«Sono culturalmente di sinistra ma riconosco che la libertà di pensiero oggi è migrata da sinistra a destra».
Ora che abbiamo due
possibili leggi sulla “omotransfobia” (che parola orribile!), ovvero la legge
Zan, già approvata alla Camera, e la legge Ronzulli, presentata pochi giorni
fa, possiamo star certi che se ne parlerà per un po’. Su entrambe ho maturato
qualche idea, ma non è di questo che voglio parlare qui, se non altro perché
l’argomento ha aspetti tecnico-giuridici che non si lasciano affrontare nello
spazio di un articolo di giornale. Quello su cui vorrei attirare l’attenzione,
invece, è lo sfondo sociologico e
culturale su cui questo dibattitto prende forma. Perché lo sfondo è
importante, e inevitabilmente influenza il modo in cui le leggi sono
interpretate e applicate.
Ebbene, qual è lo sfondo?con la scusa del ddl Zan,
vogliono farci omologare tutti a un unico tipo di pensiero
Se la questione me
l’avessero posta 20 anni fa, avrei risposto soltanto: lo sfondo è il politicamente
corretto, ovvero la pretesa di una parte politica (per inciso: quella cui, con
crescente imbarazzo, mi sono sempre sentito più vicino) di avere il monopolio
del bene. I diritti di gay, lesbiche, transessuali, “diversi” in
genere, sono sempre stati a cuore più alla sinistra che alla destra, e anche su
questo – oltreché sulla difesa intransigente degli immigrati – il mondo
progressista ha costruito l’intima convinzione di essere dalla parte del bene
o, peggio, di rappresentare “la parte migliore del paese”. Visto da sinistra,
il conflitto politico non è fra due diverse idee del bene, ma fra i paladini
del bene e quelli del male (fascisti, razzisti, odiatori delle minoranze
oppresse). Io stesso, quando scrissi Perché siamo antipatici? (era
il 2004), vedevo nel “complesso dei migliori” il principale disturbo della
cultura di sinistra.
Ma oggi?
Oggi non è più così. O
meglio non è solo così. Non tanto perché, dopo la (purtroppo breve) parentesi
di Veltroni, unico leader progressista che abbia almeno provato a trattare la
destra come avversario e non come nemico, il
complesso dei migliori si è aggravato, ma perché sul complesso dei migliori
si è innestata una nuova patologia:
la costruzione sistematica, talora al limite del ridicolo, di categorie di persone definite fragili, e
come tali bisognose di tutela. Il fenomeno è nato negli Stati Uniti, si è
diffuso nei paesi europei eccessivamente civilizzati (sto
usando l’ironia, per chi non sapesse riconoscerla), ed ora sta sbarcando anche
in Italia. L’aspetto interessante di questo fenomeno è che mescola e confonde fragilità incontrovertibili (ad esempio i
disabili, o comunque vogliate chiamarli), fragilità connesse a pregiudizi (ad
esempio gli omosessuali), fragilità per così dire naturali (ad esempio gli
introversi) e infine fragilità indotte dalla deriva vittimistica in atto nella
maggior parte dei paesi occidentali.
Lo zenit di tale
deriva è la pretesa dei singoli (ad esempio gli studenti di un campus) di
essere chiamati con articoli e desinenze appropriate (he, she, ze) e, ancora
più demenziale, l’obbligo per i professori di avvertire i loro studenti che
potrebbero essere turbati da opinioni contrarie alla propria, o da passi
scabrosi, offensivi, o politicamente scorretti di opere classiche: la Divina
Commedia, il libro Cuore, Biancaneve, la mitologia greca, eccetera. Come se la suscettibilità
individuale, la paura del diverso, la pretesa di non incontrare mai – nemmeno
in un film, o in un racconto, o in una poesia – cose che urtano la nostra
sensibilità, fossero caratteristiche ascritte e immodificabili, e non limiti
soggettivi che individui maturi dovrebbero imparare a superare (….)
Ne ha parlato più volte Federico Rampini, che ha definito la società americana “una collezione di
minoranze suscettibili”. Ma ben prima avevano iniziato a discuterne gli
psicologi americani, preoccupati della tendenza dei genitori a iper-proteggere
i figli, scusandone ogni manchevolezza e alimentandone ogni insicurezza. E’ del
2004, ad esempio, il saggio di Hara Estroff Marano A Nation of Wimps, che assiste allibita e preoccupata alla costruzione di una
generazione di “schiappe”. E, più recentemente, è di un’altra psicologa
americana, Jean Twenge, la più accurata
radiografia della distruzione di ogni autonomia e fiducia in sé stessi della i-generation, la generazione degli iper-connessi. Processi di cui,
finalmente, si comincia a parlare anche in Italia, grazie a libri come
quello di Walter Siti (Contro l’impegno, Rizzoli), che descrive minuziosamente la degenerazione
della letteratura in pedagogia politica, o come quello di Guia Soncini (L’era della
suscettibilità, Marsilio), un capolavoro di intelligenza e ironia che mette a
nudo la follia dei nuovi censori del pensiero e guardiani del linguaggio.
Ed eccoci al punto, il clima in cui le
leggi Zan e Ronzulli si contendono il campo. Qualsiasi cosa si pensi dei pregi
e difetti delle due leggi, è difficile non riconoscere che nell’arduo (in
realtà: impossibile) compito di tutelare alcune minoranze e al tempo stesso
preservare pienamente la libertà di espressione, il pendolo della legge Zan
pende dal lato della tutela delle minoranze, quello della legge Ronzulli dal
lato della libertà di espressione.
E’ un male?
No, è solo
sorprendente. Sono stato abituato a pensare che la censura fosse “una cosa di
destra”, e che la difesa delle libertà di opinione, di pensiero e di
espressione fossero ben incise nelle tavole dei valori del mondo progressista.
Così come ero abituato a pensare che la lotta contro le diseguaglianze fosse il
primo imperativo della sinistra.
Mi ritrovo invece a constatare che, contro la più
grande frattura sociale dell’Italia post-Covid, quella fra il mondo dei
garantiti (a reddito fisso) e quello dei non garantiti (esposti ai rischi del
mercato), oggi è la destra – con la risoluta difesa dei lavoratori autonomi e
dei loro dipendenti – ad agitare la bandiera della lotta alle diseguaglianze.
E che, di fronte alle problematiche della
“omotransfobia”, è innanzitutto la destra a farsi carico della difesa della
libertà di espressione, mentre la sinistra semplicemente si rifiuta di vedere
un problema che l’onda del politicamente corretto e “l’era della
suscettibilità” rendono drammaticamente attuale.
tratto da Fondazione Hume
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