di rimediare estendendo il raggio dell'azione sindacale, ma imponendo per legge un salario minimo.

Ai giovani, che aspirano giustamente a fare un lavoro gratificante e ben retribuito, spesso sfugge che studiare poco, male, e solo per gli esami, abbassa drammaticamente le loro chance di vita, e che il cosiddetto "diritto al successo formativo", proclamato 25 anni fa dal ceto politico, è un colossale inganno.

Quanto ai diritti civili, anche lì, dopo i gloriosi anni dei referendum e dell'impegno, subentra l'idea che i nuovi diritti siano, appunto, solo diritti, che tocca alle istituzioni rendere attuali, piuttosto che il risultato di movimenti collettivi, che attraverso l'impegno pubblico affermano nuovi valori, e poco per volta li fanno entrare nel senso comune.

Quel che voglio dire, insomma, è che l'astensionismo di massa è solo una delle manifestazioni di un cambiamento più generale della società italiana, che ha alterato radicalmente l'equilibrio fra diritti e doveri, ben chiaro ai padri costituenti.

Del resto, che questo cambiamento vi sia stato, risulta persino nell'evoluzione dei principi costituzionali. Nella Costituzione del 1948 l'articolo sul diritto di voto stabilisce che votare "è un dovere civico". Negli anni '50 la legislazione ordinaria interviene addirittura per rendere sanzionabile la mancata partecipazione al voto.

Ma a partire dal 1993 le cose si muovono in direzione opposta, con la rimozione delle sanzioni e, più recentemente, con la affermazione del principio secondo cui "il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto", sia pure "significante solo sul piano socio-politico" (Corte Costituzionale, sentenza 173/2005).

Ecco perché, a mio parere, sarebbe riduttivo leggere il crollo della partecipazione elettorale come un mero fallimento della politica, con conseguenti immancabili lezioncine a una classe politica ormai incapace di scaldare i cuori.

Che la maggior parte dei politici non ci piacciano è sicuramente vero. Ma forse dovremmo chiederci prima di tutto se ci piacciamo noi, con la nostra ingenua credenza che il successo sia un pasto gratis, e che tocchi ad altri garantirci quelle "conquiste" per le quali, un tempo, trovavamo normale impegnarci in prima persona.

(www.fondazionehume.it)

 

Commenta su Tempi Emanuele Boffi:

L’analisi di Ricolfi è, come spesso capita, interessante, non superficiale e stimolante perché non si ferma al dato di cronaca, ma cerca di indagare quel «cambiamento culturale» che ha portato la nostra società a trasformarsi da un luogo in cui si bilanciavano i diritti e i doveri, in un altro dove solo i primi vengono rivendicati. Ma anche la sua lucida lettura si scontra col fatto che le comodità offerte dalla società signorile sono “invincibili” (almeno nel breve termine) e non superabili con un mero richiamo al ritorno a costumi di un’età passata. (…)

Quel che è venuto meno, a ben vedere, è il motivo per cui vale la pena impegnarsi, lavorare, costruire una società migliore per tutti. Più in profondità: è venuta meno l’idea della gratuità, cioè che il tornaconto del lavoro che ci si impegna a fare (che sia una sedia, una casa o un’autostrada) non è misurabile col metro della realizzazione personale (intesa come carriera o soddisfazione economica) o del cambiamento della società (conquiste salariali, estensione dei diritti o quant’altro), ma è qualcosa che ha a che fare col senso della vita.

Piero della Francesca Arezzo
la Storia della Vera Croce
Eccoci al punto. Al modello della società in cui “tutto è (apparentemente) gratis” non si può solo opporre il modello di una società in cui tutto è (apparentemente) ottenibile a seguito di “uno sforzo”, ma va indicata una via in cui si possa recuperare una dimensione di “gratuità” che renda ogni obiettivo meritevole di sacrificio. Non ci sembra un caso che la società indicata da Ricolfi (quella degli anni 50 – 70) fosse una società in cui l’impronta cristiana era prevalente: cosciente o meno che fosse e aldilà di qualche eccesso bacchettone e moralistico, era una società in cui era chiaro che l’impegno nella vita era volto a servire qualcosa più grande di sé e che, servendolo senza tornaconto (gratuitamente appunto), in realtà si edificava sé e gli altri.

Allora fu un boom economico e demografico (le cose sono connesse), ma è solo teoria pensare di riproporre oggi quel che fu. Sarebbe più intelligente, laddove si presenta, valorizzare quelle esperienze (famiglie, associazioni, imprese e, perché no? partiti) dove ancora sia vivo un sentimento della vita non ripiegato su di sé, sui propri diritti e sui propri meriti. Si cambia la storia solo in forza di qualcosa che già esiste.

https://www.tempi.it/alla-radice-del-fenomeno-astensione/

 

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