CARRÓN: QUALE CURA PER GLI SCETTICI DI OGGI?
MARINA
CORRADI AVVENIRE MERCOLEDÌ 29 LUGLIO 2020
«Mi accorgo che
sono circondato dal nulla, anche semplicemente parlando con i miei compagni di
corso: il dialogo fra noi è all’insegna del nulla, passiamo da un argomento
all’altro senza più ricordare ciò di cui parlavamo prima». Tra le righe della
lettera di uno studente a Julián Carrón, guida di Comunione e Liberazione, una
sensazione che in tanti oggi avvertiamo – come un tarlo che ci svuota, piano.
Qualcosa che, nei lunghi silenzi del lockdown, abbiamo forse percepito più
nettamente. «La grave minaccia oggi è la perdita del senso del vivere»,
ha detto il Papa. La minaccia di un nichilismo non ideologico ma
esistenziale, che respiriamo inconsapevolmente. Una «sfiducia nella
possibilità di compimento e di senso dell’esistenza», lo definisce Carrón nel
suo “Il brillìo degli occhi”. Che cosa ci strappa dal nulla? (Editrice
Nuovo Mondo, pagine 160, euro 4,00), appena uscito. Che cosa, appunto, ci può
strappare a questo impalpabile malessere, quasi l’aria stessa ne fosse
contaminata? Domanda forte, che per un cristiano di lungo corso può forse
suonare disturbante: io credo in Cristo e nella Resurrezione, potrebbe
rispondere uno di loro, e nessun tarlo mi rode. Eppure: lo sfaldamento della famiglia,
la violenza nelle case, la diffusa indifferenza al destino di una moltitudine
di miserabili, il crollo demografico – quasi una voglia di non continuare – non
danno la sensazione che anche l’ambiente umano interiore sia malato e in
declino? E davvero sempre la nostra speranza cristiana regge a questo urto, a
questo dubbio?
Cattedrale di Chartes |
L’ampiezza e la
profondità delle domande di Carrón rendono difficile ridurle in un articolo di
giornale. Ma chi si ritrova almeno un po’ nel malessere descritto da quello
studente dovrebbe leggere questo breve denso libro. Noi qui ci vogliamo
soffermare soprattutto sul quarto capitolo, “Un cammino che dura tutta la
vita”. Dedicato a chi ormai da tanto ha incontrato Cristo, e ne vede i frutti
nella propria vita: eppure. Eppure sperimenta aridità e pesantezza. Con gli
anni che avanzano, prova smarrimento e paura. Come se la promessa di Cristo
svanisse nella vecchiaia, nell’angoscia di una morte che in questi mesi ci è
passata tanto vicina. Ma, scrive Carrón ricordando l’insegnamento di John Henry
Newman, riconoscere Cristo è solo l’inizio di un cammino che dura tutta la
vita. Con le sue salite erte e apparentemente impossibili, con i pianori in cui
riprendi il fiato, con le gioie, e poi le vertigini del dolore. La fede è
essere “viator”, essere sempre in cammino. Mantenendo la memoria del desiderio
immenso, quasi indicibile, che abbiamo come una radice profonda nel cuore: il
desiderio di essere amati e amare, per sempre. Ma questo è possibile solo se
Cristo è risorto, se la sua promessa è vera. Senza Cristo, nasceremmo solo per
morire. Non può bastare, a sistemare le nostre vite, un’etica, come molti
perfino fra i cristiani propongono. Né il compito sta in un nostro sforzo, in
un afferrare: invece, scrive von Balthasar, sta nell’essere afferrati, nel
lasciarsi afferrare da Cristo. E magari, da giovani, ci è accaduto. Ma, poi?
San Bertand de Commiges (Pirenei) il Chiostro |
Poi forse
abbiamo creduto di avere già raggiunto la meta. «Mai dare per scontata la
sorgente», ammoniva Giussani. Perché se Cristo non è vivo e operante in noi,
anche attraverso il volto di una compagnia cristiana, la mentalità del mondo
prevale; e la centratura su se stessi, ricorda Carrón, «rende il mondo
soffocante». Non è, ti domandi allora tu che ti avvicini alla
vecchiaia, che ti succede ciò che Tolstoj straordinariamente descrive in
“Resurrezione”? «Pensava (…) di credere; ma intanto con tutto l’essere (…)
aveva coscienza che questa fede era qualcosa di assolutamente “inadeguato”. Ed
era questo che faceva sì che i suoi occhi erano sempre tristi». Ha scritto Ratzinger:
«È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso». Così sommesso che in
fondo, suggerisce Carrón, non germina in noi, inconfessato, «uno scetticismo
sull’efficacia del Mistero nel mondo»? Forse nel malessere di questo
scetticismo non pochi cristiani oggi potrebbero riconoscersi. Ma, come uscirne?
È “Padre”, la parola salvifica, diceva Giussani ai suoi. Non è un nostro
sforzo, ma il percepirci figli ciò che salva e colma la vita, e le dà un gusto
diverso dall’amara stanchezza che invade anche chi ha tutto, ma si accorge che
quel tutto non basta. E, scrive ancora Giussani: «Proviamo a immaginare un uomo
che dieci, cento, mille volte al giorno prenda coscienza del fatto che Colui
che lo ha mandato, cioè Colui che lo fa, il Mistero che lo fa, è con lui, che
Dio è con lui: la serenità di certi volti, di certi volti di monaci e di
monache, ha qui la sua radice».
Ed è
questo il brillìo degli occhi cui allude il titolo del libro: gli occhi lieti,
in pace anche nelle prove più dure, dei cristiani veri. Quello sguardo che
stupisce chi lo incrocia, e porta anche i più lontani dalla fede a domandarsi:
ma quell’uomo come fa a vivere così? E noi che scriviamo questo pezzo, e
abbiamo spesso gli occhi tristi di cui scriveva Tolstoj, e in mente, con
l’avanzare degli anni, senso di fine e vuoto, come vorremmo sapere di nuovo di
essere figli, semplicemente figli bambini che tendono la mano al padre. Non è
uno sforzo che dobbiamo fare, non è qualcosa che possiamo afferrare. È un
lasciarsi afferrare. È un desiderio, è una preghiera. Nel tempo del Covid e
della paura collettiva, nel tempo in cui tante consolidate certezze sono andate
in frantumi, un libro che fa venire voglia di pregare. Di tornare a essere
figli. Di riconoscere semplicemente la limpida evidenza: figli, è ciò che
siamo.
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