domenica 30 maggio 2021

DL ZAN, LA SINISTRA VUOLE CONDIZIONARE IL PENSIERO

 Gli effetti della legge non si manifesteranno solo nei tribunali. La norma penale diventa strumento per condizionare e manipolare il pensiero

La reclusione può essere strumento “pedagogico” per sanzionare chi non si allinea con la “cultura dell’indifferenza sessuale”? Considerazioni di Pietro Dubolino, presidente emerito di sezione della Corte di Cassazione, a margine dell’articolo del prof. Giuseppe Savagnone, comparso su Giustizia insieme: il quale difende il filo conduttore delle nuove disposizioni, pur al prezzo di negare l’antico brocardo “Cogitationis poenam nemo patitur”.

* * *

1.  Nell’ambito dell’ormai strabocchevole pubblicistica che, dalle opposte trincee, ha per oggetto il Ddl Zan sulla “omotransfobia”, mette conto segnalare l’articolo comparso il 25 maggio scorso sulla rivista giuridica Giustizia insieme a firma di Giuseppe Savagnone, professore emerito di storia e filosofia nei licei statali e direttore, per molti anni, dell’ufficio per la pastorale della cultura della diocesi di Palermo.

Articolo, quello anzidetto, che, pur provenendo da una sponda dichiaratamente di sinistra, e quindi comunque favorevole al disegno di legge in questione, vuole tuttavia caratterizzarsi per un approccio apparentemente moderato e conciliativo, manifestato in particolare nel richiamo, in termini di apprezzamento, se non anche di condivisione, alla presa di posizione di alcune associazioni femministe contrarie al concetto di “identità di genere”, accomunato, nel testo approvato dalla Camera ed attualmente in discussione al Senato, a quelli di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e definito come “l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso”. Si tratta, però, di un’unica concessione che, guarda caso, viene rivolta ad un mondo, quello appunto delle associazioni femministe, tradizionalmente vicinissimo alla sinistra e delle cui opinioni, quindi, sarebbe assai sconsigliabile non tenere conto.

2. Quanto al resto, il sostegno al Ddl Zan, nella sua attuale formulazione risulta, pur nell’apprezzabile pacatezza del linguaggio, assoluto e granitico. Il che non lo renderebbe particolarmente interessante se non fosse per il fatto che l’Autore, per un verso, minimizza quello che dovrebbe essere il contenuto meramente precettivo della norma in gestazione, affermando che essa prevederebbe “soltanto l’estensione ai comportamenti violenti ‘fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità’ [del]le aggravanti che già il nostro ordinamento prevede per quelli che riguardano i reati commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”; per altro verso riconosce espressamente che il Ddl Zan, in realtà, vuole avere un “carattere simbolico e pedagogico” e, pertanto, “non si limita a difendere i diritti delle persone omosessuali” ma, proprio per tale suo carattere, “pone le basi per una educazione capillare alla cultura dell’indifferenza sessuale”, per cui “si può facilmente prevedere che i suoi effetti non si manifesteranno [solo – N.d.R.] nelle aule dei tribunali, ma in tutte le sedi in cui si realizza un’opera educativa”.

3.  Ora, con riguardo alla prima di tali affermazioni, può anzitutto osservarsi che, a parte l’implicito “assist” che essa offre al disegno di legge del centro destra, anch’esso incentrato sulla previsione di un semplice aggravamento delle pene per tutti i reati (e non solo per quelli caratterizzati da violenza) se commessi per motivi legati agli orientamenti sessuali delle vittime, non può neppure dirsi vero che il Ddl Zan si limiti solo ad estendere la sfera di operatività della già esistente circostanza aggravante prevista per i reati “commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso” a quelli commessi per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.

Il Ddl in questione, infatti, interviene non soltanto sull’attuale art. 604 ter del codice penale, che in effetti contiene la suddetta aggravante, ma anche sull’art. 604 bis, il quale prevede come autonome fattispecie di reato quelle costituite dalla commissione o dalla istigazione a commettere “atti di discriminazione”, la cui punibilità dovrebbe quindi essere estesa ai casi  in cui anch’essi essi siano motivati dalle stesse finalità da aggiungersi a quelle previste per l’aggravante. E gli “atti di discriminazione”, per assumere rilievo penale, non debbono essere necessariamente violenti (qualora lo siano il reato è punito più severamente), per cui, nonostante la definizione che ne viene data dalla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, recepita in Italia con la legge n. 654/1975, resta assai ampio il margine di discrezionalità nell’ambito del quale il giudice può riconoscerne o negarne la sussistenza

Di qui la legittimità del timore che le proposte modifiche normative diano luogo a derive liberticide, da aggiungersi a quelle che già possono facilmente prodursi sulla base della legge esistente, la cui formulazione è tale da poterla frequentemente porre in potenziale rotta di collisione con il principio della libertà di manifestazione del pensiero tutelato dall’art. 21 della Costituzione.

4. Ma quel che risulta più preoccupante, ed al tempo stesso rivelatore del vero obiettivo del Ddl Zan è quel che si afferma, nell’articolo in questione, a proposito, come si è sopra riportato, della finalità “educativa” che la nuova norma dovrebbe avere, per favorire l’affermarsi di una “cultura dell’indifferenza sessuale”, non solo “nelle aule dei tribunali, ma in tutte le sedi in cui si realizza un’opera educativa”. Risulta così confessata (con una buona dose, se vogliamo, di ingenuità) proprio quella finalità recondita che i più callidi e accorti sostenitori della nuova legge cercano invano di negare, per far leva soltanto sull’argomento di più facile presa consistente nella asserita recrudescenza di atti di aggressione ai danni di soggetti omosessuali o transessuali (peraltro del tutto indimostrata ed, anzi, platealmente smentita da incontestate risultanze statistiche provenienti da organismi ufficiali quali, in particolare, l’Oscad).

In realtà una norma di legge, specie quando si tratti di una norma penale, dovrebbe occuparsi soltanto di comportamenti materiali da vietarsi o da imporsi, a seconda dei casi, sotto comminatoria di adeguata punizione in caso di inosservanza. L’unico legittimo effetto “educativo” di una tale norma dovrebbe essere, quindi, quello consistente nella dissuasione del maggior numero possibile di consociati, mediante la minaccia della sanzione, dalla eventuale tentazione di contravvenire a tutti e soli quei divieti od obblighi che nella stessa norma trovino specifica previsione.

E ciò tanto più vale in quanto, come si verifica nel caso della norma che si vuole introdurre con il Ddl Zan, essa non sia espressione di valori universalmente condivisi ma sia piuttosto il frutto di scelte proprie di una parte politica che, se ed in quanto maggioranza, può anche avere il diritto di imporle alla minoranza, ma non ha certamente quello di ergersi a maestra di pensiero nei confronti di quanti a quelle scelte siano stati e continuino ad essere legittimamente contrari e magari, una volta diventati maggioranza, intendano revocarle.

5. Può essere il caso, a questo proposito, di ricordare l’antico e saggio brocardo secondo cui “Cogitationis poenam nemo patitur”. Esso infatti non soltanto esprime l’ovvia impossibilità di sanzionare penalmente ciò che, rimanendo confinato nella inaccessibile sfera del pensiero, non può essere conosciuto, ma, inteso in senso più lato, vuol anche significare che non è comunque lecito ai pubblici poteri pretendere di utilizzare la norma penale come strumento per condizionare e manipolare il pensiero, potendo essa intervenire solo sulle sue eventuali manifestazioni esterne, se ed in quanto, trasformandosi in “comportamenti”,  assumano carattere di pericolosità.

Ciò segna la differenza tra gli ordinamenti di tipo statuale e quelli di tipo religioso, con particolare riguardo a quello nel quale trovano collocazione i precetti della morale cattolica e possono quindi configurarsi anche i “peccati di pensiero”, con la conseguente necessità di “educare” i fedeli ad evitarli. Differenza, quella anzidetta, che si spiega facilmente considerando che finalità degli ordinamenti di tipo statuale è soltanto quella di garantire una ordinata, pacifica e proficua convivenza sociale, che nessun recondito pensiero può, quindi, mettere oggettivamente in pericolo.

I precetti della morale cattolica sono invece finalizzati, in primo luogo a salvaguardare quello che ancora adesso viene definito, nel Catechismo, come il “bene supremo”, costituito dalla “salvezza delle anime”. E questa può essere messa in pericolo anche dai “peccati di pensiero”, conoscibili, come tali, solo da Dio e consistenti nella volontaria coltivazione di desideri moralmente riprovevoli che solo per condizionamenti esterni non vengono alla luce e non si traducono in azioni malvage.

6.  Volendo quindi trarre, a questo punto, una conclusione da quanto finora osservato sembra potersi dire una cosa molto semplice, e cioè che la pretesa di attribuire ad una legge statale, sol perché sostenuta dalla sinistra, una funzione “educativa”, nel senso voluto dal sostenitori del Ddl Zan, altro non rappresenti se non la conferma di un antico sospetto; quello, cioè, che la sinistra non aspiri semplicemente a governare come un normale partito politico, accettando perciò come naturale la diversità delle opinioni sulle scelte da essa compiute e la possibilità che queste ultime siano soggette a revisione quando il potere passi ad un altro partito, ma tenda piuttosto ad accreditare sé stessa  come giudice supremo del bene e del male, in quanto legittima rappresentante  del Padreterno sulla terra.

Pietro Dubolino – Presidente emerito di sezione della Corte di Cassazione

Fonte: Centro Studi Livatino

 

CINQUE “NO” AL DDL ZAN

 Il comunicato dell’associazione “Esserci” a proposito delle legge sulla omotransfobia. Cinque motivi per contrastarla

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art. 21 Costituzione italiana).

L’aspetto più problematico del ddl Zan è che il pensiero unico prodotto dal “politicamente corretto” vorrebbe limitare ogni dibattito. Chiunque esprima un parere diverso da quello dei promotori della legge viene immediatamente tacciato di “omofobia” e le sue ragioni sminuite o escluse dal dibattito pubblico

Noi diciamo NO alla proposta del ddl Zan perché:

1) Mette in discussione in modo pericoloso l’espressione della LIBERTA’ di pensiero garantita dall’articolo 21 della Costituzione. La Conferenza Episcopale Italiana, con dichiarazione del 10 giugni 2020, ha definito “LIBERTICIDA” la proposta di legge.

2) La proposta entra a piedi uniti nel campo della “SCIENZA”, definendo per legge (che è imperativa per tutti) cosa siano il sesso, il genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere (articolo 1). Anche qui ogni dibattito sarebbe chiuso in partenza.

3) Il ddl si intromette in modo inaccettabile (nonché antidemocratico e anticostituzionale; articolo 30 Cost.) nel campo dell’EDUCAZIONE e della SCUOLA, rendendo obbligatorio l’insegnamento, dalle materne alle superiori incluse le paritarie, della cultura “gender”, anche contro il parere dei genitori degli alunni. Non vogliamo che lo Stato pretenda il monopolio dell’educazione dei nostri figli e dei nostri nipoti. Vogliamo invece che rispetti la libertà di educazione delle famiglie.

4) Ci associamo a quanti affermano che il ddl Zan ha unicamente uno scopo ideologico: imporre a tutti per legge una precisa visione antropologica e sociale. Il vero obiettivo non è aggravare le pene per i reati commessi contro persone omosessuali, perché tali norme già ci sono.

5) Da ultimo, come hanno evidenziato illustri giuristi, il Disegno di legge introduce fattispecie di reato molto vaghe e indefinite, venendo meno al principio base della determinatezza del reato, senza garanzie per i cittadini e aprendo le strade a forme di arbitrio da parte dei magistrati, che, come tutti, possono essere influenzati da posizioni ideologiche e dall’opinione corrente su tematiche che esulano dall’ambito giuridico.

Siamo molto preoccupati che il giusto rispetto per le persone LGBT non favorisca lo stesso rispetto verso tutti gli altri, in particolare verso coloro che sono in dissenso con le opinioni sostenute dai promotori del ddl Zan.

Esserci 27 maggio 2021 

sabato 29 maggio 2021

MOSÈ E LO SHUTTLE

Luigi Giussani

Caro direttore,
osservando le immagini dello Shuttle che precipita si impone una domanda: con tutto quel che accade, è giusta la vita? Se non rispondessimo, tutto rimarrebbe nella disperazione, come se la tragedia dello Shuttle capitasse centomila volte in un giorno, lasciando centinaia di milioni di persone disperate.


Eppure nella sua ricerca di una risposta che affermi la libertà o la bontà o la giustizia, l’uomo incontra un limite, si scopre limitato per natura, così che tutto sembra senza fiato, e appare impossibile a chiunque compiere una sola azione di vita senza commettere ingiustizie o contraddizioni.
Siamo tutti come Mosè, cha aveva accompagnato per centinaia di chilometri i suoi; arrivato al confine di quello che sarebbe diventato poi lo Stato di Israele, dall’alto del monte guarda da lontano la Terra Santa senza poterla toccare, poiché Dio gli aveva detto: «Per punizione del tuo timore, del tuo non avermi reso giustizia, tu morirai prima di giungere nella Terra promessa». Infatti sarà Giosuè a fare entrare le truppe per la conquista. Ecco, noi stessi ogni ora siamo come sul limitare di una terra tanto desiderata quanto irraggiungibile. E per questo la domanda sulla riuscita della vita domina le giornate di chiunque abbia respiro umano.

Ora, c’è un’unica spiegazione cha dà ragione di tutto ciò che è accaduto: la croce di Cristo; la Sua morte è la risposta di Dio ai nostri limiti e alle nostre ingiustizie. Ci sarebbe un orizzonte di mancanza di ragione in tutte le cose. Qualsiasi evento capiti non troverebbe mai risposta adeguata, se non ci fosse Cristo: Lui segna l’ultima vittoria di Dio sulla realtà umana; qualsiasi cosa accada, è la «misericordia» che legge tutto ciò che è umano. La misericordia: Dio compie la vittoria sul male dentro la storia come positività, è questo che dà la ragione a ciò che accade.

Ma l’uomo non riesce a capire questa spiegazione. L’unica possibile spiegazione perché il danno e il male non siano il segno ultimo della storia. Allora avviene una cosa impossibile, la più impossibile: l’uomo si fa giudice di Dio. Mi mette le vertigini pensare al futuro, a quel che l’uomo può fare se giudica ingiusto Dio per qualcosa che accade e che egli non riesce a comprendere. L’uomo non può. Dio può fare e può permettere quello che vuole (è il mistero di Dio, in cui l’uomo non può entrare se Dio non gli apre la porta) e l’uomo che giudicasse Dio – per pura presunzione - compirebbe il vero cataclisma. La tragedia di Gesù è questa!
Invece la morte e il destino di Cristo sono la resurrezione della vita: la vittoria sul male. Chi accetta questo fatto, partecipa della resurrezione della vita. Chi, non comprendendolo, non lo accetta, distrugge il mondo.

Ma dire che Cristo «ha vinto» è un’espressione strana per l’uomo e così giungiamo ad essa come ad un’uscita misteriosa, che rimane mistero fin quando il Padre lo vuole, finché il mistero di Dio non si riveli. E quando si rivelerà, sarà la fine, la fine del mondo. Per potere dire: «Ha vinto», l’uomo deve fare una scelta: la scelta che il bene trionfi sul male. La scelta del bene e non l’insistente sottolineatura del male. E questo è innegabile che sia giusto: a priori è giusto, non è una spiegazione che possiamo dare noi, ma qualcosa che riconosciamo.
Proprio per questo la storia dell’America ci insegna una positività della vita che è di esempio a tutto il resto del mondo. E ci insegna anche che se manca il senso del tutto, questo fa diventare infinita la possibilità di ribellione e di massacro.

Dio, il Signore mi fa giungere alla certezza della fede: che l’amicizia di Dio con me, con l’uomo, non può essere messa in discussione da nulla (fin dall’inizio Dio è venuto in terra scegliendosi un popolo, una nazione prediletta per portare il mondo a un compimento che altrimenti non avrebbe mai avuto). Pensare che poco prima di morire Gesù abbia detto: «Amico!» a Giuda che lo tradiva, è una cosa dell’altro mondo. Dice il Salmo 117: «Lodate il Signore perché è buono, eterna è la Sua misericordia». E’ una cosa dell’altro mondo. Pensavo in questi giorni a Massimiliano Kolbe, che dice al capo tedesco: «Tu ne devi ammazzare dieci, io ne sostituisco uno che ha figli…». E il tedesco accetta l’offerta. Se Hitler fosse stato lì in quel momento, non avrebbe certo premiato quel capitano… il capitano tedesco aveva applicato un’idea di giustizia che non era quella di Hitler; accettando lo scambio, aveva espresso il sentimento naturale di un uomo che poteva avere figli come il condannato. La Chiesa ha fatto santo padre Kolbe perché ha reso giustizia a se stesso davanti a Dio. Come fu per la Madonna, che per me rimane il vertice di quell’evoluzione dell’io che si chiama santità.

Per cui di fronte a qualsiasi disastro o limite, un uomo può affermare con sicurezza che la vita è giusta perché va misteriosamente ma sicuramente verso il suo destino di positività.

 «Riflessione religiosa su una tragedia della modernità: Mosè e lo Shuttle»,  di Don Luigi Giussani, Corriere della Sera, 9 febbraio 2003

venerdì 21 maggio 2021

RINGRAZIO IL MIO VESCOVO CHE PARLA CRISTIANO

Lo ringrazio di vero cuore perché nei giorni scorsi ha pubblicato una lettera, indirizzata a tutti i fedeli della sua diocesi (quindi anche a me), in cui esprime un giudizio, basato sulla dottrina della chiesa cattolica, a proposito di alcune gravi e scottanti questioni della nostra vita sociale e politica: la proposta di legge Zan, il problema della denatalità e il mercato delle armi. In altri tempi, anche non troppo lontani, non ce ne sarebbe forse stato bisogno e/o sarebbe stato scontato che un vescovo lo facesse. 

Oggi non è più così.

Mons. Douglas Regattieri
Vescovo di Cesena-Sarsina

Tra le molte cose cristiane contenute nella lettera, che invito a leggere, qui: http://www.diocesicesenasarsina.it/wp-content/uploads/sites/2/2021/05/per-amore-del-mio-popolo.pdf, ce n'è una che mi ha particolarmente colpito. 

Richiamando i principi della dottrina cristiana sulla sessualità, mons. Regattieri cita, quasi per esteso, nel corpo della lettera, il paragrafo 2357 del Catechismo della Chiesa cattolica, che anch'io sulla sua scorta qui copiaincollo: «[Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni], la Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati”. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati».

 Capite? Non si è limitato a farvi un pudico cenno in nota, abbastanza criptico da non essere capito da nessuno se non da pochi addetti ai lavori. 

Lo ha ripetuto ad alta voce, così com'è (solo evitando di riportare la prima parte della frase, relativa alle «gravi depravazioni» di cui parla la Scrittura): lo ha ridetto papale papale (anzi no ... direi piuttosto “episcopale episcopale”).

Credo che purtroppo si debba riconoscere che questo è un atto di coraggio. Non dovrebbe esserlo, ma lo è. C'è da temere, infatti, che quel punto del catechismo – che pure non fa altro che ripetere ciò che la chiesa ha sempre ininterrottamente creduto e insegnato per due millenni, ritenendo di seguire l'insegnamento del suo Maestro – oggi una parte considerevole dell'episcopato e del clero, più o meno segretamente, lo aborra (ed è lecito il sospetto che in molti casi lo faccia pro domo sua), mentre è sicuro che un'altra parte ancor più ampia fa finta di ignorarlo e lo mette tra parentesi, come una cosa che sì, sarà anche vera, ma di cui è assolutamente inopportuno parlare. 

Vigente la legge Zan, come il mio vescovo sa bene, la semplice enunciazione pubblica di quella parte del catechismo gli costerebbe con un elevatissimo grado di probabilità, una denuncia penale, a cui seguirebbe immediatamente - per il necessario ossequio al feticcio della cosiddetta «obbligatorietà dell'azione penale» – l'apertura di un procedimento giudiziario. L'andamento e l'esito del quale dipenderebbero poi quasi totalmente dall'arbitrio dei magistrati a cui capitasse di occuparsene, ma coi tempi che corrono è sensato prevedere che si arriverebbe, sia pure con un minore grado di probabilità, al rinvio a giudizio. 

In giudizio poi, l'assoluzione sarebbe più probabile della condanna, ma dopo un lasso di tempo e un tale carico di fastidi e di “danni collaterali” che basterebbero a indurre qualunque “persona prudente” a non mettersi nei guai. I buoni argomenti non mancherebbero, ma di fatto si avrebbe una censura (un'autocensura) della parola di Dio. Un altro po' di lampada sotto il moggio.

Ma anche adesso, senza ancora la legge Zan (che Dio ce la risparmi, anche se non ce lo meritiamo), il mio vescovo ha compiuto un atto di coraggio, ripetendo pubblicamente quelle parole, perché ciò basta a qualificarlo, agli occhi di molti, come un “nemico”. Né vale, a scagionarlo, che subito prima egli abbi doverosamente ricordato il fermo rifiuto della chiesa nei riguardi di ogni discriminazione personale. Per questo coraggio, dunque, gli sono molto grato.

Di aver paura, infatti, ciascuno di noi è capace da solo. Non mi serve il vescovo. Per aver coraggio, invece, noi pecore abbiamo bisogno di pastori che “diano la vita” per il gregge. Capisco che per loro sia dura. Ma è l'ora delle tenebre. Sono tempi da lupi.

LEONARDO LUGARESI

 

mercoledì 19 maggio 2021

BANDIERE AMMAINATE

 Luca Ricolfi

«Sono culturalmente di sinistra ma riconosco che la libertà di pensiero oggi è migrata da sinistra a destra».

Ora che abbiamo due possibili leggi sulla “omotransfobia” (che parola orribile!), ovvero la legge Zan, già approvata alla Camera, e la legge Ronzulli, presentata pochi giorni fa, possiamo star certi che se ne parlerà per un po’. Su entrambe ho maturato qualche idea, ma non è di questo che voglio parlare qui, se non altro perché l’argomento ha aspetti tecnico-giuridici che non si lasciano affrontare nello spazio di un articolo di giornale. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione, invece, è lo sfondo sociologico e culturale su cui questo dibattitto prende forma. Perché lo sfondo è importante, e inevitabilmente influenza il modo in cui le leggi sono interpretate e applicate.

Ebbene, qual è lo sfondo?

con la scusa del ddl Zan,
vogliono farci omologare tutti a un unico tipo di pensiero

Se la questione me l’avessero posta 20 anni fa, avrei risposto soltanto: lo sfondo è il politicamente corretto, ovvero la pretesa di una parte politica (per inciso: quella cui, con crescente imbarazzo, mi sono sempre sentito più vicino) di avere il monopolio del bene. I diritti di gay, lesbiche, transessuali, “diversi” in genere, sono sempre stati a cuore più alla sinistra che alla destra, e anche su questo – oltreché sulla difesa intransigente degli immigrati – il mondo progressista ha costruito l’intima convinzione di essere dalla parte del bene o, peggio, di rappresentare “la parte migliore del paese”. Visto da sinistra, il conflitto politico non è fra due diverse idee del bene, ma fra i paladini del bene e quelli del male (fascisti, razzisti, odiatori delle minoranze oppresse). Io stesso, quando scrissi Perché siamo antipatici? (era il 2004), vedevo nel “complesso dei migliori” il principale disturbo della cultura di sinistra.

Ma oggi?

Oggi non è più così. O meglio non è solo così. Non tanto perché, dopo la (purtroppo breve) parentesi di Veltroni, unico leader progressista che abbia almeno provato a trattare la destra come avversario e non come nemico, il complesso dei migliori si è aggravato, ma perché sul complesso dei migliori si è innestata una nuova patologia: la costruzione sistematica, talora al limite del ridicolo, di categorie di persone definite fragili, e come tali bisognose di tutela. Il fenomeno è nato negli Stati Uniti, si è diffuso nei paesi europei eccessivamente civilizzati (sto usando l’ironia, per chi non sapesse riconoscerla), ed ora sta sbarcando anche in Italia. L’aspetto interessante di questo fenomeno è che mescola e confonde fragilità incontrovertibili (ad esempio i disabili, o comunque vogliate chiamarli), fragilità connesse a pregiudizi (ad esempio gli omosessuali), fragilità per così dire naturali (ad esempio gli introversi) e infine fragilità indotte dalla deriva vittimistica in atto nella maggior parte dei paesi occidentali.

Lo zenit di tale deriva è la pretesa dei singoli (ad esempio gli studenti di un campus) di essere chiamati con articoli e desinenze appropriate (he, she, ze) e, ancora più demenziale, l’obbligo per i professori di avvertire i loro studenti che potrebbero essere turbati da opinioni contrarie alla propria, o da passi scabrosi, offensivi, o politicamente scorretti di opere classiche: la Divina Commedia, il libro Cuore, Biancaneve, la mitologia greca, eccetera. Come se la suscettibilità individuale, la paura del diverso, la pretesa di non incontrare mai – nemmeno in un film, o in un racconto, o in una poesia – cose che urtano la nostra sensibilità, fossero caratteristiche ascritte e immodificabili, e non limiti soggettivi che individui maturi dovrebbero imparare a superare (….)

Ne ha parlato più volte Federico Rampini, che ha definito la società americana “una collezione di minoranze suscettibili”. Ma ben prima avevano iniziato a discuterne gli psicologi americani, preoccupati della tendenza dei genitori a iper-proteggere i figli, scusandone ogni manchevolezza e alimentandone ogni insicurezza. E’ del 2004, ad esempio, il saggio di Hara Estroff Marano A Nation of Wimps, che assiste allibita e preoccupata alla costruzione di una generazione di “schiappe”. E, più recentemente, è di un’altra psicologa americana, Jean Twenge, la più accurata radiografia della distruzione di ogni autonomia e fiducia in sé stessi della i-generation, la generazione degli iper-connessi. Processi di cui, finalmente, si comincia a parlare  anche in Italia, grazie a libri come quello di Walter Siti (Contro l’impegno, Rizzoli), che descrive minuziosamente la degenerazione della letteratura in pedagogia politica, o come quello di Guia Soncini (L’era della suscettibilità, Marsilio),  un capolavoro di intelligenza e ironia che mette a nudo la follia dei nuovi censori del pensiero e guardiani del linguaggio.

Ed eccoci al punto, il clima in cui le leggi Zan e Ronzulli si contendono il campo. Qualsiasi cosa si pensi dei pregi e difetti delle due leggi, è difficile non riconoscere che nell’arduo (in realtà: impossibile) compito di tutelare alcune minoranze e al tempo stesso preservare pienamente la libertà di espressione, il pendolo della legge Zan pende dal lato della tutela delle minoranze, quello della legge Ronzulli dal lato della libertà di espressione.

E’ un male?

No, è solo sorprendente. Sono stato abituato a pensare che la censura fosse “una cosa di destra”, e che la difesa delle libertà di opinione, di pensiero e di espressione fossero ben incise nelle tavole dei valori del mondo progressista. Così come ero abituato a pensare che la lotta contro le diseguaglianze fosse il primo imperativo della sinistra.

Mi ritrovo invece a constatare che, contro la più grande frattura sociale dell’Italia post-Covid, quella fra il mondo dei garantiti (a reddito fisso) e quello dei non garantiti (esposti ai rischi del mercato), oggi è la destra – con la risoluta difesa dei lavoratori autonomi e dei loro dipendenti – ad agitare la bandiera della lotta alle diseguaglianze.

E che, di fronte alle problematiche della “omotransfobia”, è innanzitutto la destra a farsi carico della difesa della libertà di espressione, mentre la sinistra semplicemente si rifiuta di vedere un problema che l’onda del politicamente corretto e “l’era della suscettibilità” rendono drammaticamente attuale.

tratto da Fondazione Hume

martedì 18 maggio 2021

CARDINALE PELL: MEMORIE DALLA PRIGIONIA

E'disponibile  la versione italiana del libro del cardinale George Pell Prison Journal (vol. 1). La pubblica la casa editrice Cantagalli con il titolo Diario di prigionia (vol. 1). Per gentile concessione dell’editore, ecco l’introduzione del professor George Weigel. George Weigel è Distinguished Senior Fellow presso l’Ethics and Public Policy Center di Washington, dove è titolare della Cattedra William E. Simon di Studi cattolici

***

di George Weigel


Questo diario di prigionia non avrebbe mai dovuto vedere la luce.

Il fatto che sia stato scritto testimonia la capacità della grazia di Dio di ispirare discernimento, magnanimità e bontà in mezzo a situazioni in cui regnano male, cattiveria e ingiustizia. Che poi sia stato scritto con tanta eleganza è indice dell’impronta cristiana che la grazia di Dio ha impresso nel suo Autore, il Cardinale George Pell. Come e perché egli si sia ritrovato in prigione, e per più di tredici mesi, per dei crimini che non ha commesso e, anzi, che non poteva nemmeno commettere, è un’altra storia, e molto meno edificante. Tuttavia, un breve resoconto di questa ignobile vicenda fornirà il contesto necessario per quanto il lettore si accinge a leggere, o quantomeno aiuterà a comprendere quanto straordinario sia questo diario.

Il 7 aprile 2020, l’Alta Corte d’Australia si è espressa con decisione unanime per annullare un verdetto di colpevolezza, per emetterne uno di completa assoluzione nel caso Pell contro la Regina. Tale decisione ha ribaltato sia l’incomprensibile condanna del Cardinale per l’accusa di abuso sessuale “storico”, sia la decisione altrettanto sconcertante di confermare quello scandaloso verdetto da parte di due dei tre membri di una corte d’appello del Victoria, nell’agosto 2019. La sentenza dell’Alta Corte ha liberato un innocente dall’ingiusta detenzione alla quale era stato sottoposto, lo ha restituito alla sua famiglia e ai suoi amici, e gli ha permesso di riprendere in mano il suo importante lavoro nella e per la Chiesa cattolica.

Gli esperti sanno bene che il caso Pell contro la Regina non avrebbe mai dovuto essere portato in tribunale. L’indagine degli inquirenti che ha condotto a formulare le accuse a carico del Cardinale si è rivelata una squallida caccia alle streghe. Il magistrato all’udienza di rinvio (l’equivalente di un procedimento davanti a un Grand Jury) aveva subito forti pressioni perché portasse in giudizio una batteria di accuse che sapeva essere estremamente fragili. Una volta in tribunale, i procuratori della Corona non sono riusciti a dimostrare in alcun modo che il presunto crimine fosse mai stato commesso, potendo fondare le loro argomentazioni soltanto sulla testimonianza dell’accusatore; testimonianza che, con il passare del tempo, si è rivelata inconsistente e si è dimostrata profondamente lacunosa. Non c’era alcuna evidenza scientifica né tantomeno dei testimoni che sostenessero tali accuse.

Anzi, quanti erano personalmente coinvolti ed erano presenti nella Cattedrale di Melbourne all’epoca dei presunti reati, due decenni fa, hanno continuato a ribadire sotto giuramento e durante il controinterrogatorio che era impossibile che gli eventi si fossero svolti come sosteneva l’accusatore: l’arco temporale proposto dall’accusa per il presunto abuso, e la descrizione stessa dell’organizzazione della sagrestia della Cattedrale (dove sarebbero stati commessi i presunti reati) da parte dell’accusatore erano completamente privi di logica. L’accusa non è mai riuscita a scalfire la massiccia testimonianza a favore del Cardinale. Anzi, la totale impossibilità che ciò che era stato dichiarato si fosse realmente verificato fu poi confermata da osservatori e commentatori obiettivi, compresi coloro che in un primo momento non avevano perorato la causa del Cardinale Pell (compreso chi ne era stato un suo critico severo).

Il caso Pell contro la Regina, inoltre, è stato portato avanti con modalità che hanno sollevato forti dubbi circa il rispetto da parte delle autorità del Victoria dei princìpi elementari del diritto penale anglofono, quali per esempio la presunzione di innocenza e il dovere da parte dello Stato di dimostrare la colpevolezza dell’imputato “oltre ogni ragionevole dubbio”. A questo proposito, Mark Weinberg, il giudice che ha dichiarato di non condividere la sentenza d’appello dell’agosto 2019, ha messo in luce un punto giurisprudenziale cruciale nell’analizzare la motivazione dei propri colleghi a sostegno della condanna del Cardinale Pell: facendo della credibilità dell’accusatore il nodo cruciale della questione, sia il procuratore sia i colleghi di Weinberg della Corte d’Appello avevano reso impossibile qualsiasi difesa. In base a questo criterio di credibilità, non veniva richiesta alcuna prova che fosse stato effettivamente commesso un crimine, né alcuna conferma delle accuse; l’unico elemento cui veniva attribuita importanza era che l’accusatore apparisse sincero. Tuttavia, di fronte a secoli di consolidata tradizione giuridica, tale procedimento giudiziario non poteva in alcun modo essere ritenuto serio. Era l’affermazione di un sentimento, di sentimentalismo anche, che non poteva vantare alcuna rilevanza come fattore decisivo per condannare un uomo per un crimine tanto vile e per privarlo della propria reputazione e della libertà.

domenica 16 maggio 2021

I VERI ILLIBERALI CON LA SCUSA DELL’OMOFOBIA

 Ordinare il libro di Mantovano come atto di ragione e libertà per rispondere a una censura che ci vuole impedire di leggere, pensare, capire

L’editore Cantagalli ha denunciato che  il libro Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo, del giurista Alfredo Mantovano è stato vittima di un “grave disservizio” operata dalle librerie Feltrinelli che non lo vendono.

«Gli intellettuali sono molto più inclini al totalitarismo rispetto alla gente comune» scrisse Orwell in una lettera del 1944. Molti librai si considerano, per osmosi, degli intellettuali, e basta questo per renderli illiberali: pensano di dover guidare i propri clienti fino al punto di decidere cosa devono leggere e cosa no. Magari senza sapere nulla di Alfredo Mantovano.

Ma contro di lui parla il suo titolo: «Legge omofobia. Perché non va». E nel mondo della cultura italiana, che è un mondo di censure, autocensure e tabù, il ddl Zan deve andare dritto alla meta senza obiezione alcuna.

Se avete stomaco guardate l'ultima copertina dell'Espresso è un altro segnale. Se non ne avete abbastanza, scrive Camillo Langone sul Giornale, fatevela descrivere da me: “vi campeggia un uomo barbuto e incinto sul cui pancione è scritto «La diversità è ricchezza». Siamo in piena neolingua orwelliana. Siamo in pieno 1984 perché lo slogan dell'Espresso significa l'esatto contrario di ciò che dice: la diversità è interdetta, bisogna pensarla tutti allo stesso modo e guai a chi dissente.

Chi tocca il ddl Zan forse non muore ma di sicuro rischia. Verrebbe da dire che il ddl  Zan è già qui, che la censura è già partita prima ancora che ci sia una legge e che i campioni dell’inclusività, del rispetto e della tolleranza sanno fare molto bene il loro mestiere di Savonarola quando si tratta di silenziare chi non la pensa come loro.

Ma queste cose sono note, e le abbiamo viste mille volte. Ora che la sinistra ha deciso di accelerare suicosiddetti diritti perché afona su tutto il resto, lo vedete anche voi l’insistenza maniacale con cui parla di certe questioni.

Il mio pensiero, che fra l'altro non è mio ma della Bibbia e dunque di Dio, già ora è fuorilegge. Ribadire che «maschio e femmina li creò» già ora non è salutare. Così come scrivere un libro critico verso il ddl Zan ti esclude dalle grandi case editrici, dai grandi giornali, dal grande giro. La censura o boicottaggio o sabotaggio  ai danni del libro di Mantovano è solo un segnale, una piccola anticipazione del grande bavaglio che ci aspetta.

 Possiamo ancora dirlo che sono provocazioni e carognate di pessimo gusto o verremo tacciati anche noi di omofobia?

 

 

 

OBIETTIVO: TORNARE A NASCERE

 UN'ITALIA SENZA FIGLI È DESTINATA A SCOMPARIRE

Intervento del Presidente Draghi agli Stati Generali della Natalità

Venerdì, 14 Maggio 2021

…..Questa è epoca di grandi riflessioni collettive.

Perso l’ottimismo, spesso sconsiderato, dei primi dieci anni di questo secolo, è iniziato un periodo di riesame di ciò che siamo divenuti. E ci troviamo peggiori di ciò che pensavamo, ma più sinceri nel vedere le nostre fragilità, e più pronti ad ascoltare voci che prima erano marginali. Vediamo il danno che abbiamo fatto al pianeta, e vediamo il danno che abbiamo fatto a noi stessi.

La questione demografica, come quella climatica e quella delle diseguaglianze, è essenziale per la nostra esistenza. In realtà, voler avere dei figli, voler costruire una famiglia, sono da sempre desideri e decisioni fondamentali nelle nostre vite. Nel senso che le orientano e le disegnano in modo irreversibile.

Ma la loro essenzialità, cioè l’essenzialità di volere avere dei figli e di volere costruire una famiglia, la loro essenzialità, non era percepita. 

La dimensione etica che questi desideri e queste decisioni comportano è fondante per tutte le società dove la famiglia è importante – secondo molti, me incluso quindi per tutte le società.

Tuttavia, essa, questa dimensione etica, veniva spesso negata o respinta.

Per molti anni si è pensato infatti che il desiderare o meno dei figli dipendesse dall’accettare con coraggio e umanità questa dimensione etica. O invece respingerla, negarla in favore dell’affermazione individuale. Ciò ha avuto conseguenze sociali divisive.

L’individualismo non e’ una vittoria

Si è guardato alle donne che decidevano di avere figli come un fallimento, e all’individualismo come una vittoria.

Oggi, con il superamento di importanti barriere ideologiche, abbiamo capito che questa era una falsa distinzione che tra l’altro non trova riscontro nei dati, come è stato appena detto dal Presidente De Palo, e mostra uno studio recente del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione: le coppie vorrebbero avere più figli di quelli che effettivamente hanno.

In Italia, questa differenza è molto ampia. E’ stato detto che le coppie italiane vorrebbero avere in media due figli, ma in realtà ne hanno 1,24.

Inoltre, se riflettiamo bene, la consapevolezza dell’importanza di avere figli è un prodotto del miglioramento della condizione della donna, e non antitetico alla sua emancipazione.

Lo Stato deve dunque accompagnare questa nuova consapevolezza. Continuare ad investire nel miglioramento delle condizioni femminili. E mettere la società – donne e uomini – in grado di avere figli.

UN LAVORO CERTO, UNA CASA E UN SISTEMA DI WELFARE E SERVIZI PER L’INFANZIA.

Le ragioni per la scarsa natalità sono in parte economiche. Esiste infatti una relazione diretta tra il numero delle nascite e la crescita economica. Tuttavia, anche nelle società che crescono più della nostra, la natalità è in calo.

Questo indica come il problema sia più profondo ed abbia a che fare con la mancanza di sicurezza e stabilità.

Per decidere di avere figli, ho detto spesso che i giovani hanno bisogno di tre cose: di un lavoro certo, una casa e un sistema di welfare e servizi per l’infanzia.

In Italia, purtroppo, siamo indietro su tutti questi fronti.

I giovani fanno fatica, molta fatica a trovare lavoro. Quando ci riescono, devono spesso rassegnarsi alla precarietà, quindi non c’è sicurezza. Sono pochi e sempre meno quelli che riescono ad acquistare una casa.

La spesa sociale per le famiglie è molto più bassa che in altri Paesi come la Francia per esempio e il Regno Unito.

Già prima della crisi sanitaria, l’Italia soffriva di un preoccupante e perdurante declino di natalità. Nell’anno della pandemia questo si è ulteriormente accentuato.

Nel 2020 sono nati solo 404.000 bambini. È il numero più basso dall’Unità d’Italia e quasi il 30 per cento in meno rispetto a dieci anni fa.

Sempre nel 2020, la differenza tra nascite e morti ha toccato un record negativo: 340.000 persone in meno. Oggi metà degli italiani ha almeno 47 anni - l’età mediana più alta d’Europa.

Un’Italia senza figli è un’Italia che non ha posto per il futuro è un Italia che lentamente finisce di esistere.

Quindi per il Governo questo è un impegno prioritario. Il Governo si sta impegnando come sapete su molti fronti per aiutare le coppie e le giovani donne.

Al sostegno economico diretto delle famiglie con figli è dedicato l’assegno unico universale…. Una svolta epocale, destinata a permanere.

… Nel mio discorso in Parlamento ho elencato le misure a favore di giovani, donne e famiglie, presenti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Queste includono la realizzazione di asili nido, scuole per l’infanzia, l’estensione del tempo pieno e il potenziamento delle infrastrutture scolastiche. Un investimento importante nelle politiche attive del lavoro, nelle competenze scientifiche e nell’apprendistato.

Nel complesso, queste misure ammontano a venti miliardi circa.

… Ho detto all’inizio che siamo diventati più sinceri nelle nostre consapevolezze. Ma, mentre usciamo da questa fase di importante riflessione, è importante che ci siano decisioni.

Dobbiamo aiutare i giovani a recuperare fiducia e determinazione. A tornare a credere nel loro futuro, investendo in loro il nostro presente.