IL 30 AGOSTO, ALL'ETA' DI 91 ANNI, E' MORTO A MOSCA
MICHAIL GORBACIOV
ULTIMO PRESIDENTE DELL'URSS
George H. W. Bush, Ronald Reagan, Michail Gorbaciov New York 1988 |
Il
Cremlino è
da sempre un luogo tragico. Lo fu negli anni che preparavano la guerra con le
bombe, le armi automatiche, il gas nervino; nel presagio keynesiano di una pace
di Versailles allevatrice di nuovi mostri; nello sterminio hitleriano, nel dopo
il bunker di Berlino; tra i gelidi colpi delle spie con la Browning e la
Makarov, al varco del Checkpoint Charlie, tra le vite degli altri ascoltate e
spezzate. Il Cremlino fu un teatro con un suo cartellone fisso, vari impresari,
programma sanguinoso. Fu Lenin a sparare il colpo di cannone a San Pietroburgo
e dare il via all’opera macabra. Stalin la industrializzò eliminando tutti i
nemici (in ‘The
Cold War’ di John Lewis Gaddis il numero dei cittadini
sovietici uccisi per mano staliniana è di oltre 10 milioni). Con Krusciov
cercarono di dimenticare l’assassinio in casa per dedicarsi a sfiorare nel 1962
il conflitto nucleare con i missili di Cuba, poi arrivò il tempo della
‘dottrina Breznev’ in un’era di stagnazione e ombre, assassinio e ‘raffreddori
sovietici’. Gli anni Ottanta furono il gioco pirotecnico dell’implosione lenta
e inesorabile, al Cremlino sfiammavano i presidenti come zolfanelli, nel
1982 arrivò al potere un ex capo del Kgb (un altro, non quello), Jurij Andropov,
un segretario-lampo che dopo due anni lasciò il comando a Konstantin Černenko,
altra sagoma che finì regolarmente nella botola della storia, figuranti stanchi
di un tramonto sul letto della Moscova. Il Pcus tirò fuori dal cilindro la
carta disperata nel 1985, Michail Gorbaciov. Aveva solo 54 anni, un giovane
nella storia della nomenklatura sovietica, era nella manica di Andropov, ma non
lo conosceva nessuno, i Cremlinologi non possedevano un dossier informato su di
lui, l’intelligence non sapeva neppure che esistesse. Era il nome del
pre-destinato, l’ultimo presidente dell’Urss, la parola ‘fine’ galoppava come i
cosacchi nella taiga siberiana. Sembrava lontanissimo, quel giorno, il 9
novembre del 1989, la caduta del Muro di Berlino. Poi arrivò.
Gorbaciov al suo esordio fece la riforma più grande, la sua vera e unica rivoluzione, la spinta che mancava per mandare giù tutto: la riforma della parola. Il segretario del Pcus cambiò il linguaggio del regime, cominciò a emettere strani suoni che facevano emergere terre mai viste prima:
Glasnost (trasparenza)e Perestrojka (ristrutturazione), Demokratisatsiya (democrazia, ma sempre nel partito unico) e Uskoreniye (accelerazione).
Trasparenza e un programma di riforme politiche e economiche, si stava
chiudendo il sipario del socialismo reale. Le catene spezzate furono quelle
della parola, fuori dalla letteratura e dalla dissidenza, dagli scacchi e
dall’esilio, c’era qualcos’altro che aveva un suono nuovo, era lui, Gorbaciov.
Ma cosa stava cominciando? Una sinfonia confusa, senza spartito, il caos
incorporato nel declino. L’Unione Sovietica era moribonda, il suo sistema
economico al collasso, la sua forza militare consumata e il suo arsenale
nucleare in decadimento, la presa sugli altri paesi dell’impero si era ormai
allentata per insufficienza di forze, paura del collasso imminente. L'apparato
pensava ai suoi agi, vedeva le crepe nel Palazzo, la guerra in Afghanistan
contro i Talebani era un pantano (poi toccò a noi e dopo vent'anni abbiamo visto
l'altra ritirata, spartiacque della storia). Fu questione di un attimo, un
fiammifero nel buio, la detonazione a catena di quello spazio immaginato da
Winston Churchill, non più premier del Regno Unito, nel suo discorso sulla
Cortina di Ferro del 5 marzo del 1946, tenuto a Fulton, in Missouri:
“Da Stettino nel Baltico a
Trieste nell'Adriatico, una cortina di ferro è scesa attraverso il continente.”
Quello
spazio nell'era di Gorbaciov stava esplodendo. Margaret Thatcher lo incontrò,
ne rimase entusiasta e volò a Washington per dire a Ronald Reagan di aprire
subito la porta della Casa Bianca a questo leader dal parlare inusuale, una
ventata di calore lontano dalla sferzata di ghiaccio siberiana. Il presidente
americano si auto-consegnò alla storia seguendo la Lady di Ferro, apri-pista di
un mondo nuovo. George H.W. Bush, con l’esperienza di chi aveva guidato la Cia
durante la Guerra Fredda, mise il sigillo allo straordinario ciclo della
speranza. Missione compiuta, vittoria dell’Occidente, il comunismo è morto e la
storia è finita. Applausi.
Sparita l’Unione Sovietica, rimase la Russia con i suoi immensi spazi, vuoti da riempire. E nessuno si preoccupò di capire fino in fondo cosa sarebbe nato sulle macerie dell’impero. I vincitori si impegnarono in un brindisi perenne dei loro successi, soprattutto quelli commerciali.
Dopo quella di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, partì la seconda fase della globalizzazione, quella di Bill Clinton e Tony Blair.
La prima era intimamente legata all’espansione della democrazia, la seconda fu lo sganciamento degli ideali (quella cosa chiamata libertà) dai valori (il fatturato altrove della Corporate America).
Da quel momento, dal
distacco tra realtà e contabilità, l’Occidente fu colto da sonnambulismo,
hubrys, dalla tracotanza dei vincitori che non leggono e non ascoltano le
lezioni della storia.
La Russia di Gorbaciov non esisteva, la visione, la grande spinta di un uomo coraggioso da sola non poteva trasformare un sistema putrefatto in un regno democratico nutrito dal capitalismo impaginato nei quaderni di Harvard.
Fu un doppio errore delle élite dell’economia (il primo di una lunga serie), consumato prima con la Russia e poi con la Cina. Mosca serviva come stazione di servizio tra Vladivostok e Berlino e così andammo a chiedere gas e petrolio, non riforme e sicurezza nello spazio dell’Europa, la libertà era una cosa che interessava solo ai nostalgici del Novecento, con i vertici in Islanda, le serate al Bolshoi e le cavalcate a Camp David.
La fine dell’Urss fu un lampo d’utopia che rimase senza luce. Al buio, si vide anche il bagliore lontano di quello che sarebbe arrivato.
Ora è qui, davanti a noi,
l’America di Biden, la Russia di Putin, l’Europa di nessuno.
tratto da List di Mario Sechi