sabato 24 febbraio 2024

IL MIO RICORDO DI DON GIUSSANI.

LEONARDO LUGARESI

Oggi è la festa della Cattedra di san Pietro ed è anche l’anniversario della morte di don Luigi Giussani, di cui è avviata la causa di beatificazione. Qualche giorno fa, dalle parti di quella Cattedra, è giunto un importante monito, che tutti gli aderenti a Comunione e Liberazione dovrebbero, a mio modestissimo avviso, prendere molto sul serio. In una lettera al presidente della Fraternità di CL, Davide Prosperi (il cui testo integrale si può leggere qui: https://it.clonline.org/news/chiesa/2024/02/01/lettera-papa-francesco-udienza-gennaio-2024-prosperi), il papa ha scritto queste significative parole:

«Per custodire l’unità e far sì che il carisma sappia interpretare sempre più adeguatamente i tempi in cui siete chiamati a testimoniare la nostra fede in Gesù Cristo, occorre andare oltre interpretazioni personalistiche, purtroppo ancora presenti, che rischiano di sottendere una visione unilaterale del carisma stesso. La incoraggio, perciò, insieme ai Suoi collaboratori, a continuare il lavoro intrapreso che mira a preservarne una visione integrale. Il cammino educativo proposto da Lei e da coloro che La aiutano nella guida del movimento sta anche contribuendo a correggere alcuni fraintendimenti e a proseguire la vostra missione nella fedeltà al carisma donato alla Chiesa per il tramite di don Giussani».

In questo spirito, ho pensato di dare un piccolissimo contributo a tale lavoro, condividendo il “succo” del mio personale ricordo di don Giussani. Occorre infatti che si compia, in questa fase in cui sono ancora vivi tanti che lo hanno conosciuto, ciò che di regola avviene per tutti i grandi personaggi della storia della Chiesa: dopo la loro morte è necessario che si sviluppi un processo, autorevolmente guidato ma responsabilmente condiviso e partecipato dal maggior numero possibile di coloro che li conobbero in vita, di “costruzione di una memoria comune” (analogamente a quanto è avvenuto alle origini del cristianesimo con la memoria di Gesù da parte dei primi discepoli), in modo tale che il dono dello Spirito ad essi elargito continui a vivere, nell’integralità delle sue dimensioni e della sua ricchezza, dentro le esistenze di coloro che ne sono stati, ne sono e ne saranno colpiti lungo il corso della storia, per tutto il tempo che Dio vorrà. Ciascuno porti la sua testimonianza.

Io credo di sapere chi era don Giussani: la sua persona mi è familiare, benché abbia parlato con lui, a tu per tu, solo due volte nella mia vita, per non più di mezz’ora in tutto. Perché ho questa presunzione? Perché dal giugno del 1971, quando lo incontrai per la prima volta a Fai della Paganella, fino agli ultimi collegamenti in video che faceva, ormai anziano e malato, nei primi anni duemila agli esercizi spirituali della Fraternità di CL, per trent’anni l’ho sentito parlare, decine e decine di volte. 

Giussani parlava sempre e solo di . Ma non nel senso narcisistico (orribilmente narcisistico, aggiungerei) in cui più o meno tutti noi intendiamo il parlare di noi stessi, bensì in un modo che è esattamente all’opposto del narcisismo dominante nella nostra cultura: parlava sempre e solo di sé perché parlava sempre e solo di ciò che Dio faceva nella sua vita e della sua vita. E ne parlava per carità, cioè per il bene degli altri (che, come Dante insegna, è uno dei due soli motivi per cui è lecito parlare di sé); non per un’affermazione di sé, lui che era l’uomo più sacralmente devoto alla libertà di ognuno che io abbia conosciuto. Questo è il primo sassolino che porto, come mio ricordo, all’edificio della memoria comune. Gran parte del suo fascino, almeno su di me, era legato a questa caratteristica, perché di qualunque cosa parlasse, fosse anche della più remota o della più universale delle questioni, la sua persona c’era. Dopo di lui, secondo me così non è più stato, almeno in quella misura e in quella forma. Per questo dico che anche per me, che gli ho parlato due volte sole in vita mia, lui era una “persona familiare”.

Ne ho una piccola prova empirica, che ad alcuni ho raccontato altre volte: quando nel 2013 uscì la monumentale Vita di don Giussani scritta da Alberto Savorana, mi affrettai a leggere le 1300 e rotte pagine di quel “mattone” con la curiosità, lo confesso, di conoscere nuovi particolari sulla sua biografia. Chiuso il libro, realizzai con sorpresa di avervi trovato pochissime notizie che non sapevo già. Come mai? Perché tutte le altre le avevo già sentite raccontare da lui. La sua esistenza mi era dunque familiare quanto quella di mio padre.

La seconda pietruzza la estraggo dalla memoria dei due incontri faccia a faccia che ho avuto con lui, ed è la fortissima impressione di una persona totalmente alla circostanza che stavamo vivendo. Sentii, con assoluta certezza, che quella persona era totalmente presente al giovane sconosciuto che gli parlava per pochi minuti e che poi non avrebbe rivisto forse mai più. Questo tratto, che chiamerei della totale presenza alla realtà presente, l’ho percepito poche altre volte nella mia vita, rimanendone sempre stupefatto (io che quasi sempre sono “altrove” mentre fingo di fare le cose): una volta incontrando san Giovanni Paolo II, e un’altra volta confessandomi da padre Guglielmo Gattiani, un cappuccino molto noto in Romagna, che è anche lui Servo di Dio, come Giussani). Un santo “certificato”, dunque, e due aspiranti beati (della cui santità, però, io personalmente sono già certo): mi viene il sospetto che proprio questa della totale aderenza alla realtà non sia, in fondo, altro che una diversa maniera di indicare la “formula della santità”, posto che, come dice Paolo, «la realtà invece è Cristo» (Col 2, 17).

A questo “realismo cristiano” si lega strettamente il terzo filo del mio ricordo: in uno di quei due colloqui, io chiesi a Giussani anche un aiuto a prendere una decisione rilevante per la mia vita di allora. Il criterio che immediatamente sgorgò dalle sua labbra, senza alcuna esitazione, mi colpì per la sua estrema concretezza, direi quasi il “pragmatismo” (intendendo bene questo termine), insomma l’antidealismo che lo ispirava. Allora forse ne rimasi solo colpito; oggi mi sembra di comprenderlo anche un po’ meglio: l’ideale, nella prospettiva di un uomo come Giussani, è la cosa più concreta che ci sia. Oppure non è. (Il mio amico don Giulio Maspero forse direbbe che questo è molto brianzolo, e non mi azzardo a negarlo: aggiungerei però che è anche molto cattolico. Anzi, cattolico romano).

L’ultimo elemento della sua personalità che ebbe sempre un grande effetto su di me è il suo radicamento nella tradizione vivente della Chiesa. Incontrandolo, provai sempre la confortante certezza di avere davanti a me non il fondatore di una novità, ma il figlio ed erede di una storia che risaliva, senza interruzione alcuna, alla testimonianza dei primi discepoli e, attraverso di essa, alla persona di Gesù Cristo. Se ciò che proponeva fosse stata “una cosa nuova”, per quanto geniale e affascinante, credo che non l’avrei seguito. Era invece “una cosa presente”. Ma di questo ho già scritto e parlato in altra sede.

Mi permetto perciò di rimandare chi fosse eventualmente interessato ad approfondire questo punto all’introduzione al libro Giussani e i Padri della Chiesa (qui le indicazioni: https://www.marcianumpress.it/libri/giussani-e-i-padri-della-chiesa) e all’intervento che feci ad un convegno sul Senso Religioso tenutosi alla Pontificia Università della Santa Croce alla fine del 2022. (Qui il video: https://www.youtube.com/watch?v=MlS5vsFeTsE).

Questa minima collanina di ricordi che rendo pubblica in occasione dell’anniversario si riferisce alla sua persona. Del suo insegnamento parleremo forse un’altra volta.

LEONARDO LUGARESI

 

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