Gli effetti della legge non si manifesteranno solo nei tribunali. La norma penale diventa strumento per condizionare e manipolare il pensiero
La reclusione può essere strumento
“pedagogico” per sanzionare chi non si allinea con la “cultura
dell’indifferenza sessuale”? Considerazioni di Pietro Dubolino, presidente emerito di sezione della Corte di Cassazione, a margine
dell’articolo del prof. Giuseppe Savagnone, comparso su Giustizia insieme: il
quale difende il filo conduttore delle nuove disposizioni, pur al prezzo di
negare l’antico brocardo “Cogitationis poenam nemo patitur”.
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1. Nell’ambito dell’ormai strabocchevole pubblicistica che, dalle opposte trincee, ha per oggetto il Ddl Zan sulla “omotransfobia”, mette conto segnalare l’articolo comparso il 25 maggio scorso sulla rivista giuridica Giustizia insieme a firma di Giuseppe Savagnone, professore emerito di storia e filosofia nei licei statali e direttore, per molti anni, dell’ufficio per la pastorale della cultura della diocesi di Palermo.
Articolo, quello
anzidetto, che, pur provenendo da una sponda dichiaratamente di sinistra, e
quindi comunque favorevole al disegno di legge in questione, vuole tuttavia
caratterizzarsi per un approccio apparentemente moderato e conciliativo,
manifestato in particolare nel richiamo, in termini di apprezzamento, se non anche di condivisione, alla presa di
posizione di alcune associazioni femministe contrarie al concetto di “identità
di genere”, accomunato, nel testo approvato dalla Camera ed attualmente in
discussione al Senato, a quelli di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” e
definito come “l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al
genere, anche se non corrispondente al sesso”. Si tratta, però, di un’unica
concessione che, guarda caso, viene rivolta ad un mondo, quello appunto delle
associazioni femministe, tradizionalmente vicinissimo alla sinistra e delle cui
opinioni, quindi, sarebbe assai sconsigliabile non tenere conto.
2. Quanto al resto, il
sostegno al Ddl Zan, nella sua attuale formulazione risulta, pur
nell’apprezzabile pacatezza del linguaggio, assoluto e granitico. Il che non lo
renderebbe particolarmente interessante se non fosse per il fatto che l’Autore, per un verso, minimizza quello
che dovrebbe essere il contenuto meramente precettivo della norma in
gestazione, affermando che essa prevederebbe “soltanto l’estensione ai comportamenti violenti ‘fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale,
sull’identità di genere o sulla disabilità’ [del]le aggravanti che già il
nostro ordinamento prevede per quelli che riguardano i reati commessi per
finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o
religioso”; per altro
verso riconosce espressamente che il Ddl Zan, in realtà, vuole avere un “carattere simbolico e
pedagogico” e, pertanto, “non si limita a difendere i diritti
delle persone omosessuali” ma, proprio per tale suo carattere, “pone le basi per una educazione capillare alla cultura
dell’indifferenza sessuale”,
per cui “si può facilmente prevedere che i suoi effetti non si
manifesteranno [solo – N.d.R.] nelle aule dei tribunali, ma in tutte le sedi in
cui si realizza un’opera educativa”.
3. Ora, con
riguardo alla prima di tali affermazioni, può anzitutto osservarsi che, a parte
l’implicito “assist” che essa offre al disegno di legge del centro destra,
anch’esso incentrato sulla previsione di un semplice aggravamento delle
pene per tutti i reati (e non solo per quelli caratterizzati da violenza) se
commessi per motivi legati agli orientamenti sessuali delle vittime, non può neppure dirsi vero che il Ddl Zan
si limiti solo ad estendere la sfera di operatività della già esistente
circostanza aggravante prevista per i reati “commessi per finalità di discriminazione o di
odio etnico, nazionale, razziale o religioso” a quelli commessi per motivi
“fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di
genere o sulla disabilità”.
Il Ddl in questione, infatti, interviene non soltanto
sull’attuale art. 604 ter del codice penale, che in effetti contiene la
suddetta aggravante, ma anche sull’art. 604 bis, il quale
prevede come autonome fattispecie di reato quelle costituite dalla commissione
o dalla istigazione a commettere “atti di discriminazione”, la cui punibilità dovrebbe quindi essere estesa ai casi in cui
anch’essi essi siano motivati dalle stesse finalità da aggiungersi a quelle
previste per l’aggravante. E gli “atti di discriminazione”, per assumere rilievo penale, non debbono
essere necessariamente violenti (qualora lo siano il reato è punito più
severamente), per cui, nonostante la definizione che ne viene data dalla
Convenzione di New York del 7 marzo 1966, recepita in Italia con la legge n.
654/1975, resta assai
ampio il margine di discrezionalità nell’ambito del quale il giudice può
riconoscerne o negarne la sussistenza.
Di qui la legittimità del timore che le proposte
modifiche normative diano luogo a derive liberticide, da aggiungersi a
quelle che già possono facilmente prodursi sulla base della legge esistente, la
cui formulazione è tale da poterla frequentemente porre in potenziale rotta di collisione con il
principio della libertà di manifestazione del pensiero tutelato dall’art. 21
della Costituzione.
4. Ma quel che risulta più preoccupante, ed al tempo stesso
rivelatore del vero obiettivo del Ddl Zan è quel che si afferma, nell’articolo
in questione, a proposito, come si è sopra riportato, della finalità “educativa” che la nuova norma
dovrebbe avere, per favorire l’affermarsi di una “cultura dell’indifferenza
sessuale”, non solo
“nelle aule dei tribunali, ma in tutte le sedi in cui si realizza un’opera
educativa”. Risulta così confessata (con una buona dose, se vogliamo, di ingenuità)
proprio quella finalità recondita che i più callidi e accorti sostenitori della
nuova legge cercano invano di negare, per far leva soltanto sull’argomento di
più facile presa consistente nella asserita recrudescenza di atti di
aggressione ai danni di soggetti omosessuali o transessuali (peraltro del tutto
indimostrata ed, anzi, platealmente smentita da incontestate risultanze
statistiche provenienti da organismi ufficiali quali, in particolare, l’Oscad).
In realtà una norma di legge, specie quando si
tratti di una norma penale, dovrebbe occuparsi soltanto di comportamenti
materiali da vietarsi o da imporsi, a seconda dei casi, sotto comminatoria
di adeguata punizione in caso di inosservanza. L’unico legittimo effetto “educativo” di una tale norma
dovrebbe essere, quindi, quello consistente nella dissuasione del maggior numero possibile
di consociati, mediante la minaccia della sanzione, dalla eventuale
tentazione di contravvenire a tutti e soli quei divieti od obblighi che nella
stessa norma trovino specifica previsione.
E ciò tanto più vale in quanto, come si verifica nel caso della norma che
si vuole introdurre con il Ddl Zan, essa non sia espressione di valori universalmente
condivisi ma sia piuttosto il frutto di scelte proprie di una
parte politica che, se ed in quanto maggioranza, può anche avere il diritto di
imporle alla minoranza, ma non ha certamente quello di ergersi a maestra di
pensiero nei confronti di quanti a quelle scelte siano stati e continuino ad
essere legittimamente contrari e
magari, una volta diventati maggioranza, intendano revocarle.
5. Può essere il caso, a
questo proposito, di ricordare l’antico e saggio brocardo secondo cui “Cogitationis poenam nemo patitur”. Esso infatti non
soltanto esprime l’ovvia impossibilità di sanzionare penalmente ciò che,
rimanendo confinato nella inaccessibile sfera del pensiero, non può essere
conosciuto, ma, inteso in senso più lato, vuol anche significare che non è comunque
lecito ai pubblici poteri pretendere di utilizzare la norma penale come
strumento per condizionare e manipolare il pensiero, potendo
essa intervenire solo sulle sue eventuali manifestazioni esterne, se ed in quanto, trasformandosi in
“comportamenti”, assumano carattere di pericolosità.
Ciò segna la differenza tra gli
ordinamenti di tipo statuale e quelli di tipo religioso, con particolare
riguardo a quello nel quale trovano collocazione i precetti della morale
cattolica e possono quindi configurarsi anche i “peccati di pensiero”, con la
conseguente necessità di “educare” i fedeli ad evitarli. Differenza, quella
anzidetta, che si spiega facilmente considerando che finalità degli ordinamenti
di tipo statuale è soltanto quella di garantire una ordinata, pacifica e
proficua convivenza sociale, che nessun recondito pensiero può, quindi, mettere
oggettivamente in pericolo.
I precetti della morale
cattolica sono invece finalizzati, in primo luogo a salvaguardare quello che
ancora adesso viene definito, nel Catechismo, come il “bene supremo”,
costituito dalla “salvezza
delle anime”. E questa può essere messa in pericolo anche dai “peccati di
pensiero”, conoscibili, come tali, solo da Dio e consistenti
nella volontaria coltivazione di desideri moralmente riprovevoli che solo per
condizionamenti esterni non vengono alla luce e non si traducono in azioni
malvage.
6. Volendo quindi
trarre, a questo punto, una conclusione da quanto finora osservato sembra
potersi dire una cosa molto semplice, e cioè che la pretesa di attribuire ad una legge
statale, sol perché sostenuta dalla sinistra, una funzione “educativa”,
nel senso voluto dal sostenitori del Ddl Zan, altro non rappresenti se non la
conferma di un antico sospetto; quello, cioè, che la sinistra non
aspiri semplicemente a governare come un normale partito politico, accettando
perciò come naturale la diversità delle opinioni sulle scelte da essa compiute
e la possibilità che queste ultime siano soggette a revisione quando il potere
passi ad un altro partito, ma tenda piuttosto ad accreditare sé
stessa come giudice supremo del bene e del male, in quanto legittima rappresentante del
Padreterno sulla terra.
Pietro Dubolino – Presidente
emerito di sezione della Corte di Cassazione
Fonte: Centro Studi Livatino