Archiviato lo scivolone del ministro dello Sviluppo troppo loquace con il
proprio partner su questioni istituzionali, resta alto il polverone contro il
ministro per i Rapporti col Parlamento, per l’emendamento alla legge di
Stabilità 2015 oggetto delle conversazioni intempestive della sua ex collega.
Leggetelo, per favore (www.pietroichino.it/?p=39693). Dice questo: quando
il governo, nel rispetto della legge, abbia deciso di autorizzare l’estrazione
di petrolio o gas da un determinato sito, al governo stesso compete di
autorizzare la costruzione delle infrastrutture necessarie per il trasporto del
prodotto fino all’immissione nella rete di distribuzione, o al luogo di stoccaggio
e poi alla raffineria, superando gli eventuali veti delle amministrazioni
locali (l’anno dopo si è aggiunta la necessità del parere preventivo della
regione interessata).
Certo, quando presentò quell’emendamento, il governo aveva in mente
soprattutto lo sblocco dell’attività estrattiva nel sito di Tempa Rossa, in
Basilicata, che era in attesa dal 1989. Ma questa stessa norma – di cui si sono
dotati tutti i paesi dell’occidente industrializzato – era destinata a servire
in una serie indeterminata di altri casi analoghi. In sostanza, è una norma
anti sindrome Nimby, cioè mirata a superare i veti meramente localistici.
Quanto alla concessionaria interessata al giacimento di Tempa Rossa, la Total,
essa era in attesa da molti anni di poter incominciare a far funzionare uno
stabilimento sul quale aveva già investito un miliardo e mezzo.
La questione dell’emendamento incriminato non ha niente a che vedere né con
reati o irregolarità che la magistratura lucana ha contestato a dirigenti di
quella stessa compagnia per appalti collaterali rispetto all’attività
principale, né con reati o irregolarità contestati a dirigenti dell’Eni per un
altro giacimento, quello di Val d’Agri, dove l’attività estrattiva è invece in
corso da oltre quindici anni.
La realtà
è che dietro la campagna che si è scatenata contro questo emendamento c’è una
cultura inespressa (ma molto diffusa) permeata di un ecologismo esasperato, che
ha come corollario il “no” all’industrializzazione e in particolare alle
imprese multinazionali, viste come intrinsecamente pericolose non solo per
l’ambiente, ma per la democrazia stessa.
E’ la cultura che vede con sospetto il fatto che la concessione di Tempa
Rossa sia stata data alla “straniera” Total. Non importa che questa sia
un’impresa europea, che gli oneri di protezione ambientale a essa imposti fin
dal 2004 siano doppi rispetto a quelli imposti all’Eni in Val d’Agri, che su
ogni metro cubo di gas estratto – e direttamente immesso nella nostra rete di
gasdotti – essa pagherà le dovute royalties destinate per l’85 per cento alla
regione lucana: la sola idea che emerge dai talk-show è che inevitabilmente la
multinazionale spolperà il territorio lucano e lascerà alle sue spalle macerie,
perché solo questo sanno fare le multinazionali.
Questa cultura, di per sé ostativa allo
sviluppo del mezzogiorno, sul terreno della politica energetica costituisce un
problema per l’intero paese.
Tra i suoi corollari non c’è, infatti, solo il no alle centrali a carbone,
perché sono troppo inquinanti; il no alle centrali atomiche perché c’è il
rischio di fughe radioattive; il no alla produzione di energia eolica, perché
torri e pale deturpano il paesaggio; il no a petrolieri e petroliere, perché i
primi sono tutti farabutti e le seconde ogni tanto fanno naufragio devastando mare
e coste; il no alle centrali idroelettriche perché i bacini che le alimentano
sommergono intere valli; il no allo shale oil (petrolio estratto da scisti),
perché si rovinano le rocce sotterranee; e conseguentemente il no ai
rigassificatori; il no agli inceneritori dei rifiuti, perché solo in Germania
sono capaci di farli funzionare senza inquinamento e qui siamo in Italia; il no
al metanodotto, perché serve per acquistare gas da Putin, inoltre può avere
delle perdite e comunque rovina la spiaggia dove riemerge dal mare (copyright
del presidente della Puglia, Michele Emiliano); il no all’estrazione del gas
dal fondo del mare – anche se molto oltre l’orizzonte visibile dalla costa;
anche se tutti gli altri paesi maggiori si avvalgono di questa risorsa a tutte
le latitudini e longitudini; anche se questo consentirebbe di avere in giro
meno petroliere, meno centrali a carbone, meno pale eoliche, e di acquistare
meno gas da Putin e meno energia dalle centrali atomiche francesi – perché non
siamo sicuri che le trivelle non possano inquinare le acque. Ora c’è anche il
no all’estrazione degli idrocarburi in terraferma.
Strano paese, il nostro: gli stessi politici che contestano al governo di
non occuparsi abbastanza del sud ora sono in prima fila nel rimproverargli di
voler sbloccare, dopo oltre vent’anni di paralisi, l’avvio in Basilicata di uno
stabilimento destinato a ridurre la nostra dipendenza energetica dall’estero, a
dar vita a centinaia di posti di lavoro qualificato e a fruttare alla regione
stessa e ai comuni interessati abbondanti royalty utilizzabili – se le si sa e
le si vuole utilizzare così – per investimenti ulteriori. Gli stessi che, in
nome dell’ecologia, contestano praticamente tutte le altre forme di produzione
di energia tranne la fotovoltaica, ora contestano un impianto capace di una
produzione giornaliera, direttamente in casa nostra e secondo le tecnologie più
moderne, di circa 50 mila barili di petrolio e 230 mila metri cubi di gas
naturale, destinati questi ultimi a essere immessi direttamente nella nostra
rete di gasdotti con impatto ambientale zero.
Tutto questo è molto coerente con l’idea del ritorno alla “economia del
chilometro zero”, nella quale non occorre far funzionare fabbriche che
consumano molta energia – con persone che arrivano in auto o in
treno – per produrre cose su scala industriale, che dunque vanno poi spedite in
varie parti del mondo, magari in aereo, e che a loro volta consumeranno
energia.
Sì, dunque, soltanto alla cosiddetta
“economia curtense”, quella artigiana e agricola che si sviluppa per intero
intorno alla corte del castello. Quelli che la pensano così, però, per lo più
non hanno messo bene a fuoco che tutto questo comporterebbe sostanzialmente un
ritorno al Medioevo.
PIETRO ICHINO
ilfoglio
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