martedì 18 maggio 2021

CARDINALE PELL: MEMORIE DALLA PRIGIONIA

E'disponibile  la versione italiana del libro del cardinale George Pell Prison Journal (vol. 1). La pubblica la casa editrice Cantagalli con il titolo Diario di prigionia (vol. 1). Per gentile concessione dell’editore, ecco l’introduzione del professor George Weigel. George Weigel è Distinguished Senior Fellow presso l’Ethics and Public Policy Center di Washington, dove è titolare della Cattedra William E. Simon di Studi cattolici

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di George Weigel


Questo diario di prigionia non avrebbe mai dovuto vedere la luce.

Il fatto che sia stato scritto testimonia la capacità della grazia di Dio di ispirare discernimento, magnanimità e bontà in mezzo a situazioni in cui regnano male, cattiveria e ingiustizia. Che poi sia stato scritto con tanta eleganza è indice dell’impronta cristiana che la grazia di Dio ha impresso nel suo Autore, il Cardinale George Pell. Come e perché egli si sia ritrovato in prigione, e per più di tredici mesi, per dei crimini che non ha commesso e, anzi, che non poteva nemmeno commettere, è un’altra storia, e molto meno edificante. Tuttavia, un breve resoconto di questa ignobile vicenda fornirà il contesto necessario per quanto il lettore si accinge a leggere, o quantomeno aiuterà a comprendere quanto straordinario sia questo diario.

Il 7 aprile 2020, l’Alta Corte d’Australia si è espressa con decisione unanime per annullare un verdetto di colpevolezza, per emetterne uno di completa assoluzione nel caso Pell contro la Regina. Tale decisione ha ribaltato sia l’incomprensibile condanna del Cardinale per l’accusa di abuso sessuale “storico”, sia la decisione altrettanto sconcertante di confermare quello scandaloso verdetto da parte di due dei tre membri di una corte d’appello del Victoria, nell’agosto 2019. La sentenza dell’Alta Corte ha liberato un innocente dall’ingiusta detenzione alla quale era stato sottoposto, lo ha restituito alla sua famiglia e ai suoi amici, e gli ha permesso di riprendere in mano il suo importante lavoro nella e per la Chiesa cattolica.

Gli esperti sanno bene che il caso Pell contro la Regina non avrebbe mai dovuto essere portato in tribunale. L’indagine degli inquirenti che ha condotto a formulare le accuse a carico del Cardinale si è rivelata una squallida caccia alle streghe. Il magistrato all’udienza di rinvio (l’equivalente di un procedimento davanti a un Grand Jury) aveva subito forti pressioni perché portasse in giudizio una batteria di accuse che sapeva essere estremamente fragili. Una volta in tribunale, i procuratori della Corona non sono riusciti a dimostrare in alcun modo che il presunto crimine fosse mai stato commesso, potendo fondare le loro argomentazioni soltanto sulla testimonianza dell’accusatore; testimonianza che, con il passare del tempo, si è rivelata inconsistente e si è dimostrata profondamente lacunosa. Non c’era alcuna evidenza scientifica né tantomeno dei testimoni che sostenessero tali accuse.

Anzi, quanti erano personalmente coinvolti ed erano presenti nella Cattedrale di Melbourne all’epoca dei presunti reati, due decenni fa, hanno continuato a ribadire sotto giuramento e durante il controinterrogatorio che era impossibile che gli eventi si fossero svolti come sosteneva l’accusatore: l’arco temporale proposto dall’accusa per il presunto abuso, e la descrizione stessa dell’organizzazione della sagrestia della Cattedrale (dove sarebbero stati commessi i presunti reati) da parte dell’accusatore erano completamente privi di logica. L’accusa non è mai riuscita a scalfire la massiccia testimonianza a favore del Cardinale. Anzi, la totale impossibilità che ciò che era stato dichiarato si fosse realmente verificato fu poi confermata da osservatori e commentatori obiettivi, compresi coloro che in un primo momento non avevano perorato la causa del Cardinale Pell (compreso chi ne era stato un suo critico severo).

Il caso Pell contro la Regina, inoltre, è stato portato avanti con modalità che hanno sollevato forti dubbi circa il rispetto da parte delle autorità del Victoria dei princìpi elementari del diritto penale anglofono, quali per esempio la presunzione di innocenza e il dovere da parte dello Stato di dimostrare la colpevolezza dell’imputato “oltre ogni ragionevole dubbio”. A questo proposito, Mark Weinberg, il giudice che ha dichiarato di non condividere la sentenza d’appello dell’agosto 2019, ha messo in luce un punto giurisprudenziale cruciale nell’analizzare la motivazione dei propri colleghi a sostegno della condanna del Cardinale Pell: facendo della credibilità dell’accusatore il nodo cruciale della questione, sia il procuratore sia i colleghi di Weinberg della Corte d’Appello avevano reso impossibile qualsiasi difesa. In base a questo criterio di credibilità, non veniva richiesta alcuna prova che fosse stato effettivamente commesso un crimine, né alcuna conferma delle accuse; l’unico elemento cui veniva attribuita importanza era che l’accusatore apparisse sincero. Tuttavia, di fronte a secoli di consolidata tradizione giuridica, tale procedimento giudiziario non poteva in alcun modo essere ritenuto serio. Era l’affermazione di un sentimento, di sentimentalismo anche, che non poteva vantare alcuna rilevanza come fattore decisivo per condannare un uomo per un crimine tanto vile e per privarlo della propria reputazione e della libertà.

Quando la lunga relazione, di oltre duecento pagine, con la quale il giudice Weinberg aveva manifestato il proprio dissenso fu digerita dai giuristi e dai professionisti del diritto in Australia, e non appena la revoca del silenzio stampa post-appello, che era stato imposto sul processo Pell, ebbe rivelato la fragilità dei capi d’accusa, un’onda crescente di preoccupazione tra persone dotate di buon senso, convinte che era stata commessa una grave ingiustizia, iniziò a farsi sentire anche a grande distanza da Melbourne. Quella preoccupazione potrebbe essersi poi riflessa nella decisione dell’Alta Corte, il supremo organo giudiziario in Australia, di accettare un ulteriore ricorso (che non necessariamente sarebbe stato accolto).

Preoccupazioni analoghe potevano essere chiaramente percepite in aula nel corso del ruvido terzo grado condotto dal procuratore capo della Corona durante l’udienza d’appello del Cardinale presso l’Alta Corte, nel marzo 2020. Quei due giorni hanno chiaramente evidenziato, ancora una volta, che l’accusa non aveva una tesi che potesse soddisfare gli standard di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio; che la giuria del secondo processo (che si è tenuto a motivo di una “giuria sospesa”, che cioè non era stata in grado di concordare una decisione nel primo processo) aveva emesso un verdetto incerto e comunque insostenibile; e che i due giudici della Corte Suprema del Victoria che avevano confermato la condanna (uno dei quali non aveva alcuna esperienza in materia di diritto penale) avevano commesso gravi errori procedurali che il loro collega, il Giudice Weinberg, aveva messo in luce nel proprio dissenso.

La decisione dell’Alta Corte di assolvere il Cardinale Pell e di rilasciarlo, dunque, è stata giusta quanto auspicata. Resta ancora inevasa la domanda su come possa essere accaduto tutto questo a uno dei cittadini più illustri d’Australia.

La pubblica ostilità che circondava il Cardinale, soprattutto nel Victoria di cui è originario, era analoga alla velenosa atmosfera che si respirò attorno all’Affare Dreyfus, in Francia, alla fine del XIX secolo. Nel 1894, una politica senza scrupoli, antichi rancori, funzionari corrotti, una stampa assetata di sangue e un grave pregiudizio religioso cospirarono per condannare con l’accusa di tradimento un innocente ufficiale dell’esercito francese di origine ebraica, il capitano Alfred Dreyfus. Dreyfus fu congedato dall’esercito e condannato alla prigione nel terribile inferno dell’Isola del Diavolo, al largo della costa della Guyana Francese. La Melbourne Assessment Prison e la Her Majesty’s Prison di Barwon, le due strutture in cui George Pell è stato incarcerato, non sono certo l’Isola del Diavolo. Tuttavia, molti degli elementi che hanno condotto all’ingiusta condanna di Alfred Dreyfus potevano essere rintracciati anche nell’atmosfera pesante che si respirava nel Victoria durante la caccia alle streghe, in corso da diversi anni, contro il Cardinale Pell.

La polizia del Victoria, già sotto esame per incompetenza e corruzione, ha condotto un’indagine ridicola per cercare delle “prove” per reati che nessuno aveva denunciato; per giunta, secondo alcune testimonianze, approfittando della persecuzione di George Pell come di un utile diversivo per distogliere l’attenzione dai problemi che la riguardavano. Con poche onorevoli eccezioni, la stampa locale e nazionale, abbandonando ogni pretesa di integrità e correttezza giornalistica, invocavano la testa del Cardinale Pell. Qualcuno avrà pagato gli striscioni contro Pell, realizzati professionalmente, portati dalla folla che circondava il tribunale. E l’Australian Broadcasting Corporation – un’istituzione pubblica finanziata dai contribuenti – si è impegnata nella più selvaggia propaganda anticattolica, continuando a trasmettere un flusso ininterrotto di affermazioni diffamatorie sulla persona del Cardinale Pell (una delle quali fu mandata in onda durante la deliberazione dell’Alta Corte).

Illudersi che in circostanze così concitate avrebbe potuto ricevere l’incarico una giuria imparziale equivale ad avere una fervida fantasia, e probabilmente a immaginare l’impossibile. La legge del Victoria, inoltre, non consentiva che il Cardinale formulasse la richiesta di un processo senza giuria e con il solo giudice. Come, dunque, poteva essere ritenuto un sobrio procedimento legale quello che ha poi assunto i tratti distintivi di un lento omicidio politico perpetrato per via giudiziaria?

Non è difficile immaginare che fin dall’inizio fosse proprio questa l’intenzione di alcune persone che erano coinvolte nella persecuzione di George Pell.

Durante tutto il suo calvario, il Cardinale è stato un modello di pazienza e di vita sacerdotale, come testimonia questo diario. Innocente, egli era libero anche quando incarcerato. E ha saputo mettere a frutto tutto quel tempo – «un prolungato ritiro», come lo ha definito – rassicurando i suoi molti amici in tutto il mondo e intensificando una già vigorosa vita di preghiera, di studio e di scrittura. Ora che può di nuovo celebrare la Messa – cosa che gli era stata negata per più di quattrocento giorni – non ho dubbi che il Cardinale abbia incluso tra le sue intenzioni la conversione dei propri persecutori e il rinnovamento della giustizia nel Paese che ama.

 

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