Trenta ore extra-curriculari per insegnare cosa? Ci si è accapigliati per le nomine, ma il vero problema è l'idea che servano corsi di esperti statali per imparare l'affettività (LETTERA AL DIRETTORE)
Aristotele, Scuola di Atene, Raffaello,
(1511) Stanze Vaticane
Caro direttore, solo una semplice richiesta di aiuto a fare un po’ di chiarezza.
Nel giorno in cui le scrivo questa lettera, il ministro dell’istruzione Valditara ha comunicato l’annullamento delle nomine a Paola Concia, suor Anna Monia Alfieri e Paola Zerman al coordinamento del progetto “Educazione alle Relazioni”, un percorso sperimentale di 30 ore extra-curriculari, attivabile su base volontaria, che però ha un contenuto che non mi sembra affatto chiaro.
Visto il contenuto del progetto , si potrebbe
però partire dall’unico punto fermo della faccenda: non è obbligatorio, ma
“attivabile su base volontaria”. A seconda del successo del
progetto infatti , è già valutata la possibilità di renderlo
obbligatorio in tutte le scuole superiori. Da qui dunque, una certa urgenza a
fare chiarezza.
Ho provato a leggere la direttiva dello scorso 24 novembre, con cui il
ministro ha comunicato ufficialmente l’avvio del progetto, ma, ahimè! non ci ho
capito niente. Più che un piano educativo, a dire il vero, mi è sembrato un
documento aziendale, uno di quelli messi insieme dalla sera alla mattina, con
cui di solito gli uffici risorse umane delle succursali cercano di attuare le
nuove policy della casa madre (senza averci capito niente). Periodi
lunghissimi, zeppi di elenchi, che finiscono in nulla; corollari metodologici e
studi di fattibilità; dovizia di cifre sui finanziamenti; ma di contenuto
critico e culturale neanche l’ombra.
Sospetto però che tale mancanza sia inevitabile. Per quel poco che ho
capito, infatti, tra i desiderata di questo progetto ci sarebbe quello di
“rendere edotti sulle conseguenze dei propri comportamenti, al fine di evitare
la violenza”. Che è esattamente quello che una vera educazione umana non fa.
Non si educa mai, infatti, ad evitare il male, ma, semmai, ad amare il bene.
Non si guarda alle ingiustizie della storia per impedire meccanicamente che si
ripetano, ma per far crescere l’amore alla giustizia e il desiderio di
rimanervi attaccati, anche quando tutti si voltassero da un’altra parte. Come
diceva Antonia Arslan, di recente, in un incontro sull’evacuazione coatta
del Nagorno Karabakh (eccola
una tragedia taciuta e avvenuta solo un mese fa, sotto gli occhi di tutti),
«ognuno deve scegliere: i giusti dei genocidi sono quelli che non si voltano
dall’altra parte. L’uomo non può dire “questa atrocità non succederà più”
perché non è nelle sue forze impedire il male, ma gli spetta, piuttosto, di
decidere di non guardare dall’altra parte».
Chi dovrebbe impedirci il male dunque? Un progetto dello Stato? Questo non significa che i tempi non siano maturi per un ripensamento critico e sistematico del modo in cui si comunica, attraverso l’educazione, la positività che si vive nella propria esistenza. Siamo certamente di fronte a sfide grandi e decisive, che non possono farci stare mai tranquilli. Mi sono perso qualcosa o questo tema è stato completamente scavalcato e stiamo già litigando su chi debba coordinare il carrozzone? Vale la pena scommettere sulla valorizzazione intrinseca di ciò che a scuola già accade (o può accadere), o ci siamo già arresi all’inevitabilità di soluzioni tecniche estrinseche, che mettano a tutti la coscienza a posto?
Un insegnante
Ecco, finalmente un commento intelligente a questa grottesca vicenda. Cos’è questa smania di creare tavoli, comitati, commissioni, in definitiva “carrozzoni”, per rispondere a ogni emergenza? Cos’è questa idea, come diceva Fabrice Hadjadj, che bisogna sempre affidarsi agli “esperti” per educare i ragazzi («se basta l’amore, per allevare i bambini vanno bene gli orfanotrofi»)? E, soprattutto, ma chi l’ha detto che fra i compiti dello Stato c’è anche quello di indottrinarci all’affettività?
Avevamo già avuto sentore che questa storia stesse prendendo una piega storta. Non è solo il problema della Concia, il problema numero uno è questa idea che serva un “corso” per imparare l’affettività.
Un corso statale per imparare a vivere! E poi lo sappiamo tutti come andrebbe a finire: si inizierebbe col parlare di “relazioni” e si finirebbe con la propaganda lgbt. O, peggio ancora, con le noiosissime prediche sul “rispetto” e la “tolleranza”, le parole totem dietro cui si nasconde l’incapacità di comunicare un senso delle cose e dei rapporti. Ma ci hanno preso per scemi?
Emanuele Boffi direttore di TEMPI
Tags: antonia arslan corsi affettività educazione affettivita fabrice hadjadj Scuola
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