Aprile 20, 2016 Caterina
Giojelli
Articolo tratto da TEMPI
Tre uomini in un teatro parlano del padre attraverso lo sguardo di Charles
Péguy davanti a una folla di gente «di una certa razza». Appunti da un incontro
memorabile
È tutto
lì, fuori da una finestra. La sera di martedì 5 aprile, c’è una folla che si
accalca nel teatro Rosetum, il
centro culturale diretto dai Frati Cappuccini del convento di piazza Velasquez
a Milano. Dall’altra parte della piazza, c’è la statua di bronzo di Padre Pio,
e sotto, scolpiti nel basamento, sono raffigurati tre episodi dei Promessi
Sposi: padre Cristoforo che affronta Don Rodrigo, padre Felice Casati tra gli
appestati del Lazzaretto e fra’ Galdino alla questua delle noci. Sono loro, le
mani della Provvidenza impegnate in azioni di una misericordia – che, come
ricorda papa Francesco, «è il primo attributo di Dio. È il nome di Dio» –
sconosciuta ai potenti e al pensiero del mondo, e ti viene a prendere quando
meno te lo aspetti. «Che diavolo hanno costoro? Che c’è d’allegro in
questo maledetto paese? Dove va tutta quella canaglia?», si chiedeva
l’Innominato guardando dalla finestra il popolo festante che andava dal
cardinal Federigo Borromeo. Erano «uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie,
soli; (…) e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto». Guardava,
l’Innominato, «e gli cresceva nel cuore una più che curiosità di saper cosa mai
potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa». Qual era e quale
è oggi questa buona notizia?
Uomini, donne,
fanciulle a brigate a coppie o soli, e quella folla accalcata al Rosetum pare
proprio la stessa dei Promessi Sposi una sera di primavera, dove tre uomini, un frate cappuccino,
padre Marco Finco, un medico, Giancarlo Cesana, e un professore di liceo, Mauro
Grimoldi, raccontano “Il padre attraverso lo sguardo di Charles Péguy”, il «più grande avventuriero della storia».
E che quindi
parla a tutti, tutti noi che «amiamo la
libertà di pensiero, ma per amarla ci vuole un pensiero», dice Cesana che
ai tanti in sala presenti per affezione a una storia, mai dimentica di Péguy e
iniziata con don Luigi Giussani, ricorda il fondatore di Cl quando raccontava
il Vangelo e invitava a vedere, immaginare quello che veniva letto: «La Buona novella non è un trattato di
logica, la verità non è una disquisizione, la vita è una cosa commossa, non
aridità».
Ecco quindi Péguy, capace oggi
come allora di esempi commossi, ed ecco dunque la fecondità del padre, la cui
dissoluzione, riduzione a funzionario sociale e immagine stereotipata e
sentimentale della realtà (non più creatore, non più padre, non più origine ma
ruolo interscambiabile con quello della madre), «è principio logico e cronologico della distruzione della famiglia
verso cui rema ogni dottrina moderna».
Già perché il
mondo delle virtù della gente di mondo (compiacente, deferente, avvizzito dai
diritti dell’amore, dalla libertà di morire e dare la morte) è quello di
sempre, «il mondo delle persone intelligenti; progredite, scaltrite, delle
persone che la sanno lunga, alle quali non si può darla a intendere (…): il
mondo di quelli che non hanno una mistica», inizia Grimoldi, scegliendo pagine da La nostra giovinezza(1910).
Nonostante ci
abbiano provato, ci provino sempre ad abbagliare coi fari di auto potentissime
– negando gli dèi e adorando gli dèi, professando, diceva Eliot, la Ragione, e
poi il Denaro, il Potere, e ciò che chiamiamo Vita, o Razza o Dialettica –
troppo evidente, troppo appariscente è l’insufficienza e l’irrealtà
dell’intellettualismo moderno, «la medesima sterilità inaridisce la città e la
cristianità. La città degli uomini e la città di Dio. È questa la sterilità
moderna. È infatti la prima volta nella
storia del mondo che un mondo intero vive e prospera, sembra prosperare contro
ogni cultura». Lo abbiamo visto, «prosperavano gli intellettuali. Sterili,
infecondi, celibi. Senza cultura, essendo la cultura concezione: incontro,
affetto, fecondazione, ospitalità, gestazione, e parto, nascita, inizio. Opera
e presenza. Amorosa esperienza, che attrae nel proprio vertice ogni fatto,
interesse, realtà».
Questi
infelici potenti del pensiero debole ben raccontati ne Lo spirito di
sistema (1905 ma pubblicato postumo) ignoravano la semplice gioia del
cuore e il godimento delle mani, tutto ciò che fa la felicità e la gioia del
buon operaio: «Mangiare una buona
minestra fumante sotto il chiarore della lampada di casa, (…) tra gli spintoni
dei figli magnifici: ecco ciò che essi non conobbero mai. Non così il grande
avventuriero, il padre di famiglia. Ci siamo giunti, finalmente».
Fuori dal
pensiero del Tempio
Il padre, tutta un’altra cultura. Concezione, opera e presenza. Che attrae nel proprio vertice ogni fatto – e i fatti son testardi e solo dai fatti viene la salvezza. Non è questa la buona novella cui Giussani chiedeva di partecipare? Non è un fatto quello che accade in questa sera di primavera a Milano? C’è tanta gente al Rosetum, come ce ne era tanta in Galilea, personaggi soli, dolorosi pieni di amore che non sapevano comunicare e pieni di voglia di vero che non sapevano incontrare. Fino a quel giorno in cui Lo avevano incontrato. E dal momento in cui aveva fatto effrazione nella loro storia erano diventati tanti, tanti dietro ai dodici che lo avevano seguito.
Il padre, tutta un’altra cultura. Concezione, opera e presenza. Che attrae nel proprio vertice ogni fatto – e i fatti son testardi e solo dai fatti viene la salvezza. Non è questa la buona novella cui Giussani chiedeva di partecipare? Non è un fatto quello che accade in questa sera di primavera a Milano? C’è tanta gente al Rosetum, come ce ne era tanta in Galilea, personaggi soli, dolorosi pieni di amore che non sapevano comunicare e pieni di voglia di vero che non sapevano incontrare. Fino a quel giorno in cui Lo avevano incontrato. E dal momento in cui aveva fatto effrazione nella loro storia erano diventati tanti, tanti dietro ai dodici che lo avevano seguito.
I personaggi
della Buona Novella, la gente del Vangelo, si era coinvolta perché non
coinvolgersi non era proprio possibile. Protagonisti insospettabili, che non
trovavano spazio o voce tra i pensatori del Tempio, ma che dietro di Lui, con
le loro lordure e sozzure, avrebbero rappresento quel residuo di mondo che
cambiava il mondo, dove un’incalzante positività era vincitrice in qualunque
caso. Non erano capaci che di una piccola
speranza, la sola, inconfessata, nascosta speranza che accadesse qualcosa, che avvenisse
un’avventura che non solo valesse la pena di essere vissuta nell’istante, ma che desse senso e ragione a tutti gli
altri istanti, che vengono prima e che verranno dopo.
C’era gente in
Galilea, e c’è gente al Rosetum dove Grimoldi legge Véronique (1910),
e molti quel passo lo avevano già ascoltato – ed erano diventati anch’essi
padri, uomini, da che avevano avuto il presentimento del vero che spingeva gli
apostoli a remare verso l’altra riva – ma Grimoldi vuole rileggerlo tutto
perché è in queste pagine che vive il temuto nemico dell’intellettuale moderno,
che ha sede lo scontro tra cultura della morte e della vita: «C’è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo
moderno: è il padre di famiglia. (…) Tutto è sapientemente organizzato contro
di lui. Tutto si rivolta e congiura contro di lui. Gli uomini, i fatti;
l’accadere, la società; tutto il congegno automatico delle leggi economiche.
Tutto è contro il capo famiglia, contro il padre di famiglia; e di conseguenza
contro la famiglia stessa, contro la vita di famiglia. Solo lui è letteralmente
coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero,
attraversa un’avventura (…). Bisognoso di aiuto, di tutto, bisognoso di Dio,
uno che segue, che deve seguire, chiedere, imparare tutto. Un padre figlio, un
padre che ha bisogno di padre; del Padre. Di Dio. Perché Dio stesso è padre.
Più padre di ogni altro padre». Una paternità invincibile che da oltre
duemila anni attrae nel proprio vertice ogni fatto.
Tre cose scomode
«La preoccupazione più grande per noi dev’essere questa: che con semplicità di parole l’esperienza del Mistero torni tra la folla, tra la gente-gente. Essere nel groviglio umano l’unico punto di intelligenza. Essere lì come chi dica a ciascuno, qualunque cosa stia facendo o dicendo o scrivendo: “Tu cosa c’entri con questo?”», così Giussani a Libero, il 22 agosto 2002.
«La preoccupazione più grande per noi dev’essere questa: che con semplicità di parole l’esperienza del Mistero torni tra la folla, tra la gente-gente. Essere nel groviglio umano l’unico punto di intelligenza. Essere lì come chi dica a ciascuno, qualunque cosa stia facendo o dicendo o scrivendo: “Tu cosa c’entri con questo?”», così Giussani a Libero, il 22 agosto 2002.
Cosa c’entra
il padre di Péguy, quel Padre che è «paternità carnale che oltrepassa e
trascende il vincolo biologico, che non si compiace di sé ma vive per i figli»
con i padri e con i figli in quella sala di Milano, con la paternità di padre
Marco, il frate che ha fatto del Rosetum un presidio culturale vivissimo in un
quartiere che invece delle statue di Cattelan guarda il bronzo di padre Pio;
con quella di Cesana, già guida per migliaia di famiglie della fraternità di
Cl; con quella di Grimoldi, che nel mondo sempre più neutro, piallato e
frastornato della scuola insegna tre
cose tra le mille imparate da Péguy sul padre. Tre cose
scomode, figlie del padre e non del mondo moderno.
La prima riguarda la libertà: «Ma cosa
sarebbe una salvezza che non fosse libera? – immagina si chieda Dio nel Mistero
dei santi innocenti –. Tale è il mistero, tale è il segreto, tale è il valore
di ogni libertà. Questa libertà di questa creatura è il più bel riflesso che ci
sia nel mondo della libertà del Creatore».
La seconda riguarda la speranza,
difficile rischiosa e inconfessata speranza, poiché per sperare, scrive Péguy
nel Portico
del mistero della seconda virtù, bisogna aver ricevuto una
grande grazia: «Un uomo aveva due figli. Di tutte le parole di Dio è quella che
ha destato l’eco più profonda. (…) È la sola che il peccatore non ha mai fatto
tacere nel suo cuore. (…) Tiene l’uomo per il cuore».
La terza riguarda la giustizia: «In
cosa, come, perché una pecora vale novantanove pecore. E soprattutto perché è
giustamente quella che s’è smarrita, che era perita, che vale giustamente le
novantanove altre, le novantanove che non s’erano smarrite (…) è quella pecora,
è quel peccatore, è quel penitente, è quell’anima. Che Dio, che Gesù riporta
sulle spalle, abbandonando le altre».
Gente di una
certa razza
«Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità». È il brano del Racconto dell’Anticristo di Solov’ëv, una pietra miliare del Movimento, di quella gente presente in sala riunita – non perché la pensa nello stesso modo, ma perché, direbbe Péguy, appartiene a una certa razza – a ricordare la buona notizia, l’incredibile avventura del Padre stesso che si trova a dover dipendere da colui che è amato, «singolare avventura per la quale io, Dio, ho legate le braccia per l’eternità, singolare avventura con la quale mio Figlio mi ha legato le braccia». È sempre con Il portico del mistero della seconda virtù che Grimoldi chiude l’incontro.
«Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità». È il brano del Racconto dell’Anticristo di Solov’ëv, una pietra miliare del Movimento, di quella gente presente in sala riunita – non perché la pensa nello stesso modo, ma perché, direbbe Péguy, appartiene a una certa razza – a ricordare la buona notizia, l’incredibile avventura del Padre stesso che si trova a dover dipendere da colui che è amato, «singolare avventura per la quale io, Dio, ho legate le braccia per l’eternità, singolare avventura con la quale mio Figlio mi ha legato le braccia». È sempre con Il portico del mistero della seconda virtù che Grimoldi chiude l’incontro.
Quale
cristiana umiliazione, quale umiliazione di santo: chi ama viene a dipendere da
chi è amato. E sulla Croce il Mistero è diventato uomo per ogni uomo che c’è in
questo mondo ieri, oggi, domani. A quel tempo in Galilea, al tempo di Péguy, al
tempo nostro che Cesana invita a ravvivare ancora una prossima volta,
rileggendo proprio Solov’ëv.
E così uomini,
donne, a brigate a coppie o soli, escono dal piccolo presidio antimoderno del
Rosetum, spinti oggi come allora dal presentimento del vero, di una notizia
lieta, così che qualcuno alla finestra possa domandarsi sempre cosa ci sia di
così allegro in questo maledetto paese.
Il video integrale dell’incontro su
YouTube
LEGGI IL BRANO COMPLETO DI VERONIQUE
http://www.tempi.it/a-cento-anni-dalla-morte-di-charles-peguy-rileggetevi-cosa-scriveva-sul-padre-di-famiglia-il-vero-avventuriero#.VxtNKvmLSM8
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