LEONARDO LUGARESI
«Per custodire l’unità e far sì che il carisma sappia
interpretare sempre più adeguatamente i tempi in cui siete chiamati a
testimoniare la nostra fede in Gesù Cristo, occorre andare oltre
interpretazioni personalistiche, purtroppo ancora presenti, che rischiano di
sottendere una visione unilaterale del carisma stesso. La incoraggio, perciò,
insieme ai Suoi collaboratori, a continuare il lavoro intrapreso che mira a
preservarne una visione integrale. Il cammino educativo proposto da Lei e da
coloro che La aiutano nella guida del movimento sta anche contribuendo a
correggere alcuni fraintendimenti e a proseguire la vostra missione nella
fedeltà al carisma donato alla Chiesa per il tramite di don Giussani».
In questo spirito, ho pensato di dare un piccolissimo
contributo a tale lavoro, condividendo il “succo” del mio personale ricordo di
don Giussani. Occorre infatti che si compia, in questa fase in cui sono ancora
vivi tanti che lo hanno conosciuto, ciò che di regola avviene per tutti i
grandi personaggi della storia della Chiesa: dopo la loro morte è necessario
che si sviluppi un processo, autorevolmente guidato ma responsabilmente
condiviso e partecipato dal maggior numero possibile di coloro che li conobbero
in vita, di “costruzione di una memoria comune” (analogamente a quanto è
avvenuto alle origini del cristianesimo con la memoria di Gesù da parte dei
primi discepoli), in modo tale che il dono dello Spirito ad essi elargito
continui a vivere, nell’integralità delle sue dimensioni e della sua ricchezza,
dentro le esistenze di coloro che ne sono stati, ne sono e ne saranno colpiti
lungo il corso della storia, per tutto il tempo che Dio vorrà. Ciascuno porti
la sua testimonianza.
Io credo di sapere chi era don Giussani:
la sua persona mi è familiare, benché abbia parlato con lui, a tu per tu, solo
due volte nella mia vita, per non più di mezz’ora in tutto. Perché ho questa
presunzione? Perché dal giugno del 1971, quando lo incontrai per la prima volta
a Fai della Paganella, fino agli ultimi collegamenti in video che faceva, ormai
anziano e malato, nei primi anni duemila agli esercizi spirituali della
Fraternità di CL, per trent’anni l’ho sentito parlare, decine e decine di
volte.
E Giussani parlava sempre e solo
di sé. Ma non nel senso narcisistico
(orribilmente narcisistico, aggiungerei) in cui più o meno tutti noi intendiamo
il parlare di noi stessi, bensì in un modo che è esattamente all’opposto del
narcisismo dominante nella nostra cultura: parlava sempre e solo di
sé perché parlava sempre e solo di ciò che Dio faceva nella sua vita e
della sua vita. E ne parlava per carità, cioè per il bene degli
altri (che, come Dante insegna, è uno dei due soli motivi per cui è lecito
parlare di sé); non per un’affermazione di sé, lui che era l’uomo più
sacralmente devoto alla libertà di ognuno che io abbia conosciuto. Questo è il
primo sassolino che porto, come mio ricordo, all’edificio della memoria comune.
Gran parte del suo fascino, almeno su di me, era legato a questa caratteristica,
perché di qualunque cosa parlasse, fosse anche della più remota o della più
universale delle questioni, la sua persona c’era. Dopo di
lui, secondo me così non è più stato, almeno in quella misura e in quella
forma. Per questo dico che anche per me, che gli ho parlato due volte sole in
vita mia, lui era una “persona familiare”.
Ne ho una piccola prova empirica, che ad alcuni ho raccontato altre volte: quando nel 2013 uscì la monumentale Vita di don Giussani scritta da Alberto Savorana, mi affrettai a leggere le 1300 e rotte pagine di quel “mattone” con la curiosità, lo confesso, di conoscere nuovi particolari sulla sua biografia. Chiuso il libro, realizzai con sorpresa di avervi trovato pochissime notizie che non sapevo già. Come mai? Perché tutte le altre le avevo già sentite raccontare da lui. La sua esistenza mi era dunque familiare quanto quella di mio padre.
La seconda pietruzza la estraggo dalla
memoria dei due incontri faccia a faccia che ho avuto con lui, ed è la
fortissima impressione di una persona totalmente alla circostanza che
stavamo vivendo. Sentii, con assoluta certezza, che quella persona era
totalmente presente al giovane sconosciuto che gli parlava per pochi minuti e
che poi non avrebbe rivisto forse mai più. Questo tratto, che chiamerei
della totale presenza alla realtà presente, l’ho percepito poche
altre volte nella mia vita, rimanendone sempre stupefatto (io che quasi sempre
sono “altrove” mentre fingo di fare le cose): una volta incontrando san
Giovanni Paolo II, e un’altra volta confessandomi da padre Guglielmo Gattiani,
un cappuccino molto noto in Romagna, che è anche lui Servo di Dio, come
Giussani). Un santo “certificato”, dunque, e due aspiranti beati (della cui
santità, però, io personalmente sono già certo): mi viene il sospetto che
proprio questa della totale aderenza alla realtà non
sia, in fondo, altro che una diversa maniera di indicare la “formula
della santità”, posto che, come dice Paolo, «la realtà invece è
Cristo» (Col 2, 17).
A questo “realismo cristiano” si lega
strettamente il terzo filo del mio ricordo: in uno di quei due colloqui, io
chiesi a Giussani anche un aiuto a prendere una decisione rilevante per la mia
vita di allora. Il criterio che immediatamente sgorgò dalle sua labbra, senza
alcuna esitazione, mi colpì per la sua estrema concretezza, direi
quasi il “pragmatismo” (intendendo bene questo termine), insomma l’antidealismo
che lo ispirava. Allora forse ne rimasi solo colpito; oggi mi sembra di
comprenderlo anche un po’ meglio: l’ideale, nella prospettiva di un
uomo come Giussani, è la cosa più concreta che ci sia. Oppure
non è. (Il mio amico don Giulio Maspero forse direbbe che questo è molto
brianzolo, e non mi azzardo a negarlo: aggiungerei però che è anche molto
cattolico. Anzi, cattolico romano).
L’ultimo elemento della sua personalità
che ebbe sempre un grande effetto su di me è il suo radicamento nella
tradizione vivente della Chiesa. Incontrandolo, provai sempre la
confortante certezza di avere davanti a me non il fondatore di una novità, ma il
figlio ed erede di una storia che risaliva, senza interruzione alcuna, alla
testimonianza dei primi discepoli e, attraverso di essa, alla persona di Gesù
Cristo. Se ciò che proponeva fosse stata “una cosa nuova”, per quanto geniale e
affascinante, credo che non l’avrei seguito. Era invece “una cosa presente”. Ma
di questo ho già scritto e parlato in altra sede.
Mi permetto perciò di rimandare chi
fosse eventualmente interessato ad approfondire questo punto all’introduzione
al libro Giussani e i Padri della Chiesa (qui le
indicazioni: https://www.marcianumpress.it/libri/giussani-e-i-padri-della-chiesa)
e all’intervento che feci ad un convegno sul Senso Religioso tenutosi
alla Pontificia Università della Santa Croce alla fine del 2022. (Qui il
video: https://www.youtube.com/watch?v=MlS5vsFeTsE).
Questa minima collanina di ricordi che rendo pubblica
in occasione dell’anniversario si riferisce alla sua persona. Del suo
insegnamento parleremo forse un’altra volta.
LEONARDO LUGARESI
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