Luglio
9, 2017 Luigi Amicone
Più delle corbellerie che il papà
di Repubblica deduce sulla Chiesa e su Cristo nei suoi colloqui con Francesco,
colpisce il suo cedimento davanti all’amicizia
Io penso che a
una persona di 93 anni, tanto più se è un intellettuale che ha passato la vita
a spremere le meningi, un giornalista di lungo corso come Eugenio Scalfari, che
ha battuto chilometri e chilometri di sudate carte e sta consumando fino
all’ultima goccia le proprie energie mentali, si debba concedere tutta la
comprensione umana possibile. D’altra parte, non designerebbe necessariamente
uno stato patologico – non so, di demenza senile, Alzheimer o quant’altro – il
fatto che un ultranovantenne assuma una postura, una sensibilità o addirittura
una identità, mutevoli e cangianti. Però, accettare di farsi comunicare e
interpretare dalle sole forze di una personalità sopraggiunta a un’età
geriatrica importante, è un bel rischio per il Vicario di Cristo.
Detto ciò, nulla da eccepire sul rapporto
umano che lega papa Bergoglio al Fondatore di Repubblica.
Anzi. È
commovente e ammirabile l’amicizia tra i due. È così. Davvero. Scacciamo ogni
pensiero di sarcasmo. Cattiveria inutile. È vero, piuttosto, che le righe
finali dell’ultimo colloquio di giovedì scorso,
messo in pagina sabato 8 luglio, ci fanno su serio riflettere sull’affetto che
sanno esprimersi due grandi vecchi.
«Il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare
in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi
sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo
indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all’ultimo agitando
il braccio e la mano mentre io – lo confesso – ho il viso bagnato di lagrime di
commozione».
È una scena
veramente toccante. E fa pensare che un uomo può avere tutto nella vita –
denaro, successo, fama, donne, onori, gloria mundi – e scoprire solo a 93 anni
che si può – addirittura – essere voluti bene. E piangere di commozione, perché
«lui mi mette in macchina con le sue braccia, un Papa come questo non l’abbiamo
mai avuto».
Beh, non è
proprio vero che sia così. Non è vero (pensiamo a tutti i santi papi, a
cominciare da san Giovanni Paolo II), che non abbiamo mai avuto un Papa umano
come Francesco. Ma è un fatto che per il singolo e specifico uomo Eugenio
Scalfari sia andata proprio così: egli ha ottenuto la Grazia particolare di un
incontro particolare col Vicario di Cristo. Ha avuto la Grazia di ottenere da
un Papa un’ amicizia così libera e intima, che questo amico, il Papa, si è reso
perfino disponibile al rischio di equivoci e fraintendimenti.
Certo, neppure
si era mai sentito prima che un giornalista ateo, laicista, razionalista, il
quale per tutta la vita ha combattuto l’opera storica di Cristo, la Chiesa,
giungesse a un passo dalla tomba consegnandosi alla commozione per “le braccia
di un Papa”. Alla resa amorevole davanti ai gesti di attenzione e di affetto
dell’infame ecrasé che sta in cima alla Chiesa. Questo ci fa pensare. E pensare
molto di più delle vere e proprie corbellerie che il buon Scalfari deduce sulla
Chiesa e su Cristo nei suoi colloqui intimi con l’amico Papa. E molto di più
delle domande teosofiche rivolte al Papa su Spinoza e Pascal.
In effetti,
non può essere di papa Francesco, perché sarebbe di un discepolo molto scadente
di Ario, l’intellettuale che di Cristo negò la divinità gettando in grande
scompiglio la chiesa dei primi secoli (finendo poi “anatemizzato”, cioè
dichiarato “fuori” dal cristianesimo, dal grande Concilio di Nicea del 325), la
convinzione che Gesù fosse uomo e Dio a fasi alterne, in maniera mutevole e
cangiante. «Il Papa del resto sa che Gesù si è incarnato realmente, è diventato
un uomo fino a quando fu crocifisso. La “Resurrectio” è infatti la prova che un
Dio diventato uomo solo dopo la sua morte ridiventa Dio».
Non può essere
un Papa che “del resto sa” queste cose. Semplicemente perché, del resto, non
sarebbe Papa, bensì un impostore. Dunque, è nel ricordo mutevole e nella penna
cangiante di Scalfari che si annida l’errore. Se non che, fatalmente, è alla
domanda del suo amico Francesco su quali siano «i pregi e i difetti dei
giornalisti» che egli casca in una ammissione degli errori che hanno
contrassegnato una vita professionale così piena di denaro, successo, fama,
donne, onori, gloria mundi, eppure forse povera di commozione e povera d’amore.
«I difetti dei giornalisti», scrive
Scalfari, sono «raccontare un fatto non sapendo fino a quale punto sia vero
oppure no; calunniare, interpretare la verità facendo valere le proprie idee».
Ecco, infine, la Confessione.
Detto ciò,
ripeto, di tutta una non intervista che, se non fosse per la
“Roccia” su cui è assiso l’interlocutore, sarebbe l’ennesimo tassello di una
malinconica conversazione interiore, è interessante cogliere la grazia del
cedimento davanti all’amicizia.
Così che,
anche uno dei più furbi, coriacei e ottusi malandrini dello Zeitgeist spacciato
per coraggio etico e speculazione filosofica, giunto alla fine della sua
predica, toccato da una Grazia particolare, piange di una commozione veramente
bambina.
E così, ritornato bambino, adesso Eugenio
Scalfari è davvero evangelicamente pronto per il Regno dei Cieli.
@LuigiAmicone
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