Simona Beretta ordinario di Politiche economiche internazionali all’Università Cattolica di Milano
Non è facile parlare di transizione ecologica. Non lo è perché il rischio, elevato, è quello di cadere in polarizzazioni o stereotipi che poco o nulla aiutano a capire di cosa stiamo parlando. La lotta per le risorse del pianeta che scatena conflitti e genera povertà e migrazioni, l’impoverimento dei beni della Terra, la disoccupazione giovanile e le sue drammatiche conseguenze: non sono temi slegati tra loro, ma profondamente connessi. A monte delle tante storture che il mondo vive, spiega Beretta,, c’è una percezione sbagliata del nostro rapporto con il Mistero. Astrazione? Assolutamente no. «Oggi porsi il problema della transizione ecologica, della cura del creato, non è più scontato perché ci concepiamo solo come individui, quindi facciamo fatica a sentirci membri di una comunità. Pensiamo che il mondo, gli altri, siano qualcosa di assolutamente lontano da noi, così come la politica e le istituzioni. Invece l’apertura cattolica, l’apertura all’universale è un tratto a cui ci si può educare, ci si deve educare».
Cosa intende per “apertura all’universale”?
Nei Pensieri improvvisi Andrej Sinjavskij racconta di un
contadino che si ferma sotto le stelle dell’immensa steppa russa, le guarda e
si fa il segno della croce. In quel momento, dice Sinjavskij, quell’uomo ha un
legame con l’universo incomparabilmente più significativo di chi si siede sul
divano, indossa stivaletti di pelle di importazione cecoslovacca e fuma il
sigaro cubano. La globalizzazione non è fumare il sigaro cubano. La vera
percezione del mondo ce l’hai quando sei capace di guardare le stelle.
Immedesimarci nell’esperienza degli altri è l’unico strumento che abbiamo per
capire la povertà, le migrazioni, l’impoverimento delle risorse della Terra. E
quindi, eventualmente, agire. Siamo chiamati a uscire dalla nostra bolla.
Oggi siamo in otto miliardi di persone
sulla Terra, ma l’accesso alle risorse è estremamente sbilanciato…
Viviamo in un mondo popoloso, la percentuale di giovani è la più grande mai
registrata nella storia: oltre il 40% della popolazione mondiale ha meno di 24
anni – oltre tre miliardi di persone – concentrata nel sud del Mediterraneo. È
una cosa bella, eppure la situazione è problematica: la disoccupazione
lavorativa e intellettuale giovanile è una realtà a tutte le latitudini. Chi
dovrebbe essere portatore delle risorse umane più brillanti, più vivaci, è
tagliato fuori dal contribuire a costruire il mondo, mentre le gerontocrazie
sono la norma. E oltre all’aspetto demografico ce n’è un altro decisivo:
l’accesso ai beni materiali non è garantito a tutti. La maggior parte della
popolazione non ha accesso al cibo, all’istruzione, alla sanità, alla partecipazione
sociale e politica. Manca il lavoro. Questo crea un’enorme diseguaglianza di
opportunità concrete di partecipare in modo degno alla vita.
Il tema della mancanza di lavoro è sentito ovunque.
Non possiamo pensare che una società si sviluppi in maniera sana se la gente
non ha lavoro. Come si fa a creare lavoro? Non c’è una ricetta. Si può creare
reddito in maniera falsa, ma non lavoro: in esso l’uomo esprime il suo diritto
e dovere di partecipazione. La dignità dell’uomo passa dal poter lavorare. Una
delle ricerche che stiamo facendo in Cattolica si intitola “Working out of
poverty”, è un progetto che studia come uscire dalla povertà attraverso
relazioni stabili di accompagnamento. Pensiamo a quale differenza c’è tra un
ente che fa solo assistenzialismo e uno che invece si fa carico della persona
nella sua interezza, la spinge a muoversi di fronte a una proposta realistica e
ragionevole. Ricordo ancora la bellissima frase di monsignor Eugenio Corecco,
vescovo di Lugano molto amico di don Giussani, esposta fuori dalla Caritas
ticinese, in Svizzera: «Il povero è sempre di più del suo bisogno». È tutto lì.
Non risolviamo la povertà, la disoccupazione o il problema ambientale
tecnocraticamente o moralisticamente. Chiediamoci piuttosto con realismo quali
sono i nessi fra povertà e ambiente, perché l’ambiente si degrada o si risana;
andiamo a studiare la differenza sostanziale tra assistenzialismo e promozione
della capacità di autosufficienza delle persone perché siano protagoniste.
Esiste un modo equilibrato di affrontare a livello socio-economico queste
problematiche?
Non esistono soluzioni facili. Il primo punto da riguadagnare è il principio
della dignità della persona, che è l’asse portante dell’insegnamento sociale
cristiano e della Dottrina sociale della Chiesa. Vivere in una comunità è parte
essenziale della dignità della persona perché le dà la possibilità di
partecipare al bene comune e costruire il domani. Solo che viviamo in un’epoca
in cui abbiamo appiattito l’orizzonte temporale: il futuro ci spaventa ma non
entra nella nostra autocomprensione del presente, di cosa significa per noi
lavorare o consumare. Non abbiamo idea di come iniziare i processi di
cambiamento.
Come mai?
Siamo abituati a tempi veloci, alla reazione istantanea, istintiva, emozionale
e non all’immedesimazione con un universo più grande di noi, con una realtà
economica, sociale, politica più grande dei nostri piccoli interessi. Così
affrontiamo solo i piccoli problemi con strumenti di tipo tecnocratico, con un
uso della scienza frammentato che non sa più tenere insieme tutti i pezzi. Ad
esempio, non sappiamo più cosa sia davvero il lavoro universitario, mentre un
tempo le università erano il luogo dove in qualche modo si cercava una
comprensione unitaria del mondo. Costruire nessi è il grande lavoro che il
contadino russo faceva contemplando le stelle nella steppa e che compete a
ciascuno. Altro esempio, relativo alla transizione ecologica: sembra che non si
riesca più a percorrere la via dell’insieme, cioè il multilateralismo. Questa è
la constatazione, molto realistica, rilanciata dal messaggio che il Papa ha
preparato per la Cop28 del dicembre scorso. Dice anche che questa generazione
deve porre le fondamenta di un nuovo multilateralismo, uscendo dai
particolarismi nazionali e anche dalle secche di dibattiti sterili fra
catastrofisti e negazionisti climatici. Un cambiamento necessario, ma «non ci
sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali» (Laudate Deum,
70).
Si può educare tutti a una transizione ecologica?
Certamente, si deve! Per rimanere alla Cop28, il messaggio di Francesco per
l’inaugurazione del Faith Pavillion afferma che il dramma climatico è un dramma
religioso, la cui radice sta nella presunzione di autosufficienza della
creatura. L’incontro fra le comunità religiose, nel nostro mondo plurale, è un
modo realistico di agire per un cambiamento culturale. Guardiamo al messaggio
cristiano – che è tutto fuorché moralista (“devi essere vegetariano”, “devi
consumare poca acqua”, “devi consumare poca energia”) – quando ci ricorda che
c’è un senso, c’è un destino comune che non è estraneo all’esperienza
personale. L’essere radicati nella realtà e la certezza del destino permettono
di tracciare una strada. La consapevolezza di dove siamo e di qual è il nostro
compito permette di camminare, non importa quanto intricati siano i problemi,
perché tutto è connesso. Il metodo del cammino è quello della dignità umana:
chiunque incontriamo è destinatario del dono di Dio che ci ha fatti tutti a Sua
immagine. Lo è il migrante che tenta la traversata del Mediterraneo e lo è chi
fugge dalla sua terra desertificata artificialmente per estrarre le terre rare.
Da questo punto di vista la Fratelli Tutti è potentissima. E
arriva a toccare un tema decisivo per la transizione: il principio della
destinazione universale dei beni.
Che cosa significa nel concreto?
La proprietà privata è un bel concetto, ma solo dentro l’orizzonte della
destinazione universale. Oggi l’uomo cerca di accaparrarsi tutto: risorse e
perfino le stelle. Faccio una domanda banale: di chi sono i minerali preziosi
che si trovano in Africa? Di chi ha il potere. Da qui nascono le guerre: da una
pretesa sulla realtà. Viviamo immersi in quello che papa Francesco chiama
«paradigma tecnocratico»: guardiamo la realtà come un oggetto, non sappiamo più
vedere il mistero di cui è intessuta. Una soluzione può esistere solo dentro
una fraternità, che è la nostra identità più profonda: la vera giustizia, cioè
dare a ciascuno il suo, nasce da qui. Però attenzione: serve un giudizio, senza
giudicare la realtà siamo perduti.
Cosa intende?
Il giudizio significa l’impegno totale della persona, della sua intelligenza e
del suo cuore, di fronte alla realtà. Questo è quello che dice la Caritas
in Veritate
Ma gli sforzi del singolo non rischiano di essere insufficienti?
No, mai. Sono quei gesti che cambiano la storia. E faccio due esempi. Il primo riguarda Dorothy Day che diceva: «Voglio un realismo religioso. Voglio qualcuno che preghi per vedere le cose come stanno e per fare qualcosa al riguardo». La sua non era una vita a posto, ma lei ebbe questa intuizione, la consapevolezza direi, che i poveri ci sono e bisogna aiutarli. E come ha fatto? Usando cuore e intelligenza ha aperto la sua piccola casa e lì, non altrove, ha cominciato a scrivere la rivista The Catholic Worker e a fare l’accoglienza ai poveri. Bisogna pregare di capire quali sono le cause reali della povertà, del disagio, altrimenti metteremo a punto solo palliativi.
E il secondo esempio?
Un dettaglio della Laudate Deum che mi ha molto colpito. Al punto 38 dice che se i popoli si incontrano (mi viene da pensare alle grandi tradizioni religiose) diventa possibile un multilateralismo “dal basso” e non semplicemente deciso dalle élite del potere.
Torniamo alla transizione e alle sue conseguenze: anche le istituzioni hanno il loro ruolo. Noi, in Europa, come possiamo affrontarla? Se guardiamo al tema delle migrazioni, ad esempio, non si trovano grandi intese tra i Paesi.
Riscoprendo il compito di questo straordinario Continente. Figure come Schumann, Adenauer e De Gasperi – e qui sta il loro genio – hanno interpretato il senso del popolo, il senso radicale di fratellanza che è la cifra dell’Europa. Un’Europa che ha potuto vivere, nonostante tutte le guerre, un comune intendersi legato alla certezza (oggi persa) che siamo fratelli perché amati da Dio. Leo Moulin, il noto sociologo belga, ha cercato di capire come si sono evolute le istituzioni e la tecnologia in Europa e i suoi studi oggi sono fondamentali per capire che direzione prendere. Era un grande fan dei cistercensi: avevano intuito per primi che erano necessarie elezioni democratiche (l’abate), studiavano nuove tecnologie e dal loro genio sono nati non solo birra e marmellata, ma anche le strade che hanno connesso l’Europa. Questo è un patrimonio che buttiamo via, se pensiamo che l’Europa sia un problema di bilanciamento degli equilibri di potere. L’Europa, dice Moulin, è grande perché storicamente è sempre stata aperta all’altro, investita da nuovi flussi di diversi, con le “invasioni” che hanno generato via via forme originali di convivenza. Non dimentichiamo che l’Europa dei monasteri ha davvero coltivato e custodito la terra in modo armonioso! Servi di Dio, padroni della tecnica e non succubi della tecnocrazia. La deriva tecnocratica ci ha privati invece della capacità di entrare con cordialità totale nell’esperienza dell’altro. Ma è solo quest’ultimo sguardo che cambia l’organizzazione sociale e cambia anche la capacità di innovare, di creare istituzioni, di fare politica, di avviare processi di cambiamento virtuosi e di pensare a una transizione ecologica di ampio respiro.
Su "Tracce" di Gennaio Maria Acqua Simi
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