MASSIMO GRAMELLINI
La vignetta di Charlie Hebdo che comprime in una lasagna i cadaveri dei
terremotati di Amatrice è semplicemente schifosa. E la vignetta successiva, che
spiega come il bersaglio della prima non fossero i morti ma la mafia che ha
costruito le case, è banalmente razzista. Allora, siamo o non siamo ancora
Charlie? Nel domandarmelo ho pensato al funzionario nordcoreano fucilato dalla
contraerea di Kim Jong-un per essersi appisolato durante una riunione. Ho
sempre considerato disdicevoli le persone che si appisolano durante le
riunioni, specie mentre sto parlando io. Infatti non è stata la pennichella a
farmi sentire solidale con lui, ma la reazione omicida del tiranno.
«Je suis Charlie» voleva
e vuole dire proprio questo. Nessuno può essere multato, imprigionato, ferito o
ucciso per avere pubblicato una vignetta ributtante sull’Islam (o sul
terremoto). Non è solo la libertà di espressione ad avere un limite nella
legge, ma anche quella di critica. Nemmeno Charlie, però, può continuare a
ostentare il marchio del perseguitato che si è guadagnato sul campo per
indignarsi di fronte al ribrezzo che provoca nei benpensanti, e nei pensanti in
genere, la sua satira meschina. E meschina non perché attinge ai luoghi comuni
più frusti sull’Italia (mafia e pastasciutta), ma perché i piedi che spuntano
dalla lasagna potrebbero essere quelli della piccola Giulia che non si è
riusciti a estrarre viva dalle macerie. La satira può uscire dalla testa o
dalla pancia. Questa è uscita direttamente dal sedere (scusate, è
satira).
03/09/2016
tratto da la stampa
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