E'disponibile la versione italiana del libro del cardinale George Pell Prison Journal (vol. 1). La pubblica la casa editrice Cantagalli con il titolo Diario di prigionia (vol. 1). Per gentile concessione dell’editore, ecco l’introduzione del professor George Weigel. George Weigel è Distinguished Senior Fellow presso l’Ethics and Public Policy Center di Washington, dove è titolare della Cattedra William E. Simon di Studi cattolici
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di George Weigel
Questo
diario di prigionia non avrebbe mai dovuto vedere la luce.
Il
fatto che sia stato scritto testimonia la capacità della grazia di Dio di
ispirare discernimento, magnanimità e bontà in mezzo a situazioni in cui
regnano male, cattiveria e ingiustizia. Che poi sia stato scritto con tanta
eleganza è indice dell’impronta cristiana che la grazia di Dio ha impresso nel
suo Autore, il Cardinale George Pell. Come e perché egli si sia ritrovato in
prigione, e per più di tredici mesi, per dei crimini che non ha commesso e,
anzi, che non poteva nemmeno commettere, è un’altra storia, e molto meno
edificante. Tuttavia, un breve resoconto di questa ignobile vicenda fornirà il
contesto necessario per quanto il lettore si accinge a leggere, o quantomeno
aiuterà a comprendere quanto straordinario sia questo diario.
Il
7 aprile 2020, l’Alta Corte d’Australia si è espressa con decisione unanime per
annullare un verdetto di colpevolezza, per emetterne uno di completa
assoluzione nel caso Pell contro la Regina. Tale decisione ha ribaltato sia
l’incomprensibile condanna del Cardinale per l’accusa di abuso sessuale
“storico”, sia la decisione altrettanto sconcertante di confermare quello
scandaloso verdetto da parte di due dei tre membri di una corte d’appello del
Victoria, nell’agosto 2019. La sentenza dell’Alta Corte ha liberato un
innocente dall’ingiusta detenzione alla quale era stato sottoposto, lo ha
restituito alla sua famiglia e ai suoi amici, e gli ha permesso di riprendere
in mano il suo importante lavoro nella e per la Chiesa cattolica.
Gli
esperti sanno bene che il caso Pell contro la Regina non avrebbe mai dovuto
essere portato in tribunale. L’indagine
degli inquirenti che ha condotto a formulare le accuse a carico del Cardinale
si è rivelata una squallida caccia alle streghe. Il magistrato all’udienza
di rinvio (l’equivalente di un procedimento davanti a un Grand Jury) aveva
subito forti pressioni perché portasse in giudizio una batteria di accuse che
sapeva essere estremamente fragili. Una volta in tribunale, i procuratori della
Corona non sono riusciti a dimostrare in alcun modo che il presunto crimine
fosse mai stato commesso, potendo fondare le loro argomentazioni soltanto sulla
testimonianza dell’accusatore; testimonianza che, con il passare del tempo, si
è rivelata inconsistente e si è dimostrata profondamente lacunosa. Non c’era
alcuna evidenza scientifica né tantomeno dei testimoni che sostenessero tali
accuse.
Anzi,
quanti erano personalmente coinvolti ed erano presenti nella Cattedrale di
Melbourne all’epoca dei presunti reati, due decenni fa, hanno continuato a
ribadire sotto giuramento e durante il controinterrogatorio che era impossibile
che gli eventi si fossero svolti come sosteneva l’accusatore: l’arco temporale
proposto dall’accusa per il presunto abuso, e la descrizione stessa
dell’organizzazione della sagrestia della Cattedrale (dove sarebbero stati
commessi i presunti reati) da parte dell’accusatore erano completamente privi
di logica. L’accusa non è mai riuscita a scalfire la massiccia testimonianza a
favore del Cardinale. Anzi, la totale impossibilità che ciò che era stato
dichiarato si fosse realmente verificato fu poi confermata da osservatori e
commentatori obiettivi, compresi coloro che in un primo momento non avevano
perorato la causa del Cardinale Pell (compreso chi ne era stato un suo critico
severo).
Il caso Pell contro la Regina, inoltre, è stato portato avanti con modalità che hanno sollevato forti dubbi circa il rispetto da parte delle autorità del Victoria dei princìpi elementari del diritto penale anglofono, quali per esempio la presunzione di innocenza e il dovere da parte dello Stato di dimostrare la colpevolezza dell’imputato “oltre ogni ragionevole dubbio”. A questo proposito, Mark Weinberg, il giudice che ha dichiarato di non condividere la sentenza d’appello dell’agosto 2019, ha messo in luce un punto giurisprudenziale cruciale nell’analizzare la motivazione dei propri colleghi a sostegno della condanna del Cardinale Pell: facendo della credibilità dell’accusatore il nodo cruciale della questione, sia il procuratore sia i colleghi di Weinberg della Corte d’Appello avevano reso impossibile qualsiasi difesa. In base a questo criterio di credibilità, non veniva richiesta alcuna prova che fosse stato effettivamente commesso un crimine, né alcuna conferma delle accuse; l’unico elemento cui veniva attribuita importanza era che l’accusatore apparisse sincero. Tuttavia, di fronte a secoli di consolidata tradizione giuridica, tale procedimento giudiziario non poteva in alcun modo essere ritenuto serio. Era l’affermazione di un sentimento, di sentimentalismo anche, che non poteva vantare alcuna rilevanza come fattore decisivo per condannare un uomo per un crimine tanto vile e per privarlo della propria reputazione e della libertà.
Quando
la lunga relazione, di oltre duecento pagine, con la quale il giudice Weinberg
aveva manifestato il proprio dissenso fu digerita dai giuristi e dai
professionisti del diritto in Australia, e non appena la revoca del silenzio
stampa post-appello, che era stato imposto sul processo Pell, ebbe rivelato la
fragilità dei capi d’accusa, un’onda crescente di preoccupazione tra persone
dotate di buon senso, convinte che era stata commessa una grave ingiustizia,
iniziò a farsi sentire anche a grande distanza da Melbourne. Quella
preoccupazione potrebbe essersi poi riflessa nella decisione dell’Alta Corte,
il supremo organo giudiziario in Australia, di accettare un ulteriore ricorso
(che non necessariamente sarebbe stato accolto).
Preoccupazioni
analoghe potevano essere chiaramente percepite in aula nel corso del ruvido
terzo grado condotto dal procuratore capo della Corona durante l’udienza
d’appello del Cardinale presso l’Alta Corte, nel marzo 2020. Quei due giorni
hanno chiaramente evidenziato, ancora una volta, che l’accusa non aveva una
tesi che potesse soddisfare gli standard di colpevolezza oltre ogni ragionevole
dubbio; che la giuria del secondo processo (che si è tenuto a motivo di una
“giuria sospesa”, che cioè non era stata in grado di concordare una decisione
nel primo processo) aveva emesso un verdetto incerto e comunque insostenibile;
e che i due giudici della Corte Suprema del Victoria che avevano confermato la
condanna (uno dei quali non aveva alcuna esperienza in materia di diritto
penale) avevano commesso gravi errori procedurali che il loro collega, il Giudice
Weinberg, aveva messo in luce nel proprio dissenso.
La
decisione dell’Alta Corte di assolvere il Cardinale Pell e di rilasciarlo,
dunque, è stata giusta quanto auspicata. Resta ancora inevasa la domanda su
come possa essere accaduto tutto questo a uno dei cittadini più illustri
d’Australia.
La
pubblica ostilità che circondava il Cardinale, soprattutto nel Victoria di cui
è originario, era analoga alla velenosa atmosfera che si respirò attorno
all’Affare Dreyfus, in Francia, alla fine del XIX secolo. Nel 1894, una
politica senza scrupoli, antichi rancori, funzionari corrotti, una stampa
assetata di sangue e un grave pregiudizio religioso cospirarono per condannare
con l’accusa di tradimento un innocente ufficiale dell’esercito francese di
origine ebraica, il capitano Alfred Dreyfus. Dreyfus fu congedato dall’esercito
e condannato alla prigione nel terribile inferno dell’Isola del Diavolo, al
largo della costa della Guyana Francese. La Melbourne Assessment Prison e la
Her Majesty’s Prison di Barwon, le due strutture in cui George Pell è stato
incarcerato, non sono certo l’Isola del Diavolo. Tuttavia, molti degli elementi
che hanno condotto all’ingiusta condanna di Alfred Dreyfus potevano essere
rintracciati anche nell’atmosfera pesante che si respirava nel Victoria durante
la caccia alle streghe, in corso da diversi anni, contro il Cardinale Pell.
La
polizia del Victoria, già sotto esame per incompetenza e corruzione, ha
condotto un’indagine ridicola per cercare delle “prove” per reati che nessuno
aveva denunciato; per giunta, secondo alcune testimonianze, approfittando della
persecuzione di George Pell come di un utile diversivo per distogliere
l’attenzione dai problemi che la riguardavano. Con poche onorevoli eccezioni, la stampa locale e nazionale, abbandonando
ogni pretesa di integrità e correttezza giornalistica, invocavano la testa del
Cardinale Pell. Qualcuno avrà pagato gli striscioni contro Pell, realizzati
professionalmente, portati dalla folla che circondava il tribunale. E
l’Australian Broadcasting Corporation – un’istituzione pubblica finanziata dai
contribuenti – si è impegnata nella più
selvaggia propaganda anticattolica, continuando a trasmettere un flusso
ininterrotto di affermazioni diffamatorie sulla persona del Cardinale Pell (una
delle quali fu mandata in onda durante la deliberazione dell’Alta Corte).
Illudersi
che in circostanze così concitate avrebbe potuto ricevere l’incarico una giuria
imparziale equivale ad avere una fervida fantasia, e probabilmente a immaginare
l’impossibile. La legge del Victoria, inoltre, non consentiva che il Cardinale
formulasse la richiesta di un processo senza giuria e con il solo giudice.
Come, dunque, poteva essere ritenuto un sobrio procedimento legale quello che
ha poi assunto i tratti distintivi di un lento omicidio politico perpetrato per
via giudiziaria?
Non
è difficile immaginare che fin dall’inizio fosse proprio questa l’intenzione di
alcune persone che erano coinvolte nella persecuzione di George Pell.
Durante
tutto il suo calvario, il Cardinale è stato un modello di pazienza e di vita
sacerdotale, come testimonia questo diario. Innocente, egli era libero anche
quando incarcerato. E ha saputo mettere a frutto tutto quel tempo – «un
prolungato ritiro», come lo ha definito – rassicurando i suoi molti amici in
tutto il mondo e intensificando una già vigorosa vita di preghiera, di studio e
di scrittura. Ora che può di nuovo celebrare la Messa – cosa che gli era stata
negata per più di quattrocento giorni – non ho dubbi che il Cardinale abbia
incluso tra le sue intenzioni la conversione dei propri persecutori e il
rinnovamento della giustizia nel Paese che ama.
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