23 maggio 2020
Come avevamo
previsto, le lezioni universitarie si terranno dall’anno prossimo on
line. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la
cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione
sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.
Non
c’interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in cui
l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto
fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come scompaiono le
discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva dell’insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che
stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e
la perdita dello sguardo, durevolmente imprigionato in uno schermo
spettrale.
Ben più
decisivo in quanto sta avvenendo è qualcosa di cui significativamente non
si parla affatto, e, cioè, la fine dello
studentato come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle
associazioni di studenti – universitates – e a queste devono il loro
nome. Quella dello studente era, cioè, innanzitutto una forma di vita, in cui
determinante era certamente lo studio e l’ascolto delle lezioni, ma non meno
importante erano l’incontro e l’assiduo
scambio con gli altri scholarii, che provenivano spesso dai
luoghi più remoti e si riunivano secondo il luogo di origine in nationes.
Questa forma di vita si è evoluta in vario modo nel corso dei secoli, ma
costante, dai clerici vagantes del
medio evo ai movimenti studenteschi del novecento, era la dimensione
sociale del fenomeno. Chiunque ha insegnato in un’aula universitaria sa
bene come per così dire sotto i suoi occhi si legavano amicizie e si
costituivano, secondo gli interessi culturali e politici, piccoli gruppi di
studio e di ricerca, che continuavano a incontrarsi anche dopo la fine
della lezione.
Tutto questo, che era durato per quasi
dieci secoli, ora finisce per sempre. Gli studenti non vivranno più nella
città dove ha sede l’università, ma ciascuno ascolterà le lezioni chiuso nella
sua stanza, separato a volte da centinaia di chilometri da quelli che erano un
tempo i suoi compagni. Le piccole città, sedi di università un tempo
prestigiose, vedranno scomparire dalle loro strade quelle comunità di
studenti che ne costituivano spesso la parte più viva.
Di ogni fenomeno sociale che muore
si può affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo
che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza
specialistica che non è possibile rimpiangerle e che la forma di vita degli
studenti si era conseguentemente altrettanto immiserita. Due punti devono però
restare fermi:
- i professori che
accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova
dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono
il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono
fedeltà al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che
solo quindici su mille si rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno
ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono.
- Gli studenti che amano veramente lo studio dovranno rifiutare di iscriversi alle università così trasformate e, come all’origine, costituirsi in nuove universitates, all’interno delle quali soltanto, di fronte alla barbarie tecnologica, potrà restare viva la parola del passato e nascere – se nascerà – qualcosa come una nuova cultura.
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