PERCHÉ CRESCE IL PARTITO DEL NON-VOTO
di Luca Ricolfi
Raramente
una consultazione elettorale ha fornito risultati tanto chiari: netto successo della destra, tenuta
della Lega, sconfitta della sinistra, evanescenza del Terzo polo. Ma altrettanto raramente il risultato elettorale è stato così
fragile: con una partecipazione del 40%, in due Regioni che
includono Roma e Milano, il dato sociologico dominante diventa
il non-voto.
Sulle
ragioni della disaffezione, molto potranno dire i sondaggi che le esploreranno in
profondità, analizzandone i risvolti psicologici e politici. Qui vorrei però formulare una riflessione
di tipo storico, visto che il calo della partecipazione è in atto da decenni,
non solo in Italia.
La mia
impressione è che, se vogliamo comprenderne l'origine profonda, dobbiamo
metterlo in relazione a fenomeni più generali, anch'essi in atto da tempo.
Detto altrimenti, il declino della partecipazione è solo uno dei modi in cui si
manifesta un cambiamento culturale molto più ampio, che ha radicalmente
trasformato la società italiana dagli anni '50 a oggi.
Volendo
andare subito all'osso, la metterei così: è progressivamente sparita la
convinzione, profondamente radicata almeno fino agli anni '70, che il progresso
sociale e individuale ha costi elevati. La generazione dei miei genitori
considerava ovvio che le aspirazioni di ascesa sociale richiedessero duro lavoro,
risparmi, sacrifici, differimento della gratificazione.
La mia
generazione era perfettamente consapevole che lo studio e l'impegno scolastico
fossero prerequisiti necessari per la propria autorealizzazione. Ed entrambe
non mettevano in dubbio che il progresso sociale, fatto di migliori condizioni
di vita per gli oppressi e conquiste di libertà per tutti, richiedesse la
fatica della lotta politica e sindacale, la mobilitazione dei movimenti
collettivi, e naturalmente la partecipazione al voto.
Ebbene oggi tutto questo è venuto meno.
Poco per volta, all'idea che qualsiasi meta comporti sacrifici e impegno, è
subentrata l'idea di essere titolari di diritti, che è compito di altri, Stato
e istituzioni innanzitutto, rendere esigibili.
Questa
inclinazione alla delega si manifesta un po' in tutti gli ambiti. Ai problemi
dello sfruttamento - nelle fabbriche come nei campi, negli uffici come nelle
consegne a domicilio - non si pensa di rimediare estendendo il raggio
dell'azione sindacale, ma imponendo per legge un salario minimo.
Ai giovani,
che aspirano giustamente a fare un lavoro gratificante e ben retribuito, spesso
sfugge che studiare poco, male, e solo per gli esami, abbassa drammaticamente
le loro chance di vita, e che il cosiddetto "diritto al
successo formativo", proclamato 25 anni fa dal ceto politico, è un
colossale inganno.
Quanto ai
diritti civili, anche lì, dopo i gloriosi anni dei referendum e dell'impegno,
subentra l'idea che i nuovi diritti siano, appunto, solo diritti, che tocca
alle istituzioni rendere attuali, piuttosto che il risultato di movimenti
collettivi, che attraverso l'impegno pubblico affermano nuovi valori, e poco
per volta li fanno entrare nel senso comune.
Quel che voglio dire, insomma, è che
l'astensionismo di massa è solo una delle manifestazioni di un cambiamento più
generale della società italiana, che ha alterato radicalmente l'equilibrio fra
diritti e doveri, ben chiaro ai padri costituenti.
Del resto, che questo cambiamento vi sia stato, risulta persino nell'evoluzione dei principi costituzionali. Nella Costituzione del 1948 l'articolo sul diritto di voto stabilisce che votare "è un dovere civico". Negli anni '50 la legislazione ordinaria interviene addirittura per rendere sanzionabile la mancata partecipazione al voto.
Ma a partire
dal 1993 le cose si muovono in direzione opposta, con la rimozione delle
sanzioni e, più recentemente, con la affermazione del principio secondo cui
"il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del
diritto di voto", sia pure "significante solo sul piano
socio-politico" (Corte Costituzionale, sentenza 173/2005).
Ecco
perché, a mio parere, sarebbe riduttivo leggere il crollo della partecipazione
elettorale come un mero fallimento della politica, con conseguenti immancabili
lezioncine a una classe politica ormai incapace di scaldare i cuori.
Che la
maggior parte dei politici non ci piacciano è sicuramente vero. Ma forse
dovremmo chiederci prima di tutto se ci piacciamo noi, con la nostra ingenua
credenza che il successo sia un pasto gratis, e che tocchi ad altri garantirci
quelle "conquiste" per le quali, un tempo, trovavamo normale
impegnarci in prima persona.
Commenta su
Tempi Emanuele Boffi:
L’analisi di Ricolfi è, come spesso
capita, interessante, non superficiale e stimolante perché non si ferma al dato
di cronaca, ma cerca di indagare quel «cambiamento culturale» che ha portato la
nostra società a trasformarsi da un luogo in cui si bilanciavano i diritti e i
doveri, in un altro dove solo i primi vengono rivendicati. Ma anche la sua
lucida lettura si scontra col fatto che le comodità offerte dalla società
signorile sono “invincibili” (almeno nel breve termine) e non superabili con un
mero richiamo al ritorno a costumi di un’età passata. (…)
Quel che è venuto meno, a ben vedere, è
il motivo per cui vale la pena impegnarsi, lavorare, costruire una società
migliore per tutti. Più in profondità: è
venuta meno l’idea della gratuità, cioè che il tornaconto del lavoro che ci si
impegna a fare (che sia una sedia, una casa o un’autostrada) non è misurabile
col metro della realizzazione personale (intesa come carriera o soddisfazione
economica) o del cambiamento della società (conquiste salariali, estensione dei
diritti o quant’altro), ma è qualcosa che ha a che fare col senso della vita.
Piero della Francesca Arezzo la Storia della Vera Croce |
Allora fu un boom economico e
demografico (le cose sono connesse), ma è solo teoria pensare di riproporre
oggi quel che fu. Sarebbe più intelligente, laddove si presenta, valorizzare
quelle esperienze (famiglie, associazioni, imprese e, perché no? partiti) dove
ancora sia vivo un sentimento della vita non ripiegato su di sé, sui propri
diritti e sui propri meriti. Si cambia la storia solo in forza di qualcosa che
già esiste.
https://www.tempi.it/alla-radice-del-fenomeno-astensione/
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