di Claudio Risé, da “La Verità”, 21 ottobre 2018
Gli intellettuali
raccontano un’Italia in preda all’odio e al razzismo. Non
capiscono che
l’antipatia verso i migranti non è il frutto della politica, ma
nasce nei cuori. È
l’emozione profonda di chi non ha intenzione di perdere la
propria terra e le
proprie radici.
Ma come siamo delicati! A
credere ai commenti, la società italiana sarebbe
attraversata dalla violenza, in preda alla paura, e
posseduta dall'odio.
Queste tre parole (e
altre sullo stesso registro) ricorrono costantemente per
descrivere il clima
politico e culturale del nostro Paese, e
vengono usate con
dovizia dai molti interessi ancora storditi dai risultati delle ultime
elezioni.
Proviamo a osservare
questa visione intimorita e un po' frignona con uno
sguardo più selvatico,
nel senso leonardesco di più vicino alla selva e alla
natura umana che al
birignao da salotto.
Il sospettato numero uno
di questo mutamento da paese dell'amore e del
piacere a quello
dell'odio e della paura è il cambiamento
della politica italiana
(l'unico finora
realizzato con chiarezza e successo) di fronte all'immigrazione
di massa e
indiscriminata, che è stata fermata. Lo stop, avversato dai paesi
che finora avevano
scaricato sull'Italia i migranti e i relativi problemi, è
considerato dalla
maggioranza dei media e da molti operatori culturali come
espressione di un odio irrazionale, generato da paure infondate.
È davvero così? Gli italiani sono posseduti da paure ingiustificate e
irrazionali, che li
rendono violenti e aggressivi? Innanzi tutto le emozioni di cui
si parla (come ogni
emozione) non sono affatto irrazionali e rivelatrici di
incapacità di pensare.
Come ogni psicologo sperimenta, e (tra gli altri) la
filosofa Hanna Arendt ha spiegato, è invece il
rifiuto delle emozioni che
genera sviluppi
irrazionali. "È l'ipocrisia e il far finta di niente che trasforma gli
"impegnati" in
"arrabbiati"".
È allora che le
istituzioni rischiano di essere viste dal popolo come un nemico
dal cui volto
"strappare la maschera di ipocrisia", come racconta appunto la
Arendt nel suo libro Sulla violenza. A quel punto, per lui
diventa "ragionevole"
ribellarsi, come è
accaduto con il voto di marzo.
Hanna Arendt |
È poi vero e possibile che l'altro vada sempre e comunque "amato", e
qualunque altro
sentimento verso di lui vada rifiutato e condannato? Per
rispondere va valutato
nella giusta importanza un fatto noto a chiunque abbia
contatti reali con la
società, ma poco presentato dai media:
l'opposizione
all'immigrazione indiscriminata non è stata suscitata da qualcuno, ma
è nata
spontaneamente, nel cuore delle persone (non solo in Italia, ma in
tutta
Europa), quando venivano a contatto con gli immigrati. Per quanto Matteo
Salvini sia un politico
capace, non è stato lui a creare un fenomeno così
vasto, sviluppatosi in
silenzio nel cuore delle persone. Poi, certo, ha capito in
fretta cosa stava
accadendo e si è impegnato a rappresentarlo.
Si tratta del resto di uno dei fenomeni più noti e osservati in
natura:
quando in uno stesso territorio
vengono inseriti nuovi individui,
la reazione di quelli che
c'erano prima varia a seconda dello spazio e delle risorse
a disposizione, e della compatibilità
tra comportamenti e credenze fra i nuovi e gli autoctoni.
Perché dico che si tratta
di un fenomeno che nasce nel cuore delle persone?
Perché è un'emozione
profonda, di tipo affettivo, solo secondariamente
legata all'interesse e
alla convenienza.
In prima istanza lo
straniero è l'"altro", la realtà più importante dopo l'Io,
quello che trovo quando
esco di casa, che sta vicino a me, nel mio territorio,
nei miei lavori.
È la versione
socializzata dell'estraneo verso il quale il bambino prova
a partire dall'ottavo
mese di vita una naturale avversione.
Si tratta dell'esperienza
vitale su cui poi poggeranno
tutti i successivi
vissuti di aggressività verso gli altri, che riproducono
l'angoscia di venire separati dagli affetti primari: la terra e la
madre.
Insomma
mentre i politici, gli
intellettuali, molti operatori economici e tanti altri
vedevano gli immigrati
come cose, oggetti delle loro decisioni, futuri elettori,
della cui esistenza
personale importava meno di zero, gli altri hanno visto gli
immigrati come esseri
umani, l'altro della porta accanto, il vicino di casa. E
non l'hanno amato.
Il fatto è che l'emozione affettiva non è sempre "empatia";
c'è anche l'"antipatia".
Non l'hanno amato non perché siano razzisti ma perché avrebbe potuto
ottenere la casa prima di loro, perché aveva principi e comportamenti
diversi,
perché avrebbe offerto il suo lavoro a un prezzo inferiore, o perché
avrebbe
venduto ai suoi figli le canne (quelle celebrate con pagine osannanti
sui
giornaloni antiproibizionisti da intellettuali alla moda), come altri
immigrati già
facevano. E per tante altre ragioni che avrebbero inciso direttamente
sulla
sua esistenza.
Nessuna centrale dell'odio gliel'aveva detto, l'aveva scoperto
lui da solo guardando la
città, il quartiere, la campagna attorno e chi ci
lavorava. Quell'immigrato
era un altro che avrebbe potuto cambiare la sua
vita, in un senso che lui
non voleva.
Un sentimento per nulla
innaturale. C'è un'emozione personale (non
un'indifferenza o un
ammaestramento propagandistico) che si conclude qui
con un rifiuto, motivato
dalle scelte di fondo dell'individuo, dai progetti di vita,
dal Sé personale. Che di
solito è più saldo di molti comportamenti ideologici,
perché è nato nel cuore
di tante e diverse persone, che poi l'organizzano e
traducono con la propria
testa in comportamenti, come il voto.
I narratori di un'Italia conquistata dalla sindrome
"irrazionale" dell'odio lo
fanno, oltre perché gradito al padrone, perché non hanno mai visto da
vicino
né gli sbarcati, né il popolo che non li ama.
Però sbagliano a
tenersene lontani, perché rischiano di non capire
più nulla di quanto sta
accadendo non solo in Italia, ma nel mondo
Che invece è molto
appassionante e istruttivo,
perché produce, ovunque
nel mondo, la fine degli universalismi
astratti e
cattivi imposti dall'Illuminismo in poi, e il ritorno delle persone
fisiche, con le
loro emozioni e i loro personali valori. Tutt'altro che aridi o
malvagi anche se
molto diversi
dall'accoglienza obbligatoria e stereotipata, promossa dalle
scrivanie di tecnocrati
oggi alla frutta. Almeno sul piano umano, è il bosco che
si riprende il deserto.
L'accusa all'Italia di oggi di essere posseduta dalla paura ha sempre
la
stessa origine: la non conoscenza del popolo, e il tenersene a
distanza.
Certo: il popolo ha vivo
il ricordo (spesso ancora attuale) del bisogno, e teme
di non potervi fare
fronte. Anche perché a differenza del "single benestante",
di solito il popolo ha
famiglia. È spesso di origine meridionale anche quando
è oggi al nord (dove
giunse nel dopoguerra alla ricerca di lavoro) ed ha
ancora la particolare dignità del povero, che
spesso il borghese ha perduto:
ciò lo carica di
ulteriori responsabilità, che suscitano nuovi timori. Si può dire
che il povero conserva
ancora (almeno in parte): il
"timore di Dio", la
consapevolezza di non
essere onnipotente.
Grazie ad essa, il popolo
mantiene parte di quella compostezza conservatrice
che caratterizzò a lungo il
partito comunista nel dopoguerra,
e che naufragò un po'
ridicolmente nella pretenziosità banale di Capalbio.
Oggi, quel che rimane del
popolo, ha ancora le sue paure, e le onora, anche quando vota.
A me sembra un dignitoso tratto di saggezza.
Ma forse ad altri "fa paura".
Nessun commento:
Posta un commento