Mi è arrivato, da più parti, il link a un video che
contiene l’intervento di Fausto Bertinotti ad una recente presentazione del libro di Marco Ascione, La
profezia di CL. Non ho letto quel libro e non so nulla del suo autore,
quindi mi astengo da qualsiasi considerazione in merito ad esso. Anche il
discorso di Bertinotti non mi sembrerebbe, di per sé, così rilevante, ma ciò
che mi ha colpito è il fatto che, a
quanto pare, a diverse persone del movimento esso sia piaciuto tanto da
definirlo “commovente” o “strepitoso” e da promuoverne la diffusione.
A me, invece, è sembrato molto problematico, e in un certo senso addirittura insidioso, e credo sia il caso di spiegare perché. Perciò ne parlo qui, senza alcun intento polemico nei confronti di chicchessia. Prima di tutto, ecco il link:
https://www.youtube.com/watch?v=oloOpt2NkY8&t=228s
Poi una premessa necessaria: io non conosco personalmente Fausto Bertinotti e non mi permetto di discutere la sincerità e la serietà della sua posizione esistenziale, ma nell’ascoltare le sue parole non posso prescindere da ciò che so di lui e della sua storia come personaggio pubblico. A parlare, in questo video, è un navigatissimo uomo politico della sinistra radicale, che ha costruito la sua pluridecennale e fortunata carriera in gran parte su una non comune capacità retorica di épater le bourgeois, se posso permettermi di usare una formula un po’ maliziosa ma non irrispettosa e soprattutto aderente ai fatti. Sarebbe dunque ingenuo pensare che un personaggio come lui, anche quando parla “a braccio” e “in amicizia”, non pesi attentamente le parole, ad una ad una, a seconda dei segnali che vuole mandare. Per questo motivo mi pare opportuno analizzare, sia pur brevemente, ciò che ha detto in quell’intervento, che ad alcuni ciellini è parso così entusiasmante.
All’inizio egli loda il libro di Ascione per aver evitato quelle che chiama le «due vie di fuga» che impedirebbero di comprendere le vicende recenti di Comunione e Liberazione: la «lettura teologica» da una parte e quella «cronachistica» dall’altra. Nessun dubbio che la seconda sia inadeguata, ma la prima? Non mi stupisco che a giudicarla elusiva sia un «incompetente» – quale Bertinotti stesso dichiara di essere (con una formula retorica di esordio, che forse vuol essere solo una captatio benevolentiae, ma che noi dobbiamo invece prendere sul serio, tenendo conto della sua condizione di non credente, peraltro ribadita anche alla fine dell’intervento) – ma per noi cristiani una “lettura teologica” è (o dovrebbe essere) sempre imprescindibile per comprendere i fatti della Chiesa. Tutti i fatti della Chiesa, dai più grandi ai più piccoli. Per quanto possano essere impastate anche di fattori umani (come ad esempio i «personalismi» di cui parla il papa nella sua lettera al presidente della Fraternità di CL del 30 gennaio scorso), le vicende ecclesiali sono sempre innanzitutto il riflesso di questioni teologiche. Perché il punto cruciale è sempre il nostro rapporto con Dio. Di qualunque argomento si parli (o si litighi) nella Chiesa, la prima domanda che dobbiamo sempre farci è: “in che rapporto sta tutto ciò con la nostra fede in Gesù Cristo?”. A me pare che già questo dato dovrebbe renderci, come cristiani, molto cauti nel dare credito ad una visione delle “cose cristiane” che intenzionalmente ed esplicitamente prescinde dalla prospettiva teologica.
In
secondo luogo, egli concentra la sua attenzione sulla «innovazione
che Carrón ha immesso, molto generosamente, sul corpo forte e significativo di
Comunione e Liberazione». (Tutto il discorso, in effetti, è un’apologia di Carrón.
Una cattiva apologia, a mio modesto avviso, che nuoce allo stesso personaggio
elogiato).
Stiamo attenti alle parole che, come ho detto, qui
sono calibrate con attenzione: secondo Bertinotti c’è stata una innovazione, molto
profonda (o “generosa”, come graziosamente si esprime lui) che ha inciso sul
«corpo» di CL, trasformandolo.
L’immagine che
mi viene in mente è quella di un innesto sul tronco di una pianta, che cambia
la varietà dei frutti. Questa, come vedremo subito, è la chiave di lettura
fondamentale del suo discorso. Ora io, che non ho la erre moscia né il cachemire e
che al suo confronto sono un rozzo provinciale, tradurrei così il messaggio: Carrón è altro da
Giussani. Dopo aver sganciato questa pesante (e per me
discutibilissima) affermazione, Bertinotti vira su un elogio del «profeta
disarmato» Carrón, esaltandone l’umiltà e il carattere schivo e «reticente nel
manifestarsi pubblicamente» – elogio su cui non ho nulla da eccepire, ma che di
primo acchito appare piuttosto slegato da ciò che immediatamente lo precede e
lo segue: subito dopo, infatti, passa a ricordare la propria «storia di contesa
con Comunione e Liberazione, a partire da Giesse». In realtà il legame c’è ed
è, a mio avviso, quanto mai insidioso.
Quella con cui litigava, sottintende infatti Bertinotti, era la Cielle di Giussani, perché, come dice lui, «abbiamo sentito tutti il fascino di don Giussani, ma anche la durezza della controversia». Bisogna dunque essere grati a Carrón perché, dato che «la critica a Comunione e Liberazione» – si noti bene: sta parlando della CL di don Giussani, lo ripeto – «per una vocazione integralistica è difficilmente contestabile e don Julian ne è stato l’antidoto».
Il
terzo passaggio del discorso è quello che dettaglia il concetto
appena enunciato dell’alterità di Carrón rispetto a Giussani attorno a tre
parole-chiave: la prima
è verità, a proposito della quale Bertinotti sostiene
che «Julian fa un’operazione importante, perché propone una lettura
della verità senza trono e senza spada» nella convinzione che «la
verità o si afferma per forza propria, o non è […] non è che può chiedere
soccorso al potere, ma neanche alla legge». L’ambiguità scivolosissima di
quest’ultima espressione non è certamente sfuggita a lui nel pronunciarla, e
dunque non deve sfuggire a noi nell’ascoltarla. Che la Verità (che noi
scriviamo con la maiuscola perché è un nome proprio) non debba e non possa
appoggiarsi al «trono», cioè alle Potenze del mondo, è giustissimo; anzi
andrebbe detto che la nostra lotta è contro i Troni, i Principati e le Potestà;
quanto alla spada, invece, bisogna intendersi: quando fa uso di queste
metafore, un cristiano dovrebbe tenere sempre a mente anche il riferimento alla
«armatura di Dio» di cui parla Ef 6, 10-20. Inoltre, quando si dice che la
Verità non può chiedere soccorso al potere si fa un’affermazione condivisibile
(anche se chi di noi ha sentito parlare don Giussani ricorda bene un approccio
totalmente diverso al tema del potere); ma quando si aggiunge «neanche alla legge» si introduce
volutamente, a mio avviso, un equivoco pericolosissimo, perché in sostanza si implica l’espulsione del fatto cristiano, con la
sua imprescindibile pretesa veritativa, dallo spazio pubblico e dall’ordinamento
giuridico che lo regge. Esattamente il contrario di ciò che hanno
cercato di fare, con tutte le forze e a costo della vita, i disarmatissimi
martiri e apologisti cristiani dei primi secoli. Bertinotti è talmente
consapevole di ciò che sta dicendo, che subito dopo cita, come esempio di
questa “nuova concezione carroniana” della verità, la mancata partecipazione di
Cl al Family Day, cioè ad una grande
manifestazione della società civile tesa a promuovere il riconoscimento anche
giuridico di beni fondamentali che la Verità cristiana riconosce e
stima.
La seconda parola che,
secondo Bertinotti, Carrón avrebbe risignificato rispetto a Giussani è libertà Questo
perché, lui dice, nella testimonianza di Carrón «libertà e ragione sono
inscindibili». Di nuovo non ho nulla da eccepire riguardo a Carrón, perché
penso sia vero che anche lui ha praticato e valorizzato tale concetto di
libertà, ma da persona che ha conosciuto don Giussani (come ho raccontato
l’altro giorno qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2024/02/22/il-mio-ricordo-di-don-giussani/)
trasecolo nel sentire che questo sarebbe un “valore aggiunto” rispetto
all’esperienza precedente di CL, perché non ho mai conosciuto un uomo che
venerasse la libertà come don Giussani.
La
terza parola è attrazione, che si riferisce alla capacità del
cristianesimo di attrarre per la bellezza della vita che in esso si vive. Anche
qui, sulla primaria importanza di questo tema (di cui Bertinotti rivendica
il copyright a Carrón, anche se poi, contraddicendosi, deve
ammettere che c’era già in Giussani), non si può che convenire con piena e
fervida adesione.
«La nostra parola iniziale si chiama bellezza», scrive Hans Urs von Balthasar aprendo la sua imponente trattazione dell’estetica teologica in Gloria, e io credo che quasi tutti coloro che hanno seguito don Giussani siano stati inizialmente mossi dall’attrattiva della forma cristiana che la sua compagnia incarnava. Ma guai a separare il Bello dal Vero e dal Buono. Temo invece che, nella rappresentazione del cristianesimo delineata dal non cristiano Bertinotti, questo aspetto venga assolutizzato come unica modalità di rapporto tra il cristiano e gli altri uomini, unica dimensione della presenza cristiana nel mondo. Solo così si spiega, infatti, che egli ne ricavi immediatamente sul piano politico una conseguenza di questo tenore: «il rapporto con la politica prende una curvatura del tutto diversa, non quella del potere e neanche quella della rappresentanza». Di nuovo non ci sfugga l’ambiguità (non innocente, io credo) della formula impiegata: il rifiuto della logica di potere è una cosa che piace a tutti (almeno a parole) e su cui non si può che essere d’accordo, la “rinuncia alla rappresentanza” è tutta un’altra cosa. Di nuovo, da rozzo provinciale quale sono, mi permetto di tradurre la raffinata prosa di Bertinotti con questo sottotesto: “non occupatevi di politica, che a quella ci pensano altri”.
Uscendo da questa strettoia (o ghetto), e ritornando
al tema generale di quello che chiamerei il cristianesimo attrattivo,
mi permetto solo di aggiungere che una lettura attenta degli Atti degli
apostoli come quella che, senza grandi pretese, stiamo conducendo
anche qui sul mio piccolo blog (Vanitas
ludus omnium), fa vedere molto chiaramente che quello non è l’unico volto
della Chiesa (come invece oggi molti sostengono) Nella prospettiva di Atti,
che è il testo fondante di ogni ecclesiologia, il cristianesimo è sì attrattivo,
ma sempre anche critico (nel senso di capace di operare
una krisis di tutto ciò che incontra) e soprattutto martiriale.
Spendo solo una parola su questo: ciò che intendo
dire, in altre parole, è che la Bellezza è sì disarmata, ma non imbelle.
Col suo stesso porsi nel mondo, infatti, la forma
cristiana costituisce un giudizio: apparendo bella, col suo
stesso esserci e manifestarsi, senza bisogno di alzare la voce o di ingaggiare
battaglie ideologiche, essa giudica tutte le altre forme, rivelandone
l’insufficienza o la deformità.
Perché questo non sembri astratto, riflettiamo: può esserci oggi nel mondo una forma più bella della famiglia, così come essa è concepita nel piano di Dio? Può esserci una forma più bella della maternità e paternità? Eppure queste forme belle sono ferocemente combattute, vilipese e negate in ogni modo dal potere mondano e dalla cultura ad esso asservita. Sarebbe dunque illusorio pensare che, limitandosi a vivere la bellezza della loro vita comunitaria i cristiani possano evitare di essere “divisivi”, come si dice oggi e dunque sottratti alla testimonianza, cioè al martirio. Non per niente, alla descrizione della comunità primitiva contenuta nei tre sommari di Atti (2, 42-47; 4, 32-35; 5, 12-16) Luca fa seguire la persecuzione che disperde la prima comunità di Gerusalemme e la “costringe” ad essere missionaria «in Giudea, in Samaria e fino agli estremi confini della terra». La Bellezza è disarmata in quanto è martiriale, e in quanto è martiriale è anche missionaria.
Alla fine del suo intervento Bertinotti, senza averne
l’aria, snocciola le due pillole che, dal mio punto di vista sono le più
indigeste da mandar giù.
Prima dice, testualmente: «Io non sono
d’accordo per niente con chi sostiene che in qualche modo don Julian ha voluto
attribuirsi il seguito del carisma del fondatore. Non è vero, non è vero per
niente […] ma la cosa che
vorrei proporvi è che don Julian proponeva un proprio carisma e che con questo
proprio carisma ha guidato Comunione e Liberazione e per questo io credo
che la sua fuoriuscita sia una perdita per i credenti e per i non credenti».
Mi limito ad osservare che la questione della
successione del carisma del fondatore, a cui Bertinotti accenna per
sbarazzarsene subito quasi con fastidio, da un punto di vista cattolico è
invece delicatissima e di vitale importanza. Non mi azzardo a entrare nel
merito però, come tutti, ho l’obbligo di ricordare che su questo punto oggi c’è
un pronunciamento molto chiaro (e molto pesante) della suprema autorità
ecclesiastica che, tramite il prefetto del Dicastero per i laici e la famiglia,
l’ha ufficialmente definita «gravemente
contraria agli insegnamenti della Chiesa».
Bertinotti, da non cristiano, può forse scavalcarla
con disinvoltura per approdare tranquillamente all’affermazione che Carrón ha
un suo carisma diverso da quello di Giussani. Noi però abbiamo il dovere di
renderci conto di quale sia il peso di un’affermazione del genere (e delle
conseguenze che se ne dovrebbero trarre).
Subito dopo, ed è l’ultima cosa che dice – in
cauda venenum! – sgancia quest’altra bombetta: «volevo
ricordare che un altro sacerdote a cui per ragioni anche generazionali sono
particolarmente legato, che è don Milani, ci comunicò che non sempre
l’obbedienza è una virtù». E qui direi che le conseguenze di ciò che ha
detto prima, lui le ha ben chiare.
In conclusione: io rispetto l’opinione di Bertinotti, che del tutto
legittimamente ragiona da non credente e dice quel che pensa. Non riesco però
in alcun modo a comprendere come da un punto di vista cristiano e, ancor di
più, dal punto di vista di un ciellino, ci si possa riconoscere, o anche
soltanto avvicinare alla rappresentazione che di Giussani, del movimento di CL
e (penso e spero) anche di don Carrón egli esprime in questo intervento.
https://leonardolugaresi.wordpress.com/ Il blog di leonardo Lugaresi
Leonardo Lugaresi e Mons. Massimo Camisasca