Il 13 giugno è morto a 92 anni il
missionario comboniano che era diventato un punto di riferimento di Cl in
Uganda. E che diceva che al centro di tutto era ed è la comunione
Giugno 15, 2017 Rodolfo Casadei
Padre Pietro Tiboni,
missionario comboniano, era uomo che pensava secondo Dio e non secondo gli
uomini, e che viveva della comunione.
L’ultima volta
che lo incontrai su suolo africano fu nel lontano gennaio 2001. Ero in Uganda
per raccontare vittime ed eroi dell’epidemia di Ebola che aveva colpito il nord
del paese, proprio la regione dove Tiboni era stato missionario e aveva molti
amici.
Era morto fra
gli altri Matthew Lukwiya, il direttore sanitario che aveva lottano fino alla
fine per contenere l’epidemia e che c’era di fatto riuscito; l’epidemia era
stata meno distruttiva di quello che sarebbe stato anche per il suo coraggio e
la sua determinazione. Rimase al suo posto e incoraggiò gli altri medici ed
infermieri a dare il meglio di sé, ma senza obbligare nessuno a restare. Quasi
tutti scelsero di lottare al suo fianco, e una mezza dozzina cadde insieme a
lui.
Di ritorno a
Kampala gli chiesi: «Padre Tiboni, come è possibile che Dio abbia lasciato
morire proprio un uomo come Matthew
Lukwiya, il medico ugandese più bravo, più generoso, il migliore, uno che
sapeva mobilitare la gente, che era veramente utile, quello che doveva portare
avanti l’ospedale del dottor Corti?». Infatti l’ospedale al centro
dell’epidemia di Ebola era il famoso Lacor Hospital di Gulu diretto da Piero Corti
(il fratello medico di Eugenio, l’autore de Il cavallo rosso) e da
sua moglie Lucille Teasdale, la dottoressa uccisa dall’Aids contratto curando i
feriti delle guerriglie africane. Lui mi guardò e con un sorriso disarmante
rispose: «Perché Matthew era pronto, perché era molto maturato negli ultimi
tempi».
Tiboni è stato il padre spirituale di
Comunione e Liberazione in Uganda, e la cosa è veramente sorprendente, perché
incontrò quel movimento in terra africana quando era già missionario comboniano
da più di trent’anni se si considerano anche gli anni del seminario.
Un missionario già esperto e appartenente a uno dei più sperimentati e
prestigiosi istituti, quello fondato da san Daniele Comboni, rimase affascinato
dal carisma di un movimento ecclesiale che sul piano della missione ad gentes a
quei tempi era un po’ una matricola. Eppure quando nel 1970 il già 44enne Tiboni, espulso dal regime islamista del
Sudan (dove era stato missionario per sette anni fra il 1957 e il 1964,
insegnando nel seminario nazionale) insieme ad altri 100 missionari e quindi
dopo un periodo in Italia ricollocato in Uganda, incontrò a Kitgum un gruppo di giovani medici varesini di Cl che erano
lì per fare volontariato internazionale, l’evento fu per lui una
rivelazione.
Un
missionario a vita, professore di filosofia e teologia nei seminari italiani e
africani, già confessore della fede in quanto perseguitato dal regime del Sudan
che lo aveva espulso, che si lascia sorprendere dall’esperienza di fede di
ragazzotti che in linea di principio dedicavano due anni della loro vita al
servizio civile sostitutivo di quello militare: incredibile. Due anni dopo, sempre in terra africana,
incontrò per la prima volta il fondatore don Luigi Giussani, e da quel
momento i due carismi, quello comboniano e quello del prete di Desio, si
intrecciarono in un efficace connubio.
Per Tiboni al centro di tutto era ed è
la comunione, dono da chiedere continuamente nella preghiera a Dio attraverso
Maria, che si realizza e si manifesta nel rapporto di unità fra
le persone che riconoscono Cristo come la risposta al desiderio umano. Insieme
a cristiani ugandesi di tutte le etnie, volontari italiani e missionari
comboniani di varie nazionalità creò il
movimento Christ Communion and Life, l’equivalente ugandese di Comunione e
Liberazione. «In Africa non possiamo usare la parola “liberazione”», spiegava.
«perché alla gente fa venire in mente i movimenti di liberazione con la loro
valenza politica e tutto il male e le divisioni che hanno portato». Invece
bisognava annunciare e portare qualcosa determinante per il superamento delle
divisioni tribali e politiche, che rappresentasse l’inculturazione del
cristianesimo in Africa però senza sottomettere Cristo a categorie culturali.
Lo spiegò al Meeting di Rimini nel 1984: «La nostra posizione è proprio quella
secondo la quale le realtà africane
vere sono riprese solo attraverso una proposta chiara. Quali sono le realtà vere tradizionali? È questa unità nel clan, per
cui le persone sono uno, e noi abbiamo proposto il movimento proprio in questa
categoria; noi diciamo: come secondo la tradizione, quando due fanno il
patto di sangue diventano una cosa sola e pensano alla loro unità e per quella
sono capaci di dare la vita: così è in CCL.
Prima
di tutto, nel sangue di Cristo, perché è il sangue che unifica, e poi nello
spirito di Cristo, perché il clan sussiste per la presenza dello spirito degli
antenati, che sono chiamati i morti viventi. Solo che questo nuovo clan, questa
nuova cultura è chiaro che elimina totalmente l’odio profondissimo che c’è fra
le tribù, crea una nuova civiltà della verità e dell’amore, su cui si
costruisce la nuova realtà. Per cui per noi ha molta importanza il sorgere
dell’esperienza di questo nuovo tipo di civiltà, basata sul sangue di Cristo,
che toglie le divisioni, e sullo spirito di Cristo, che fa vivere e che crea
una nuova realtà di tribù».
Ma
l’unità nella Comunione non è un prodotto umano, è solo e soltanto un dono
divino. Perciò Tiboni scrisse una
preghiera di consacrazione a Cristo attraverso Maria che gli appartenenti alla
comunità recitavano più volte al giorno, e che fa così: «Maria, tu sei la madre
di Cristo, madre della comunione che tuo figlio ci dà, come dono nuovo sempre
nuovo e potente, che è un gusto di vita nuova. Attraverso di te, perciò, noi
consacriamo tutto noi stessi, tutte le sofferenze che tuo figlio scegli per
noi, e la nostra stessa vita, affinché tu diventi la madre della vita. E Cristo
doni a tutti gli uomini lo stesso gusto di vita nuova che ha donato a noi».
La
sua testimonianza al Meeting del 1988 altro non fu che la lettura di una serie
di testimonianze dei suoi figli spirituali che descrivevano la vita di
comunione, soprattutto di Rose Busingye,
che sarebbe diventata la fondatrice dei Meeting Point per i malati di Aids
(l’Uganda in passato è stata uno dei paesi africani più colpiti) e avrebbe
preso parte al Sinodo per l’Africa del 2009. «È quella che si chiama la
comunione di Cristo», commentò. «Non si può vivere felici, sperimentare la
felicità di sé, eterna, infinita, senza un’amicizia che sostenga (non
un’amicizia qualsiasi), senza una compagnia con cui poter vivere il mistero di Cristo
presente». Nel 2001 ebbe la gentilezza di presentare al Meeting di Rimini il
mio primo libro, che trattava della fede in Africa attraverso una carrellata di
testimonianze cristiane in situazioni estreme (guerra, malattia, genocidio,
stregoneria) e si intitolava Santi e Demoni d’Africa.
Il più grosso complimento che fece fu quello di dire che il libro si inseriva
degnamente nella tradizione della narrazione missionaria, caratteristica dei
tempi di san Daniele Comboni e purtroppo abbandonata per tematiche più
ideologiche, disse lui, in epoca contemporanea. Ma anche
quella volta insistette che le personalità che io avevo messo in rilievo
andavano collocate dentro a una coralità: «Il libro è una galleria di ritratti
sui grandi di un continente, cioè presenta persone, (…) che sono venute anche
al Meeting di Rimini. Presenta una galleria di ritratti come di personalità;
intorno a queste personalità si crea come una rete, un popolo. Non si tratta,
quindi, soltanto di personalità da ammirare, ma sono come un seme che cresce in
una pianta o se meglio volete in una foresta, perché attorno a tutte queste
persone sta crescendo una realtà veramente stupenda. C’è come il crescere di
una rete di persone, africane e non, che fanno crescere una realtà che ha un
valore sociale e direi anche politico».
Negli
anni la foresta è cresciuta, e lui ha deciso di restare fra i suoi alberi e le
sue foglie fino all’ultimo. Ha aspettato l’ultima chiamata sulla sua sedia a
rotelle al Lacor Hospital di Gulu, lì dove si trovano le tombe di Piero Corti,
Lucille Teasdale, Matthew Lukwiya.
Lui
invece riposerà a Kitgum, dove ebbe la sua prima parrocchia ugandese, quella di
Cristo Re, e dove incontrò Enrico Guffanti e gli altri medici volontari
ciellini nel 1970.
Quando
sei pronto, quando sei maturato, Dio manda un suo angelo a prenderti.
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