Settembre
12, 2016 Giancarlo Cesana
È una domanda concreta, fattuale, perché,
se Dio c’è, deve esserci, deve essere da qualche parte, visibile e
raggiungibile.
Dopo il terremoto del 24 agosto,
questa domanda sembra ricorrere con più insistenza e durata che in occasione di
altre sciagure simili.
Bisogna notare
che la domanda è posta forse più dai non credenti, da quelli che Dio non lo
considerano. Costoro, come Voltaire in occasione del grande terremoto di
Lisbona, tendono a rimarcare che Dio non c’è perché un Dio buono non potrebbe
far accadere, o lasciare accadere tali tragedie. La domanda è stata ripetuta
anche da preti e vescovi, i quali, rispondendo in genere che la fede è dono,
lasciano Dio nella sua poco convincente imperscrutabilità.
Così,
abbandonato Dio, se c’è, a se stesso, grande clamore è dedicato a cercare le colpe degli uomini per
punire e prevenire quella che è sentita come un’ingiustizia insopportabile e
dilagante.
Infatti, il
terremoto è l’amplificazione orrenda del tremore che domina la vita, che è
sempre scossa da violenza e malattia fino a essere sepolta nella morte. Il
terremoto, quando arriva in casa, ci fa percepire che siamo niente, che la
terra su cui riponiamo la saldezza dei nostri passi, è essa stessa insicura.
Gravemente!
“Dove è Dio?”. Sia tale domanda bestemmia
o implorazione, essa è non solo giustificata, dovrebbe diventare permanente
perché rappresenta il grido alla ricerca di un senso, o meglio, di una speranza
per tutta la vita. È una domanda concreta, fattuale, perché, se Dio c’è, deve
esserci, deve essere da qualche parte, visibile e raggiungibile.
Il mondo, con
la sua bellezza e il suo fascino, è afflitto da un male misterioso, che
inesorabilmente uccide. Si tratta di un male pervasivo, che è nella natura e
nel cuore dell’uomo, che tanto può essere grande, quanto criminale e meschino.
La Bibbia dice
che è stato l’uomo, ribellandosi a Dio e volendo essere indipendente da Lui, a
condannarsi alla propria condizione di creatura limitata e mortale.
Il Vangelo
dice che Dio non si è rassegnato a lasciare l’uomo a se stesso, alla sua
fragile libertà. Si è fatto uomo, ne ha condiviso il mortale destino, perché l’uomo si accorga che
nell’adesione e alla verità e all’amicizia con Lui tutto può risorgere e
incominciare. Uomo con gli uomini ha lasciato la traccia della Chiesa,
perché il riconoscimento della presenza di Dio nel mondo fosse un’esperienza e
non solo un pensiero incerto.
Bisogna riconoscere che nelle più grandi
tragedie, insieme a un infinito dolore, appare sempre un’infinita bontà e
dedizione, senz’altro di alcuni e spesso di molti.
Questa mano
tesa, contro l’ostilità della natura e degli uomini, è segno di speranza per
chi vi si appoggia, o semplicemente la vede. I
n questi
giorni è stata santificata Madre Teresa di Calcutta.
La sua fragile figura è stata indicata al mondo come fortissimo esempio di
lotta a una disperazione eccezionale e quotidiana, come segno che, nonostante
tutto, si può affermare la vita. Madre Teresa diceva che faceva tutto per Lui,
per Cristo e come lei, con le sue stesse motivazioni, tanti hanno fatto e
ancora fanno. Molti, credenti e non, guardano a lei per cercare il sostegno
alla speranza e alla buona volontà, che sono così desiderate e instabili. Molti, in lei e in quelli come lei, cercano
quello che il Vangelo è venuto ad annunciare a coloro che si domandano dove è
Dio: Dio è vicino e ci salva.
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