Il volume intitolato "Abita la terra e vivi con
la fede" rilegge, alla luce del magistero sociale della Chiesa, l'impatto
della pandemia sulla vita dei credenti
Abita la terra e vivi con fede (Piemme, 224 pagine, 15,90
euro), è la riflessione più recente di monsignor Massimo Camisasca, vescovo di
Reggio Emilia-Guastalla, che propone di rileggere sotto la lente del magistero
sociale della Chiesa l’esperienza credente in un tempo reso ancora più
complesso dall’impatto della pandemia.
All’inizio
dell’emergenza Covid, lei disse alla sua diocesi che sarebbe stata una prova
per tutti: se ne fossimo usciti migliori o peggiori sarebbe dipeso
esclusivamente da noi. Come ne stiamo uscendo?
Penso che
l’intuizione che ho avuto all’inizio della pandemia si sia rivelata giusta: non
tutto, certamente, ma molto, moltissimo, sarebbe dipeso da noi, da ciascuno di
noi. In ogni evento c’è un richiamo, una voce, una vocazione. Abbiamo saputo
cogliere gli insegnamenti di questi mesi? Ciascuno,
in fondo, deve dare la propria risposta. Una cosa certamente abbiamo
imparato: che l’uomo non può vivere senza fisicità, senza la vicinanza degli
altri, senza l’apertura agli spazi che soltanto la presenza delle persone,
delle montagne, del mare, dell’infinito può garantire. Si può vivere anche in
una cella per tutta la vita, ma questa è una chiamata straordinaria. L’altro
insegnamento è che non possiamo vivere
senza stabilire relazioni e che esse non possono essere soltanto virtuali.
Nel libro lei
scrive che stiamo vivendo "un periodo di disorientamento che può
positivamente sfociare in un nuovo slancio umanistico". In qualche misura
è ciò che ci ha mostrato il tempo del lockdown. È una mutazione temporanea o
c’è qualcosa in noi che è destinato a cambiare in modo permanente?
Penso a
tutt’e due le cose: qualche aspetto della nostra vita è cambiato in superficie,
qualche altro in profondità. Ma di questi ultimi ci accorgeremo soltanto più
avanti. Penso che, in superficie, abbiamo percepito la bellezza dello stare con
se stessi, dell’aver tempo per leggere, per riordinare la casa, per un po’ di
silenzio... Tutto questo però verrà spazzato via facilmente dall’ansia del fare
che domina il nostro tempo se delle abitudini buone e nuove non si radicheranno
in noi, se non diventeranno una piccola regola. Per esempio: aprire la giornata
con un Salmo, con dieci minuti di silenzio, con la lettura di tre o quattro
righe di un testo importante; pregare prima di mangiare; dedicare più tempo ai
nostri figli e ai nostri cari; non far dipendere il giudizio che abbiamo su noi
stessi dal successo nel lavoro o dalla considerazione degli altri; imparare ad
amare la bellezza: un quadro, una musica, il Creato... Occorre una pandemia per
imparare queste cose? Forse no, ma il tempo che abbiamo attraversato non sarà passato
invano se una piccola rivoluzione nella nostra giornata avrà cominciato a
stabilizzarsi.
Un tema che
ricorre nella sua analisi è il rapporto alterato tra soggetto e comunità,
individualismo e fraternità. Qual è il punto di equilibrio tra questi due poli
della nostra vita alla luce di quello che abbiamo
sperimentato in questi mesi?
La comunità
vive della persona e la persona della comunità. In altre parole: una comunità
non è composta di individui che si mettono assieme soltanto per vivere meglio o
emergere di più, ma di persone, cioè di
soggetti profondamente convinti che soltanto nella relazione potranno scoprire
la propria vera identità. Oggi l’aspetto comunitario della vita è molto
dimenticato, anche nella Chiesa. Eppure questa è la vocazione più profonda.
Siamo chiamati a essere un popolo, il popolo di Dio, uniti profondamente nel
Corpo di Cristo. Questo popolo vive in piccole e grandi comunità. L’educazione
alla vita comune è un elemento fondamentale e oggi per lo più sconosciuto nella
società e nella Chiesa. Eppure la storia della Chiesa ci parla continuamente
della rinascita della vita comune come strada per la realizzazione dello stesso
evento ecclesiale e come luce per tutti i popoli.
Lei dedica un
intenso capitolo al tema della fragilità: mai come sotto la cappa del Covid
abbiamo realizzato la nostra vulnerabilità personale e collettiva. Cosa abbiamo
imparato? Cosa non dobbiamo dimenticare?
Mi chiedo:
abbiamo veramente imparato qualcosa? Questo sarebbe il punto decisivo del
cambiamento dell’intera società: il
riconoscimento della nostra nativa fragilità. Noi non siamo Dio e non
possiamo vivere senza Dio, perché siamo creature. Ho ricevuto talvolta una pessima impressione da parte di
scienziati che affermavano verità contraddette il giorno dopo ma sostenute
purtroppo come incontrovertibili anche di fronte alle differenti verità
affermate da altri scienziati. Mi è sembrato molto più umano il mondo dei
medici e dei paramedici. Riconoscere la propria debolezza non significa non
avere coraggio, non rischiare, non costruire. All’opposto, il riconoscimento
sereno della propria fallibilità ci fa cercare gli insegnamenti e gli appoggi
giusti. Nella classe politica ho visto purtroppo, molto spesso, una grande
debolezza non riconosciuta.
Il Papa ha
chiesto di dedicare un anno a riflettere sui contenuti dellaLaudato si’. Su
cosa va concentrata l’attenzione?
Per scrivere
un capitolo del mio libro ho letto e riletto la Laudato si’, e
penso che il cuore dell’enciclica affermi la necessità di una visione ecologica
e nello stesso tempo la distinzione fra
vera e falsa ecologia. Mi sembrano questi i due cardini su cui riflettere
durante quest’anno dedicato alla Laudato si’. L’ecologia non è
un capitolo della Dottrina sociale, ma è un punto di vista da cui guardare
tutto. Nello stesso tempo può diventare
un’ideologia anticristiana che, esaltando la terra come divinità, misconosce la
divinità del Creatore. L’ambiente va custodito: è stato voluto da Dio come
l’habitat del nostro cammino sulla terra. È opera sua e suo riflesso. Nello
stesso tempo anch’esso, come l’uomo, verrà trasformato, come attraverso il
fuoco, per essere riconsegnato al Padre alla fine del tempo.
Si può dire
che il suo sia un libro che attualizza il magistero sociale alla realtà presente.
Cosa può dirci della società provata dalla pandemia la dottrina della Chiesa
sull’uomo, la società, il lavoro, la famiglia...?
Sì, il mio
libro è proprio un tentativo di esprimere
la Dottrina sociale della Chiesa alla luce delle nuove attese dell’uomo. Penso
che i capitoli fondamentali siano quelli dedicati all’antropologia, alla famiglia, all’educazione e al lavoro. Oggi è
in atto – lo riconoscono tutti – una grande mutazione nella visione dell’uomo.
Vogliamo collaborare affinché l’uomo si salvi e non si autodistrugga, affinché
nel riconoscimento dei propri limiti sappia usare bene delle grandiose scoperte
che lui stesso ha realizzato? Come non mai, l’uomo può porre fine a se stesso. Allontanandosi da Dio l’uomo non diventa
Dio ma si distrugge. Penso che tutti dobbiamo aiutare gli uomini a
riconoscere che Dio è la presenza più laica che esista, cioè la più necessaria.
Intervista di Francesco Ognibene sabato 25 luglio
2020 Avvenire
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