Sono certa che mi stai dicendo qualcosa, ma non capisco
bene. Deve avere a che fare con tanto dolore visto, tramutato in roccia
È, evidentemente, un trono. Alle sette di sera di una bollente
giornata di luglio scendo dall’auto, arrivata da Milano, e me lo trovo davanti:
rosso fuoco nel tramonto, imponente. Sas dla Crusc, sopra al paese di Badia,
come potevo averti dimenticato?
Tu sovrano, adagiato da un evo
incalcolabile su questo grembo fecondo di prati in fiore. Tu che da molto prima
della Storia sei qui, imperturbabile, e non muovi una fibra della tua faccia di
roccia sotto al ghiaccio dell’inverno, o nel calore che stasera, ne sono certa,
intiepidisce le tue cime.
Tempeste, epidemie, guerre, e tu
lì, uguale. Ricordi, Sas dla Crusc, che quindici anni prima della nascita di
Cristo arrivarono qui le legioni romane, e contesero ai Reti questa valle?
M’immagino l’angoscia di quelle
genti nello scorgere, dai luoghi di vedetta, l’avanzare delle falangi compatte.
E l’impatto delle armi, il clangore delle spade, il sangue, gli stupri. Una
deflagrazione di violenza nella valle d’Eden. Quei popoli sottomessi ti
guardavano: vedevano forse in te anche loro il trono di un dio, che li aveva
traditi? Poi, meno di un anno dopo, nacquero i primi figli delle donne violate:
e avevano il rosso dei capelli dei Reti e gli occhi scuri dei Romani. I primi
Ladini. L’odio, nel tempo, si stemperò. Ci furono madri che riuscirono a amare,
nonostante tutto, quei figli che erano stati violenza e onta. La lingua ladina,
dolce, lingua da fiabe, qui si parla ancora.
Quindici anni dopo quei giorni,
in un paese molto lontano, venne al mondo Cristo. Ma sarebbe arrivato anche
qui, e avrebbe per secoli impregnato queste valli. (Ad ogni passo, ancora oggi,
incontri nei campi un crocefisso di legno liso dalle intemperie).
E il Sas dla Crusc stava a
guardare. Fame e pestilenze, nei cimiteri fioriti, stretti attorno alle pievi
come pulcini alle chiocce, quante croci più piccole: bambini portati via a grappoli
dai masi, insieme, da mali di cui oggi sorridiamo. Quante veglie di madri su
figli febbricitanti, fino all’alba; quante interminabili attese di figli
partiti soldati.
Quanto di dolore hai visto, dal
tuo trono? Sono forse incrostazioni di dolore quelle righe orizzontali
inscritte nella tua mole? Dolore e preghiere e speranza assorbiti, e mai
dimenticati.
Ma nello splendore sfolgorante di
questo tramonto la tua massa di materia dura pare trasfigurata. Il sole che
cade ti rende rosso e splendente, come se alla fine del giorno tu emanassi,
restituissi luce. Ti sto a guardare attonita, la portiera dell’auto ancora
aperta, il cofano caldo della corsa da Milano. Come avevo potuto dimenticarti,
Sas dla Crusc. E che cosa vuoi dire stasera, alla donna che tanto ti ha
interrogato da giovane, e che ormai è quasi vecchia?
Sono certa che mi stai dicendo
qualcosa, ma non capisco bene. Deve avere a che fare con tanto dolore visto,
ascoltato, tramutato in roccia.
Non intendo bene. Ma starò zitta,
in ascolto, a guardarti, in queste sere. Starò in contemplazione. Avverto
addosso, da te, l’eco e quasi la promessa di una parola su di me, buona.
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