È stata fatta giustizia. No, è stata una vendetta. Poi l’intervista alla moglie del commissario assassinato negli anni 70 da Lc. Un’altra prospettiva
Un po’ di
rassegna stampa. Ieri tutti i giornali italiani parlavano degli arresti in
Francia di 7 terroristi rossi. Oltre alle biografie dei sette, dei crimini
compiuti e delle condanne subite dai latitanti, i lettori potevano trovare sui
vari quotidiani tre diverse chiavi di lettura (più un imprevisto inaudito).
Giustizia è fatta
Gemma Calabresi al funerale del marito Luigi 1972 |
Così i grandi
giornali, dal Corriere a Repubblica alla Stampa.
E, con più vigore, i quotidiani di centrodestra, da Libero,
al Giornale, alla Verità.
È una vendetta
La seconda
chiave di lettura – con diverse sfumature – è più o meno riassumibile così: è
stata una vendetta. Sul Foglio è apparso un commento di
Adriano Sofri («li avete presi: e ora che ve ne fate?»), sul Riformista di
Piero Sansonetti («una pura e semplice operazione di propaganda») e Paolo
Persichetti («un processo senza fine e una punizione infinita non sono
giustizia»), sul Manifesto di Tommaso di Francesco («ci si
chiede infatti che cosa rappresenti realmente una giustizia che scatta ad
orologeria ma si rivela una giustizia senza tempo, infinita e politica»).
Verità e giustizia
La terza
chiave di lettura l’hanno fornita con tre diversi interventi Olga D’Antona
(vedova del giuslavorista Massimo, ucciso dalle Br nel ’99), il
ministro Marta Cartabia e Mario Calabresi, giornalista, figlio
del commissario Luigi, assassinato nel 1972 da
esponenti di Lotta continua.
La loro è
una posizione più articolata rispetto alle prime due. Ha scritto ad esempio
Olga D’antona sulla Stampa:
«Si può chiamare giustizia quella che fa
giustizia dopo mezzo secolo? In cinquant’anni capitano molte cose. Di quei
carnefici, delle persone che sono diventate dopo tanti anni vissuti da liberi
cittadini, sappiamo poco. Avranno formato famiglie, cresciuto figli, si saranno
costruiti una vita nuova. C’è sì soddisfazione per la fine di un’ingiustizia ma
allo stesso tempo mi domando: è ancora giustizia? Si può ancora pensare alla
finalità rieducativa della detenzione sancita dalla nostra Costituzione?».
Il ministro
Cartabia ha detto che «non ci può essere riconciliazione senza verità», ma ha
molto insistito sul fatto che ciò che ci deve animare «non è la sete di
vendetta, ma sete di chiarezza e di reale possibilità di riconciliazione».
Tra gli
arrestati c’è anche Giorgio Pietrostefani, condannato in quanto mandante
dell’assassinio del commissario Calabresi. Il figlio Mario ha così commentato:
«Un gesto di clemenza»Gemma e Mario Calabresi
Lo stesso
Calabresi in un’intervista al Corriere ha
raccontato il suo incontro con Bompressi a Parigi qualche anno fa, spiegando di
non provare «livore o rancore nei suoi confronti».
«Non mi aspetto alcun autodafé. Ma credo
che queste persone ci debbano qualcosa. Ci devono pezzi di verità. Sono uomini
e donne che hanno partecipato a delitti che hanno segnato la storia di questo
Paese. Ci mancano ancora dettagli, e soprattutto le loro voci per ricostruire
quei fatti così tragici. Penso che dovrebbero assumersi le loro
responsabilità».
E se lo facessero?
«Sarei il primo a chiedere un gesto di clemenza nei loro confronti. Credo che
oggi raggiungere una verità definitiva abbia molto più valore che tenere quelle
persone in galera per il resto della loro vita».
La parola inaudita:
perdono
L’imprevisto
è però venuto a galla grazie alle parole di Gemma Calabresi, moglie di Luigi,
che ha rilasciato un’intervista al figlio Mario.
Come si capisce, già ci troviamo di fronte a una caso eccezionale (il figlio,
ex direttore di Repubblica, che intervista la madre sull’assassinio
del padre). È tutto un po’ inusuale. È una circostanza intima eppure
universale, una perla rara, un articolo da conservare. L’intervista – è il
nostro consiglio – è da leggere e, come si dice in questi casi, “da
ritagliare”. Vi si usa una parola inaudita, spericolata e rara, quasi
“scandalosa” nella sua inattualità: perdono.
È però una
parola che riesce a tenere dentro tutto, senza dover dimenticare una parte: c’è
la storia del paese rivissuta dentro una storia familiare, la sua
rielaborazione e anche il suggerimento – potente e cristiano – dell’unica via
d’uscita che consenta di non soffocare nulla, di non censurare la verità e, al
tempo stesso, di ottenere vera giustizia.
Dice Gemma
Calabresi:
«Sarebbe il momento giusto per
restituire un po’ di verità. Sarebbe importante che a questo punto delle loro
vite (i colpevoli, ndr) trovassero finalmente un po’ di coraggio per darci quei
tasselli mancanti al puzzle. Io ho fatto il mio cammino e li ho perdonati e
sono in pace. Adesso sarebbe il loro turno».
Un cammino di fede
Non c’è
rancore, non c’è risentimento. È qui l’inaudito: solo un perdono vissuto e
sofferto è una possibilità di redenzione, in primis, per chi ha le mani sporche
di sangue.
«Mario: Dove comincia invece la
tua strada del perdono? Dico la tua perché, bisogna essere onesti, è un
percorso soprattutto tuo. Tu hai cercato di insegnarlo a me, a Paolo e a Luigi.
Diciamo che per noi però è stato più importante prendere da te l’idea che non
si dovesse crescere nell’odio e nel rancore più che fare il cammino del
perdono.
Gemma: Il mio è un cammino di fede e poi ti voglio raccontare una cosa:
un giorno un mio alunno mi ha detto “Maestra, ma perché quando le persone
muoiono diventano tutte brave?”.
Mario: Cioè son considerati tutti buoni.
Gemma: Esatto. Ho risposto: “è giusto così”, perché una persona ha fatto
cose negative ma anche tante cose positive, ricordiamolo per le cose positive,
per il buon esempio, per il suo affetto, per la capacità di amare gli altri,
ognuno ha un suo cammino. E così ho pensato anche di queste persone
responsabili della morte di Gigi. Posso io relegarle tutta la vita all’atto più
brutto che probabilmente hanno compiuto? Forse sono stati dei bravi padri.
Forse hanno aiutato gli altri. Forse hanno fatto… Questo non sta a me. Però
loro non sono solo quella cosa lì, assassini, sono anche tante altre cose.
Ecco, questo mi ha aiutato nel mio percorso di perdono».
Il compito di essere
felici
Dove trova
questa donna la forza per essere così? Per cercare di essere così ostinatamente
felice? (c’è altro compito nella vita, se non questo? Essere felici) Ce lo dice
Gemma Calabresi quando ci spiega che «il perdono non è una debolezza».
«Voglio lasciare a voi una testimonianza
positiva della vita. Io vi dico una cosa: senz’altro è stata una vita pesante,
ma sapete che non la cambierei? Perché è stata una vita intensa, ricca e piena
di affetti, di amore, di gente che mi vuole bene. Eh, se io guardo gli altri,
no, non mi cambierei. Qualche volta mi viene un po’ di rabbia quando vedo le
persone anziane ancora insieme per mano, allora lì ho un attimo di debolezza,
ma è bene così, è bella così. La mia vita comunque è stata bella».
Foto Ansa
Emanuele Boffi
TEMPI 30 aprile 2021
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