In questi giorni sta divampando la polemica sui
politici, es. Salvini, ed il riferimento a Dio ed alla religione da loro fatto.
A tal proposito, riprendo questo articolo
del dott. Domenico Airoma, Procuratore aggiunto presso il tribunale di Napoli
Nord, e Vice Presidente Centro Studi “Rosario Livatino”.
È un intervento che mette in evidenza qualcosa di più
profondo che la semplice e spicciola polemica del politico di turno che nomina
Dio.(Tratto dal blog di Sabino Paciolla)
No, non è Matteo Salvini il problema. Salvini, in realtà, ha solo fatto venir fuori una questione molto più seria, che riguarda il rapporto fra religione e politica.
Se è vero che «Dio è di tutti», come ha
ammonito il cardinale Pietro Parolin, è anche vero che non tutti gli uomini
politici intendono essere di Dio; anzi, gli uomini che hanno patito i
campi di concentramento nazionalsocialisti ed il GuLag comunista, così come
oggi il povero Vincent Lambert in Francia, non sono altro che le icone
sanguinanti di un Cesare che si è fatto Dio. Ed è altrettanto vero che ancor meno sono gli uomini politici che
confessano pubblicamente di non estromettere Dio e i Suoi diritti
dall’orizzonte del bene comune. Sicché quando il nome di Dio viene evocato
da un uomo politico, il clamore è inevitabile e il sospetto che quel nome sia
stato pronunziato invano altrettanto legittimo.
Invocare
Dio da parte di chi è chiamato a governare «è sempre molto pericoloso», dice
ancora una volta il cardinale Parolin. Ma perché? Che succede quando un uomo
politico dichiara pubblicamente di tenere in conto Dio nell’esercizio delle
proprie funzioni?
Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 2147, è molto chiaro:
«Le promesse fatte ad altri nel nome di Dio impegnano l’onore, la fedeltà, la
veracità e l’autorità divine. Esse devono essere mantenute, per giustizia.
Essere infedeli a queste promesse equivale ad abusare del nome di Dio e, in
qualche modo, a fare di Dio un bugiardo». Insomma, se è vero che la gravità di
una promessa si misura dal soggetto che la subisce, altrettanto può dirsi per
una promessa non mantenuta quando viene fatta a Dio. Il quale non si lascia
ingannare, magari pensando che basti istituire un ministero per la Famiglia, e
dinanzi al quale è difficile giustificarsi appellandosi al “contratto di
governo”.
Ma
la questione, come detto, è molto più seria. E non a caso divide i cattolici e
non solo. Perché non è solo la politica partitica che divide. Ciò che divide è il fine della politica e,
quindi, il fine del governo della cosa pubblica. Perché se davvero Dio deve
essere di tutti, allora la questione è come rispettare il piano di Dio sugli
uomini, cioè fare in modo che le istituzioni rispettino, innanzitutto, la legge
che è scritta nel cuore degli uomini.
«Non
si tratta di per sé di imporre particolari “valori confessionali”, ma di
concorrere alla tutela di un bene comune che non perda di vista il riferimento
vincolante della ‘sfera pubblica’ alla verità della persona e alla dignità
della convivenza umana», come ha ricordato la Commissione Teologica Internazionale nel recente documento
La libertà religiosa per il bene di tutti, approvato
da Papa Francesco. Ed è proprio questo
che divide: prendere atto che la modernità ideologica ha fallito pretendendo di
costruire un mondo contro Dio che è finito che ritorcersi contro l’uomo, oppure
continuare a flirtare con questo mondo, illudendosi – i cristiani in primis ‒ di potersi concepire «come
membri di una “società neutrale” che, nei principi e nei fatti, non lo è»,
avverte ancora la Commissione Teologica.
In definitiva, la questione è se il fine
della politica, e del cristiano in politica, sia la civiltà cristiana oppure un
filantropismo annacquato, che può servire, forse, per fare propaganda per
l’otto per mille. Che però non convince. Non scalda i cuori. Non spinge a
costruire cattedrali.
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