il testo dell’intervento di Jorge Mario Bergoglio, allora Arcivescovo di Buenos Aires, in occasione della presentazione pubblica dell’edizione spagnola de Il senso religioso, il 16 ottobre del 1998, a Buenos Aires.
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Quando ho tenuto la conferenza sulla quale si basa questo testo, in occasione
della presentazione dell’edizione spagnola de Il senso religioso,
non ho compiuto un gesto di protocollo formale, e neppure ciò che potrebbe
apparire come una semplice curiosità scientifica davanti a un’opera che ha a
tema una messa a fuoco dell’esposizione della nostra fede.
Innanzitutto ho
compiuto un doveroso atto di gratitudine verso monsignor Giussani. Da molti
anni i suoi scritti hanno ispirato la mia riflessione, mi hanno aiutato a
pregare. Mi hanno insegnato a essere un cristiano migliore, e il mio intervento
volle rendere testimonianza a questo.
Monsignor Giussani è uno
di quei doni imprevedibili che il Signore ha regalato alla nostra Chiesa dopo
il Concilio, facendo nascere, al di là di tutte le strutture e le
programmazioni pastorali, una fioritura di persone e movimenti che stanno
offrendo miracoli di vita nuova all’interno della Chiesa.
Il senso religioso non è un libro a uso esclusivo di coloro che fanno parte del movimento; neppure è solo per i cristiani o per i credenti. È un libro per tutti gli uomini che prendono sul serio la propria umanità. Oso dire che oggi la questione che dobbiamo maggiormente affrontare non è tanto il problema di Dio – l’esistenza di Dio, la conoscenza di Dio –, ma il problema dell’uomo, la conoscenza dell’uomo e il trovare nell’uomo stesso l’impronta che Dio vi ha lasciato perché egli possa incontrarsi con Lui.
Fides et ratio
È una felice coincidenza il fatto che questa presentazione abbia avuto luogo il
giorno dopo la pubblicazione dell’Enciclica Fides et ratio di
Giovanni Paolo II, che si apre con questa densa considerazione:
Un semplice sguardo alla storia antica, d’altronde, mostra con chiarezza
come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello
stesso tempo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell’esistenza
umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del
male? cosa ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono presenti
negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli
Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella
predicazione dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei
poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici
di Platone e Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine
nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta
a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza. (1)
Il libro di monsignor Giussani è in linea con l’Enciclica: è per tutti gli
uomini che prendono seriamente la propria umanità, che prendono sul serio
questi interrogativi.
Paradossalmente ne Il senso religioso si parla poco di Dio e
molto dell’uomo. Si parla molto dei nostri “perché”, molto delle nostre
esigenze ultime. Citando il teologo protestante Niebuhr, lo stesso Giussani
spiega che «non esiste niente di più incomprensibile della risposta a una
domanda che non si pone» (2). E uno dei problemi della nostra cultura da
supermercato – che presenta offerte alla portata di tutti per tranquillizzare
il cuore – è il dare voce a queste domande del cuore. Questa è la sfida. Di
fronte al torpore della vita, a una tranquillità offerta a poco prezzo da una
cultura da supermarket (anche se estremamente variata nelle sue forme), la
sfida consiste nel rivolgere a noi stessi i veri interrogativi riguardo al
significato dell’uomo, alla nostra esistenza, e nel dare risposta a queste
domande. Ma se vogliamo rispondere a domande alle quali non osiamo o non
sappiamo rispondere, o non riusciamo a formulare, cadiamo in un assurdo.
Per un uomo che abbia dimenticato o censurato i suoi “perché” fondamentali e
l’ardente anelito del suo cuore, il fatto di parlargli di Dio risulta un
discorso astratto, esoterico o una spinta a una devozione senza nessuna
incidenza sulla vita. Non si può iniziare un discorso su Dio, se prima non
vengono soffiate via le ceneri che soffocano la brace ardente delle domande
fondamentali. Il primo passo è trovare il senso di tali domande che sono
nascoste, sotterrate, forse quasi morenti, ma che esistono.
L’inquietudine del cuore
Il dramma del mondo d’oggi è il risultato non solamente dell’assenza di Dio, ma
anche, e soprattutto, dell’assenza dell’uomo, della perdita della sua
fisionomia, del suo destino, della sua identità, della capacità di spiegare le
esigenze fondamentali che si annidano nel suo cuore. La mentalità comune, e
purtroppo anche quella di molti cristiani, suppone che tra ragione e fede
esista una contrapposizione insanabile. Invece – e qui sta un altro paradosso
– Il senso religioso sottolinea il fatto che parlare seriamente
di Dio significa esaltare e difendere la ragione e scoprirne il valore e il
metodo corretto per usarla. Non una ragione intesa come misura prestabilita
della realtà, ma una ragione aperta alla realtà nella totalità dei suoi fattori
e che parte dall’esperienza, che parte da questo fondamento ontologico che
suscita l’inquietudine del cuore. Non si può sollevare il problema di Dio a
cuore quieto, tranquillamente, perché si tratterebbe di una risposta senza
domanda.
La ragione che riflette sull’esperienza è una ragione che ha come criterio di
giudizio il mettere tutto a confronto con il cuore, ma con il cuore nel senso
biblico, cioè come quell’insieme di esigenze originali che ogni uomo possiede:
il bisogno di amore, di felicità, di verità e di giustizia. Il cuore è il
nocciolo del trascendente interno, dove hanno le loro radici la verità, la
bellezza, la bontà, l’unità che dà armonia a tutto l’essere. In questo senso
definiamo la ragione umana; non il razionalismo, quel razionalismo da
laboratorio, l’idealismo o il nominalismo (quest’ultimo così di moda), che
tutto possono, che pretendono di possedere la realtà possedendo il numero,
l’idea o la razionalizzazione delle cose. O, se vogliamo andare ancora più in
là, pretendono di possedere la realtà dominando in maniera assoluta una tecnica
che ci supera nel momento stesso in cui la usiamo, venendo così a cadere in
quella civiltà che Guardini amava chiamare «la seconda forma di incultura».
Noi, invece, parliamo di una ragione che non è ridotta né si esaurisce nel
metodo matematico, scientifico o filosofico. Ogni metodo, infatti, è adeguato
al suo proprio ambito di applicazione e al suo oggetto specifico.
Certezza esistenziale
Riguardo alle relazioni personali, l’unico metodo adeguato per arrivare a una
vera conoscenza è vivere, e vivere insieme una compagnia vivace che, attraverso
molteplici esperienze e segni, permette di arrivare a quella che Giussani
chiama «certezza morale» o, ancor meglio, «certezza esistenziale» (3). Questo è
il solo metodo adeguato, perché la certezza non sta nella testa, ma nell’armonia
di tutte le facoltà dell’uomo e possiede tutte le condizioni per essere una
certezza al contempo reale e razionale.
A sua volta la fede è, precisamente, un’applicazione particolare del metodo
della certezza morale o esistenziale, un caso particolare di fiducia
nell’altro, nei segni, negli indizi, nelle convergenze, nella testimonianza di
altri. Nonostante ciò, la fede non è contraria alla ragione. Come tutti gli
atti tipicamente umani, la fede è ragionevole, cosa che non implica che possa
ridursi a un mero raziocinio. È ragionevole – forziamo l’espressione –, ma non
raziocinante.
Perché esiste il dolore, perché esiste la morte, il male? Perché vale la pena
di vivere? Qual è il significato ultimo della realtà, dell’esistenza? Che senso
ha lavorare, amare, impegnarsi nel mondo? Chi sono io? Da dove vengo? Dove
vado? Questi sono i grandi ed elementari interrogativi che si pone un giovane,
e anche un uomo adulto; e non solo i credenti, ma qualsiasi uomo, per ateo o
agnostico che sia. Presto o tardi, specialmente nelle situazioni-limite
dell’esistenza, di fronte a un grande dolore o a un grande amore,
nell’esperienza dell’educare i figli o nell’esercizio di un lavoro in apparenza
senza senso, tali interrogativi vengono inevitabilmente a galla. Sono domande
che non possono essere estirpate. Ho detto che sono interrogativi che si pone
anche un agnostico. Voglio menzionare qui, rendendogli omaggio, un grande poeta
di Buenos Aires, un agnostico, Horacio Armani. Chi legge le sue poesie trova
una saggia esposizione di domande aperte a una risposta.
Risposta totale
L’uomo non può accontentarsi di risposte ridotte o
parziali che lo obbligano a censurare o a dimenticare qualche aspetto della
realtà. Di fatto, tuttavia, lo facciamo: e questo è solo un fuggire da se
stessi. L’uomo ha bisogno di una risposta totale che comprenda e salvi tutto
l’orizzonte del suo “io” e della sua esistenza. Dentro di sé egli possiede un
anelito di infinito, una tristezza infinita, una nostalgia – il nostos algos di Ulisse – che si appaga solo con una
risposta ugualmente infinita. Il cuore dell’uomo mostra di essere segno di un
Mistero, cioè di qualcosa o di qualcuno che è una risposta infinita. Al di
fuori del Mistero le esigenze di felicità, di amore, di giustizia non
incontrano mai una risposta che soddisfi fino al fondo il cuore dell’uomo. Se
questa risposta non esistesse, la vita sarebbe un desiderio assurdo.
Non solo il cuore dell’uomo, ma anche l’intera
realtà si presenta come segno. Il segno è qualcosa di concreto, indica una
direzione, qualcosa che si può vedere, che rivela un significato, di cui si può
fare esperienza, ma che rimanda a un’altra realtà che non si vede. In caso
contrario il segno non avrebbe significato.
D’altra parte, per interrogarsi di fronte ai segni
è necessaria una capacità profondamente umana, la prima che abbiamo come uomini
e donne: lo stupore, la capacità di stupirsi, come la chiama Giussani, in
ultima istanza un cuore di bambini. Il principio di ogni filosofia è lo
stupore, e solo lo stupore porta alla conoscenza. Notate che la degradazione
morale e culturale inizia a sorgere quando questa capacità di stupore si
indebolisce, si annulla o muore. L’oppio culturale tende ad annullare,
indebolire o uccidere tale capacità di stupore. Papa Luciani una volta disse
che il dramma del cristianesimo contemporaneo risiede nel mettere categorie e
norme al posto dello stupore. Lo stupore viene prima di tutte le categorie, è
ciò che mi porta a cercare, ad aprirmi; è ciò che rende possibile la risposta,
che non è né una risposta verbale, né concettuale. Perché se lo stupore mi apre
come domanda, l’unica risposta è l’incontro: e solo nell’incontro si placa la mia sete, in
niente di più.
NOTE
(1) Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et ratio, 14 settembre 1998, 1.
(2) Cfr. R. Niebuhr, Il destino e la storia. Antologia degli scritti, BUR Milano 1999, p. 66.
(3) L. Giussani, Il senso religioso, BUR, Milano 2023, pp. 28-29.
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