Che si tratti dell’Isis o dei salafiti, il progetto prevede la
cancellazione dei confini politici, culturali, religiosi per imporre a tutti la
stessa teocrazia anonima, astorica e omogeneizzante.
Rodolfo Casadei
Due cose hanno
in comune gli attentati di Berlino contro
un mercatino natalizio e di Ankara contro
l’ambasciatore russo in Turchia:
l’ideologia islamista radicale dei loro autori e il loro disprezzo imperialista
per i confini. Per contrasto, l’insegnamento da trarre dagli eventi è che le ideologie vanno combattute e i confini
vanno difesi e protetti.
Fra le frasi
che l’agente di polizia Mevlut Mert Altintas avrebbe concitatamente gridato subito dopo avere assassinato
l’ambasciatore Andrei Karlov, ce ne sarebbe una che dice all’incirca così:
«Noi moriamo ad Aleppo, tu muori qui». A
quale “noi” si riferiva l’attentatore? Non certo a quello della
nazionalità, perché l’agente delle forze speciali era un turco nativo di
Smirne, mentre ad Aleppo muoiono civili siriani, dunque arabi per lingua e
cultura, e combattenti di molte nazionalità, per lo più mediorientali e
dell’Asia centrale (libanesi, iracheni, iraniani, sauditi, ceceni, uzbeki,
ecc.).
Non poteva riferirsi nemmeno al “noi” dei musulmani genericamente intesi, perché tutti i protagonisti della tragedia di Aleppo, con l’eccezione dei piloti dell’aviazione militare russa, sono musulmani: sono musulmani e spesso interpretano entrambi i ruoli sia i carnefici che le vittime. E non è affatto vero che tutti i musulmani sciiti o alawiti combattono dalla parte del regime di Damasco, mentre tutti i musulmani sunniti sono schierati dalla parte dei ribelli. (…)
Dunque il
“noi” a cui si riferiva Altintas pochi minuti prima di essere abbattuto dai
suoi colleghi poliziotti era evidentemente quello dei fanatici del califfato o comunque dello stato islamico governato da
versioni intransigenti della sharia. È un “noi” che non coincide
forzatamente con l’Isis, testa di turco (mai metafora fu più appropriata) di
tutte le derive dell’islam politico, ma si estende a gruppi armati e finanziati
dagli stati arabi del Golfo come Ahrar al Sham, Jabhat Fateh al Sham, Faylaq al
Sham, ecc.
Prima della
guerra civile internazionalizzata che l’ha ridotta in rovine e ne ha spazzato
la via la popolazione o con la morte violenta o con l’emigrazione per sfuggire
ai combattimenti, Aleppo era un mosaico di culture, religioni ed etnie
stratificate nel corso di una storia lunga cinquanta secoli. Mosaico insediato
in un paese arabo postcoloniale, dunque retto da un sistema politico
autoritario e familistico come tutti quelli degli stati nati dalla dissoluzione
dell’Impero Ottomano prima e del potere coloniale europeo poi (con l’eccezione
del Libano). Chi, come Bernard Henry Levy,
si strappa le vesti per l’inazione internazionale di fronte alla battaglia
finale che ha causato molte vittime fra la popolazione civile e ha portato alla
riconquista della città da parte delle forze governative col contributo
decisivo dell’aviazione militare russa e delle fanterie iraniane ed Hezbollah
libanesi, non ci ha mai spiegato perché
le vittime di Aleppo Ovest, colpite
dai tiri di mortaio e di bombole del gas riempite di esplosivo sparati dai
ribelli, contassero meno di quelle di Aleppo Est causate dagli attacchi
dei caccia russi e degli elicotteri governativi.
Ma soprattutto
non ci ha spiegato il ruolo degli attori internazionali nelle origini della
battaglia e quindi poi nel reciproco assedio di Aleppo. Come cioè la capitale
industriale del paese, tranquilla per 14 mesi dopo l’inizio delle proteste
(marzo-aprile 2011) nel sud e nel centro della Siria a Daraa, Homs, Hama e
Damasco, solo nel maggio 2012 sia diventata scenario di significative
manifestazioni antigovernative, cominciando dall’università, e come nel luglio
di quell’anno 7 mila uomini delle formazioni filo-occidentali e di quelle
islamiste abbiano lanciato la vasta operazione militare per la conquista della
città che si è trasformata nella sanguinosa battaglia casa per casa durata
quattro anni e cinque mesi.
Ribelli in
armi che arrivavano quasi tutti dai sobborghi della città, incubatori della
rivolta di sottoproletari e beduini immigrati che non avevano niente da perdere
a mascherare da lotta per la libertà e i diritti umani quello che era prima di
tutto un assalto a fini di razzia. Tutti costoro sono stati e ancora sono i
tragici burattini dei progetti di stato islamico retto dalla sharia dei gruppi
jihadisti ideologicamente in sintonia col giovane Altintas, a loro volta
burattini della Turchia, dei paesi arabi del Golfo e dei paesi occidentali che
hanno pensato di usarli per installare a Damasco un regime di loro gradimento.
Che si tratti del califfato dell’Isis o
della repubblica islamica che sognano salafiti e Fratelli Musulmani, il
progetto prevede la cancellazione dei confini politici, culturali, religiosi
per imporre a tutti la stessa teocrazia anonima, astorica e omogeneizzante.
I mezzi e il
contesto sono diversi, ma il senso è lo stesso dell’attacco di Berlino: un uomo
percorre migliaia di chilometri attraverso l’Asia e l’Europa non per cercare un
luogo dove coltivare la propria vita, che ha scelto di sradicare dalla terra
natìa, ma per cancellare quella che scorre nel luogo del suo approdo, vita che
ha assunto la sua forma odierna nel corso di secoli, vita che è un prodotto
culturale.
Non si limita a distruggere o menomare la
vita fisica delle sue vittime, cerca di uccidere la loro cultura, la loro
storia: attacca indiscriminatamente le persone che frequentano un mercatino
natalizio nei pressi di una chiesa. Il suo è un atto di genocidio nel significato
profondo del termine.
Il genocidio, lo spazzare
via l’umanità di un certo luogo così come si è evoluta e ha assunto un’identità
caratteristica nel corso del tempo, è funzionale all’instaurazione di una teocrazia senza tempo e senza spazio,
all’imposizione di norme astratte prese dalla tradizione islamica, ma che fino
a qualche decennio fa non erano dominanti neanche nei paesi di tradizione
islamica: si guardino le foto del Cairo o di Kabul negli anni Sessanta-Settanta
del ventesimo secolo per rendersene conto.
Cos’è che
permette a culture, religioni, sistemi giuridici di non diventare ideologia, e
quindi mera giustificazione del potere di alcuni su altri? I confini. I confini rendono possibili le civiltà, le
religioni, le culture perché definiscono lo spazio dove i concreti esseri umani
hanno il tempo per intrecciare rapporti reali che tengono in conto la
diversità, sia come opportunità positiva che come scandalo da imparare ad
accettare. E dove gli esseri umani possono condurre i loro esperimenti politici
e amministrativi. I diversi sistemi politici hanno caratteristiche universali,
ma esistono solo nella storicità effettiva: la democrazia è storicamente
diversa tanto quanto lo sono i suoi esperimenti storici nazionali in Francia,
Inghilterra, Usa, Italia, India, Giappone, ecc.
Senza confini noi non esisteremmo, né come
civiltà, né come nazione, né come singoli individui: la pelle è
il confine che ci permette di esistere come singole persone. Ciò che non ha
forma, infatti, come spiegava Aristotele e come riprese Tomaso d’Aquino,
semplicemente non è.
La nostra libertà, la nostra identità, la
nostra vita sono minacciate dall’imperialismo islamista e dall’imperialismo
internazionale del denaro, che convergono più spesso di quanto non
divergano. Entrambi hanno come obiettivo la cancellazione dei confini e
l’unificazione dell’umanità sotto la forma dei sudditi di una teocrazia il
primo, di consumatori dipendenti dallo Stato e dal mercato come bambini dalla
mamma il secondo. L’islamismo aspira a un
potere illimitato e l’imperialismo del denaro, che la Chiesa cattolica denuncia
da quasi un secolo (il primo a utilizzare questa formula è stato Pio XI,
l’ultimo papa Francesco) ha di mira profitti illimitati.
La mancanza di
limiti, cioè di confini, è ciò che caratterizza i due imperialismi, e anche se
il primo dei due asserisce di essere il portatore del regno di Dio sulla terra,
in realtà anch’esso, come il secondo, è
prometeico, è ribellione all’ordine creaturale e sostituzione della volontà di
Dio con la volontà dell’uomo. Non solo perché nel Corano c’è scritto che
«se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica» (5, 48), cioè
che l’omogeneizzazione di tutta l’umanità nell’islam non è parte integrante
della volontà divina rivelata a Maometto. Ma perché intrinsecamente la
negazione dei limiti nel mondo umano – che sia pronunciata dagli scienziati che
manipolano tecnologicamente la vita, dagli ideologi del gender che pretendono
di ridefinire sessualità e famiglia, dai capitalisti finanziari che inseguono un
profitto senza limiti, da militanti della teocrazia che vogliono cancellare la
storia e le sue differenze con l’imposizione di un sistema politico-religioso
universale o da buonisti sedicenti anticapitalisti che promuovono la causa
dell’accoglienza illimitata di qualsiasi quantità di migranti – è irreligiosa.
È irreligiosa perché chi nega i limiti nel mondo umano, nega la creaturalità. E
chi nega la creaturalità non è religioso. Anche se uccide e si fa uccidere
gridando “Dio è grande!”.
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