IL CAPOLAVORO CHE IL SALONE DEL LIBRO HA DIMENTICATO E CHE LA SINISTRA HA COMBATTUTO
Se c’è
un libro che ha cambiato la storia, nella nostra generazione, è
sicuramente “Arcipelago Gulag” di Aleksandr Solzenicyn.
Non a caso Raymond Aron definiva lo scrittore-dissidente russo – morto 15 anni fa
– “l’homme du siècle”. La sua opera monumentale sull’immane
macello del comunismo sovietico (e sulla menzogna dell’ideologia
marxista dilagante nel mondo), fu pubblicata esattamente cinquant’anni fa,
nel 1973.
Era
auspicabile perciò che il Salone del libro 2023 – che si sta
svolgendo a Torino in questi giorni – dedicasse all’opera di Solzenicyn una
celebrazione adeguata. Ma nel programma non si trova nulla su “Arcipelago
Gulag”. Peccato. Sarebbe stata finalmente un’occasione di
riflessione per il mondo intellettuale italiano e anche un
risarcimento postumo per Solzenicyn.
Infatti
l’Italia – che aveva il più forte Partito Comunista del mondo
occidentale e, a quel tempo, una galassia di gruppi marxisti
extraparlamentari che dettavano legge in scuole, università e
fabbriche – ebbe una reazione sconcertante all’uscita
dell’opera dello scrittore russo. Un plumbeo conformismo di
sinistra dominava in quegli anni fra gli intellettuali e nei giornali.
Pierluigi
Battista, in un suo saggio uscito nel
VI volume della “Storia d’Italia” (Laterza 1999) curata da
Sabatucci e Vidotto, scriveva: “Mentre in Francia la pubblicazione di
‘Arcipelago Gulag’ aveva ad esempio squassato la cultura di sinistra innescando
un drammatico ripensamento tra gli intellettuali che avevano intensamente
creduto nel ‘Dio che è fallito’, in Italia, nel 1974 [anno dell’edizione in
lingua italiana dell’opera, ndr] gli intellettuali accoglievano quel libro con
freddezza, magari accompagnando la gelida accoglienza con la divulgazione (come
è accaduto) della leggenda nera di un Solzenicyn nientemeno che al soldo del
dittatore Pinochet, oppure semplicemente ignorandolo (resta impressionante, e
basta sfogliare le terze pagine e i supplementi libri dei giornali di allora
per rendersene conto, la singolare esiguità numerica di recensioni per un libro
così importante e decisivo)”.
Per non dire dei commenti espliciti. Giulio Meotti ne ha elencati alcuni sul “Foglio”. Carlo Cassola disse che Solzenicyn era “un retore declamatorio che non vale niente come scrittore”. Umberto Eco – con lo pseudonimo Dedalus – lo definì “un Dostoevskij da strapazzo”. Del resto “Solzenicyn” ricorda Meotti “fu attaccato da Italo Calvino per la sua religiosità slavofila”. E Alberto Moravia lo giudicò “un nazionalista slavofilo della più bell’acqua”.
Anni
dopo Piergiorgio Bellocchio riconoscerà: “Avevamo il
paraocchi. Solzenicyn ci imbarazzava”. Una rara voce fuori dal coro,
a Sinistra, nel 1974, fu quella di Franco Fortini. Egli
puntò il dito sull’“ipocrisia” di chi criticava la qualità
letteraria di Solzenicyn per “mettere fra parentesi i contenuti
storico-politici”. Eppure “il solo contributo politico di
Solzenicyn è quello di metterci davanti agli occhi, insieme alle ossa
di milioni di deportati e di torturati, il ritratto e la buona coscienza di chi
non vuole si parli del passato per non parlare del presente, perché
comincia a intendere che passato e presente sono un’unica cosa”.
Fortini
aggiungeva: “Non c’è da stupirsi che sia tanto diffusa l’insofferenza e
frequente il disprezzo per Solzenicyn (…). Resta il rifiuto autodifensivo di
accettare l’idea di una catastrofe storica. Per paura di confondersi ai nemici
del comunismo si continua e da tanti anni a non ridefinire il comunismo, a
rifiutarne la storia. Si amano le proprie speranze più della verità. Inganniamo
i giovani perché continuiamo a illuderci”.
Questo
è stato forse l’aspetto più terribile e più sottovalutato per quanto riguarda
l’Italia, perché proprio gli anni Settanta furono quelli del grande
indottrinamento marxista che intossicò il Paese e un’intera generazione. I
danni sono stati incalcolabili.
Fortini
scrisse ancora: “Se Solženicyn è quel vero e importante scrittore che
sembra […] se il messaggio che egli ci comunica è quello che più percettibile
ci giunge e cioè di opporre un ‘segretamente umano’ alla disumanizzazione
storica ed una ‘libertà segreta’ ossia etica o etico-religiosa […] bisognerebbe
concludere che la rivoluzione socialista è fallita […] la nostra vita è stata
inutile”.
Ecco
ciò che non si voleva riconoscere e nemmeno considerare. Ciò che tuttora
resta indicibile. La questione non riguarda solo gli intellettuali,
ma anche il Pci che di quella seminagione marxista raccolse i
frutti politici ed elettorali: non ha mai fatto i conti con il “caso
Solzenicyn”.
La
vicenda di Giorgio Napolitano è emblematica.
Quando,
nel 1974, lo scrittore dissidente fu espulso dall’Urss, Napolitano,
come membro della Direzione del PCI e responsabile della Commissione culturale,
dette la linea del partito su “Rinascita”.
Il suo
articolo, riletto oggi, fa una certa impressione: “Nessuno
può negare che lo scrittore… avesse finito per assumere un atteggiamento di ‘sfida’ allo Stato sovietico e alle
sue leggi, di totale contrapposizione, anche nella pratica,
alle istituzioni… Non
c’è dubbio che questo atteggiamento — al di là delle stesse tesi
ideologiche e dei già aberranti giudizi politici — di Solgenitsyn, avesse suscitato larghissima riprovazione nell’URSS. Che questa ormai aperta, estrema ‘incompatibilità’ sia
stata sciolta dalle autorità sovietiche non con un’incriminazione di
Solgenitsyn, ma con la sua espulsione, può essere considerato più o meno ‘positivo’; qualcuno
può giudicarla obiettivamente, come l’ha giudicata, la ‘soluzione
migliore’”.
Napolitano
riconosceva, a nome del Pci, che si trattava di una “grave
misura restrittiva dei diritti individuali; ma” aggiungeva “solo commentatori faziosi e sciocchi possono prescindere dal punto di rottura cui
Solgenitsyn aveva portato la situazione e possono… evocare lo
spettro dello stalinismo”.
Napolitano,
nella sua autobiografia del 2006, non fece parola di ciò
che scrisse nel 1974. Anzi, in quel libro non citò mai Solzenicyn e
il suo caso. In Italia il silenzio ancora avvolge “Arcipelago Gulag”.
Antonio
Socci
Da
“Libero”, 21 maggio 2023
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