Che i cattolici siano sparsi è un bene?
«È un dolore», diceva il fondatore di Cl.
Antonio Simone
Nei giorni scorsi (l'articolo è del 2018) mi è capitato di venire a conoscenza di un incontro a Milano,
nell’immanenza delle elezioni politiche, a cui partecipavano quattro candidati
in quattro liste diverse per l’elezione del consiglio regionale lombardo (Pd,
Forza Italia, Energie per l’Italia, Noi per l’Italia), tutti affezionati
partecipanti alla vita di Comunione e Liberazione.
Mi è sembrata una cosa un po’ strana. Infatti il pensiero del fondatore di Cl è
sempre stato chiaro e semplice circa l’unità in politica dei cristiani, anche
in epoche diverse, in contesti cambiati, in periodi difficili o più o meno
“liquidi”.
Un breve excursus storico.
Come giudica le divergenze tra cattolici che si manifestano sul terreno
sociale o politico?
Idealmente noi dobbiamo
tendere all’unità anche in politica, perché i cristiani debbono tendere
all’unità in tutto, dato che sono un corpo solo. Perciò è un dolore non
trovarsi dello stesso parere, non un diritto conclamato sconsideratamente. È
dolorosa, anche se tante volte inevitabile, la diversità, e bisogna essere
tutti tesi a scoprire il perché il fratello la pensa diversamente e
comunicargli nel modo migliore i motivi della propria convinzione, nella
ricerca dell’unità.
Per molti invece il pluralismo è un valore in sé…
È esattamente questo che noi
combattiamo. Il Sinodo, parlando dei cristiani, non ha usato la parola
“pluralismo”, ma “multiformità”: multiformità è, per esempio, la presenza nella
Chiesa del movimento dei Focolari, dell’Azione Cattolica, di Cl, che sono
diverse modalità di sperimentare la stessa cosa che è il fatto cristiano; così
fra loro c’è un’affinità, una parentela profonda. Uno è contento di vedere che
l’altro ha una fantasia diversa dalla propria…
E il pluralismo?
Il pluralismo invece è l’esito dell’impatto della fede sul campo culturale: che
ci sia, per esempio politicamente, diversità fra cattolici, è umanamente
comprensibile, ma non è l’ideale. L’importante che almeno, pur avendo opinioni
diverse, ci si senta dentro la stessa cosa, ma spesso questo non avviene: in molto associazionismo cattolico e anche
in molte parrocchie, pesa di più essere della stessa parte politica piuttosto
che della stessa fede. La posizione giusta, secondo noi, è quella opposta:
siccome è più forte la nostra fede, anche se la pensiamo diversamente siamo
protesi a imparare l’uno dall’altro, a cercare di capire senza ostilità. Ma non è un valore il
pluralismo, il valore è la libertà.
Intervista a A. M. Baggio, 1986, in
Luigi Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti.
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Cl e la politica. Un rapporto molto discusso in questi anni, almeno a
partire dal 1974. Qual è la concezione di fondo che ha animato questo rapporto
e che, in diverse forme, lungo diverse vicende, si è manifestata?
È la fedeltà alla concezione dell’uomo e della società implicita
nell’esperienza cristiana e nella prassi della Chiesa, concezione che trova una
sua perspicua esplicitazione nella dottrina sociale del Papa. La fedeltà a
questa visione è stata sempre vissuta fino alla difesa di essa a livello sociale
e politico, attraverso l’impegno convergente di tutti i cattolici. La posizione
di Cl risponde a questa concezione di fondo:
come ha detto il Papa a Loreto, c’è la necessità di
un’unità dei cattolici, che non deriva soltanto da una convenienza politica o
da una convergenza sentimentale di chi ha lo stesso titolo di cristiano, ma
nasce da un fatto. Il fatto è che la comunione battesimale lega così
l’individuo a tutta la realtà ecclesiale che il confronto ultimamente
obbediente con l’espressione autorevole di questa realtà diventa forma del
criterio del singolo. Dunque siamo per l’unità dei cattolici e per la posizione
politica che, almeno teoricamente, vuole essere fedele alla tradizione
cristiana. Ma con un atteggiamento particolare, avendo presente che la Dc è un
partito molto articolato, dove la presenza delle sensibilità e delle
elaborazioni culturali è ampia,
la nostra preoccupazione sarà quella di scegliere e di appoggiare i
candidati che maggiormente diano affidamento nel senso che a noi interessa.
“La politica, per chi, per cosa”,
supplemento a “Il Sabato”, n. 22 del 30 maggio 1987, p. 13-21. Intervista a
monsignor Luigi Giussani a cura di Alessandro Banfi.
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Ruini lo hanno attaccato tutti…
È un fatto gravissimo. Mai il Corriere della Sera si era
permesso di trattare oltraggiosamente in prima pagina il leader dei vescovi
italiani. Ho in mente quel titolo: “Cardinale, lasci stare”. Quasi un ordine
insolente a un servo. Ruini difende l’incarnazione, il centro dell’esperienza
cristiana, oggi minacciato più che mai. È tanto semplice: Cristo con il
battesimo ti assume, così che siamo membra gli uni degli altri. È una cosa
dell’altro mondo, ma questa è l’unità cristiana. Se tutti siamo una cosa sola
non possiamo non cercare di esprimerci concordemente. E perciò ci raduniamo in
azione unitaria. Se uno non se la sente o non ci fossero le condizioni, è un
dolore non poterlo fare, non un diritto da sbandierare! C’è un altro criterio
che viene oltraggiato, ed è invece così umano: l’obbedienza. È il criterio supremo
dell’azione cristiana. Il criterio della verità è ultimamente fuori di noi – e
questo fa imbestialire i nemici del cristianesimo. Sì: obbediamo! Ci toglie
dalla balìa del potere che occupa e dirige le coscienze illudendole della loro
autonomia e invece, credendo di essere liberi, obbediscono a uomini. L’obbedienza cristiana pesca nel
mistero. E invece chi si dipinge come autonomo obbedisce a quella ridicola
menzogna che ha come criterio di base la valutazione morale dell’altra persona.
Una cosa atroce, disumana.
Intervista a Renato Farina, Il
Sabato, n. 17, 25 aprile 1992, pp. 14- 15
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Lei ritiene che sia un bene la fine dell’unità politica dei cattolici?
Non so se è un bene. È un fatto, perfettamente previsto dall’autorità della
Chiesa e prevedibile nel fatto di libertà della coscienza cristiana. Anche se,
là dove l’unità che i cattolici hanno come oggetto di fede – membra di un solo
Corpo per la comunione battesimale – quando si realizzasse anche a un livello
socio-politico, sarebbe sempre per la società umana, qualunque posizione uno
avesse, un esempio confortante. Unità in funzione della Chiesa e non di un
partito politico o di uno schieramento. Lo ha ribadito il Papa a Palermo e al
Te Deum del 31.
Intervista a P. Battista, La Stampa, 4 gennaio 1996
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Ciò che emerge nella impostazione del pensiero di don Giussani è la scelta
semplice ed intelligente dell’obbedienza, quando richiesta anche sul terreno
politico, dall’autorità della Chiesa.
Ancor più travolgente e attuale mi pare il brano tratto da una conferenza fatta
alla fondazione Adenauer per i dirigenti del Movimento Cristiani Lavoratori nel
1986 dal titolo “La crisi dell’esperienza cristiana come trionfo del potere”.
Quest’ultimo intervento in particolare mi sembra essere un grande suggerimento
per il compito che spetta ai cristiani impegnati in politica nel loro rapporto
col potere, al di là della questione partitica. Perché ieri come oggi (ieri gli
studenti, oggi i cinquestelle) non ci si può unire in base alle domande, alle
esigenze, alle recriminazioni, ma in base alle «risposte», come insegna appunto
Giussani.
«Più acuto è il corollario circa l’unità della gente, l’unità del popolo, di
una folla. L’unità, in un simile contesto di potere, deriva dalla identità
delle esigenze. Insomma, uno è considerabile per le esigenze che ha, per le
domande che fa, per le domande in cui traduce delle esigenze.
Ma l’unità deve essere fatta sulle esigenze, sulle domande che le esprimono, o
piuttosto sulle risposte che a queste domande si riconoscono? L’unità può essere fatta sulle esigenze?
No, e questo è il punto esatto in cui il potere gioca tutto. L’unità, infatti,
può essere costruita solo sulle risposte che si riconoscono.
Pensiamo al Pascoli, la bella poesia I due fanciulli, oppure
a Il focolare: l’unità è fondata sul bisogno comune, sullo
smarrimento comune, ma ciò non può impedire che molti si stacchino dagli altri
e vadano via bestemmiando i compagni. Una
unità fondata sulle esigenze, sulle domande, e non sulle risposte conosciute
non è un’unità che unisca.
Peggio, una unità fondata, dunque ricercata, sulle incertezze e sulle
indigenze, sulla necessità di far fronte a un potere avverso, di superare certe
circostanze, una unità fondata sul riconoscimento di limiti che bisogna
oltrepassare: ecco, il potere si costruisce a questo punto.
Vediamo un esempio di attualità: gli studenti. Dicono: uniamoci, perché abbiamo
tutti le stesse esigenze, manchiamo tutti delle stesse cose. E questo diventa
un motivo globale, totalizzante. Chi interviene con una sinergia mestatrice più
forte, domina tutto, dà la sua risposta.
Vorrei aggiungere una osservazione che mi sembra importante. Il potere che uno
si riconosce fra le mani coincide con una appartenenza. È una appartenenza che
dà la soggettività che la definisce, che le dà densità.
La vaghezza pascoliana del «comun destino» dà una appartenenza ben da poco. Ma
la appartenenza di un popolo a chi sembra far giustizia è forte, anche se
estremamente provvisoria. L’appartenenza della gente a chi è più forte, a chi
dalle circostanze è fatto vincente, è evidente. Questi infatti viene criticato
mentre si fa strada rubando e massacrando, ma appena giunge al potere tutti lo
onorano».
DA TEMPI 2018