DISCORSO
DI SUA SANTITÀ
BENEDETTO XVI
ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE
DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI
ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE
DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI
Giovedì, 22 dicembre 2005
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!
(…)
L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è
la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa.
Tale
memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato
recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato
buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare?
Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio
si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è
avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san
Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la
paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro:
“Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro,
le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha
riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la
retta dottrina della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A;
SCh 17bis, pag. 524).
Emerge
la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa,
finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene,
tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi –
dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione.
I problemi della recezione sono nati
dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno
litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma
sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste
un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica
della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere
della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna.
Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica
della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa,
che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e
si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio
in cammino. L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura
tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora
la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di
compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora
trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in
questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma
invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi
rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in
conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi
rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua
novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo
spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda,
sebbene ancora indistinta, del Concilio.
In una parola: occorrerebbe seguire
non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo,
ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca
questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò,
però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo
modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una
costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un
mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale
la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo
aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione
essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi
possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in
grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi,
mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore.
Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati
“fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono
amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato
in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire
all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su
molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole
evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio
del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e
fedeltà debbano diventare una cosa sola.
All'ermeneutica
della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno
presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del
Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965.
Vorrei
qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa
ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio
“vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o
travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo
tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di
dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età
esige… È necessario che questa dottrina
certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e
presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa
è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra
veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate,
conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec.
Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).
È
chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità
esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è
chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una
comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la
riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il
programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come
appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa
interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio,
è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il
Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto
non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo
che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così
anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio. (…)