martedì 12 dicembre 2023

TUTTO PER HAITI, FOGNA DI SALVEZZA

Nella discarica umana di Waf Jeremie le sanguinarie bande armate hanno messo gli occhi sulla Kay Pe’ Giuss. Il bimbo ucciso, i disabili sfollati, la croce di non poter tornare dai 132 piccoli e la grazia di una via aperta tra i liquami. 

Parla suor Marcella Catozza

 Non solo fame, miseria, tifoni, terremoti. Centinaia di bambini delle bidonville di Haiti sono ostaggio delle bande armate (foto Ansa)

«Hai ventiquattro ore, suora. O questi non li rivedi più». I banditi si erano seduti tra i bambini: era la settima volta che facevano irruzione alla Kay Pe’ Giuss quel giorno, il settimo ricatto in poche ore. E anche allora suor Marcella Catozza aveva dovuto cedere: trentamila euro in cibo, fagioli, riso, mais, tutto quello che restava nella missione già travolta dall’alluvione che aveva colpito Haiti poche settimane prima.

Trentamila euro fino all’ultima scatoletta perché nessuno dei suoi bambini, nell’ultimo avamposto di speranza di Waf Jeremie, insanguinata baraccopoli della periferia di Port au Prince, facesse la fine dei sempre più numerosi bambini rapiti o ammazzati nel quartiere.

Da Haiti alla Repubblica Dominicana

Come quella piccola di tre anni: «Giocava fuori dalla sua baracca quando la sua mamma l’ha sentita gridare. Ha fatto in tempo a vedere due banditi in moto portarsela via. Dopo mezz’ora sono tornati chiedendo un riscatto di 5mila dollari entro 24 ore. La povera donna vende frittelle per strada, come poteva trovarli? La mattina dopo ha sentito un tonfo alla porta, ha aperto ed era il cadavere di sua figlia», racconta a Tempi suor Marcella Catozza. Accadeva a luglio. Ora suor Marcella si trova bloccata da due mesi in Repubblica Dominicana, dove insieme all’arcivescovo di Santo Domingo ha tentato l’ultima carta per portare via i bambini dall’inferno di Waf Jeremie: convincere il governo a lasciarle aprire una casa d’accoglienza.


Tutto inutile, e negli ultimi tempi pericoloso: «Pochi giorni fa è partita la caccia all’haitiano. Tra i due popoli non corre buon sangue, i rapporti da sempre pessimi e culminati nei lavori per innalzare un muro di frontiera sono degenerati ora con gli scontri sul Rio Massacr, il fiume al confine tra i due paesi: gli haitiani hanno provato a deviarne il corso costruendo un canale per irrigare le loro terre, i dominicani hanno reagito sparando sugli operai con l’esercito. E Haiti ha risposto a sua volta chiudendo le frontiere per affamare i piccoli coltivatori che varcavano il confine per vendere riso, uova, frutta. Non c’è speranza di portare qui i bambini».

Nascondere i disabili e i ragazzi più grandi

Sono rimasti in 132 alla Kay: quando i banditi erano usciti per la settimana volta, quel giorno di luglio, suor Marcella aveva capito che finché ci fosse stata una suora bianca da ricattare i bambini non sarebbero stati al sicuro. E che la Kay era diventata un obiettivo. E così, prima di rientrare come ogni agosto in Italia, si era occupata di sfollare i bambini più a rischio: «Siamo riusciti a fare accogliere 14 disabili, i più gravi, nel centro sanitario dei camilliani, ben presidiato dalle guardie. Sono i primi di cui i banditi si sarebbero disfatti se avessero assaltato la struttura. Poi c’erano i più grandi, ragazzini e ragazzine sui quali le bande armate hanno da tempo messo gli occhi e per ragioni che si possono immaginare: abbiamo costretto chi ancora aveva qualcuno, una madre, un padre, una zia, a “lasciare” la missione. Ovviamente continuano ad essere dei nostri, non abbiamo smesso di seguirli, pagare loro scuola, uniformi, scarpe, libri, i doni di Natale sono pronti anche per loro, ma la Kay non è più un posto sicuro. In caso di assalto diventerebbe una trappola».

E i più grandi verrebbero costretti a scegliere: o al servizio della banda o morte. Si ragiona così ad Haiti, dove anche la “speranza” è appesa alla ferocia: speranza che i bambini più piccoli e inutili (l’80 per cento di loro è orfano e non ha genitori da ricattare) vengano “solo” buttati in strada, che i grandi scappino, che la terribile banda di Waf Jeremie che tiene in ostaggio il quartiere lo sappia difendere dagli assalti degli altrettanto sanguinari nemici di La Saline.


Jimmy Cherisier, chiamato “Barbecue”, alla testa della coalizione delle bande armate di Haiti G9 (foto Ansa)

Il bambino di 4 anni, ammazzato tra i suoi amici

Una volta le bande di Waf Jeremie e La Saline erano alleate. Oggi si fronteggiano per spartirsi i territori lasciando a terra cadaveri e bossoli ogni giorno. Il capo di La Saline è stato ammazzato come si usa da quelle parti, come si vede nei film, avvelenato mangiando pesce e finito a pietrate in testa. Si dice fosse il capo della famigerata coalizione G9, in pochi giorni era stato fatto fuori anche il suo rimpiazzo e così il numero due e tre della banda. La Saline aveva risposto alle esecuzioni sparando a chiunque entrasse o uscisse da Waf jeremie. Compreso l’autista del camion dell’acqua: il proprietario aveva deciso quindi di sospendere le forniture lungo l’unica strada che attraversando la baraccopoli collega la capitale all’istmo sul mare dove sorge la missione, e per dissetarsi oggi i bambini devono aspettare l’acqua piovana.

Quello che accade laggiù, nella discarica della capitale, non è affare della polizia corrotta, dei movimenti di giustizia sommaria come Bwa Kale, non è affare dei media, più interessati alle gesta di calciatori e influencer che alla morte del piccolo di 4 anni della Kay, centrato da un proiettile mentre era in classe, tra i suoi amici: «Era il nipote della cuoca. Le pallottole fendono le pareti della missione come burro. Due bambini possiamo nasconderli sotto il lavandino ma come possiamo pensare di ripararne più di cento?».

«Non tornare più». Gli occhi delle bande armate sulla Kay Pe’ Giuss

Il rischio che le bande conquistino la Kay Pe’ Giuss è concreto. Sono vent’anni che suor Marcella tiene testa ad Haiti a terremoti, tifoni, colera, alluvioni e soprattutto alle irruzioni dei criminali, ma un esercito senza testa che uccide chiunque incontri tra le baraccopoli di lamiera in cui si nascondono centinaia di migliaia di disperati è un nemico troppo grande. A chi rispondono i criminali delle baracche incendiate con le famiglie dentro, persone giustiziate in mezzo alla strada, rapimenti e stupri, quando dichiarano una tregua di tre giorni per permettere i “festeggiamenti di compleanno” del capo? Non c’è lavoro, non ci sono farmaci, si muore di fame e malattia, ci si prostituisce e si ammazza per una tanica di acqua pulita: chi sfrutta tutto questo? A chi interessa il grido di Haiti mentre sprofonda nel baratro a un’ora di aereo da Miami o dalle spiagge turistiche di Santo Domingo? Quanti bambini come il nipote della cuoca della Kay o i religiosi come suor Luisa Dell’Orto dovranno trovare il martirio?

Il “popolo” non si fa più domande. Si registrano centinaia di morti ogni settimana. Centinaia i rapimenti di donne e bambini. I medici stanno lasciando gli ospedali. Anche gli educatori iniziano a cedere. Safira, infermiera, dopo dieci anni alla Kay, come altri presa, picchiata e derubata dai banditi, ha chiamato in lacrime suor Marcella, “Sorella non ce la faccio più, scusami”. E se ne è andata. «Non tornare più», l’aveva minacciata il capobanda chiamando la suora ad agosto, mentre si trovava in Italia, «ci prendiamo tutto». Poche settimane fa c’è stato l’assalto alla scuola dei padri salesiani, dove studiano alcuni bambini della Kay e sono mantenuti agli studi altri 200 piccoli di Waf Jeremie che hanno frequentato lì la scuola materna. «I maschi sono scappati scavalcando i muri, le femmine sono state portate al “sicuro” dentro la casa delle suore salesiane per essere evacuate qualche ora dopo dalla Croce Rossa – racconta la religiosa -. La scuola non ha più riaperto, è diventata una base della banda. Stimiamo che 25 mila studenti non abbiano più una scuola ad Haiti».


Alcuni bambini della Kay Pe’ Giuss, nella missione guidata da suor Marcella Catozza a Waf Jeremie

«Porterete Cristo e la Chiesa», tra cadaveri e banditi

Con la spedizione in Repubblica Dominicana si conclude la lista di “ultime possibilità” per i bambini della Kay di lasciare Waf Jeremie. E per suor Marcella di tornare da loro, non ora, non a breve. Troppo pericoloso, le hanno ripetuto l’arcivescovo e il nunzio, non solo per te ma per le persone di cui ti prendi cura e che ti aiutano. Marcella si è ricordata allora delle parole del vescovo Joseph Serge Miot che l’aveva mandata ad Haiti nel 2000: «Ma cosa faremo, cosa?», gli aveva chiesto sconvolta dopo una prima visita a Waf Jeremie, il quartiere chiuso ai bianchi da una barricata di copertoni fumanti, «porterete Cristo e la Chiesa», le aveva risposto.

Tempi aveva raccontato tutta la storia qui. La differenza tra il “fare” ed “essere presenza” tra quegli esseri che parevano bestiali, privi di speranza, perfino umanità, era passata dallo scavare nella melma per ritrovare i bambini inghiottiti dal fango e dall’immondizia dopo i tifoni, da milioni di punti di sutura su teste aperte dai machete, dallo spostare cadaveri e macerie per ricostruire scuole e ambulatori dopo i terremoti più devastanti della terra, dal raccogliere orfani denutriti, abbandonati e devastati da piaghe, fame e formiche in mezzo alla strada, malati di tubercolosi, con deficit motori e psichici. Era passata da un ambulatorio, una casa d’accoglienza, una scuola, fino a diventare una fondazione, un intero villaggio. Fino a rimettere in moto l’io. Rimettere in cammino e capaci di protagonismo centinaia di bambini (che spettacolo quelli che Tempi aveva incontrato ad Assisi), e con loro adulti e famiglie. Che strana croce poter rappresentare per tutti loro un rischio.

La certezza del missionario e di chi si tuffa nella fogna

«Obbedisco alla realtà, imparando da loro che tutto ciò che accade viene usato dal Buon Dio per compiere il nostro bene, in una forma misteriosa, ma sicuramente un Bene che un giorno capiremo. E che già mostra il suo volto. Lo vedo in quello dei bambini, che scoppiano di gioia mentre mi chiamano e raccontano che stanno preparando il primo Natale di Gesù Bambino “senza luci” perché non c’è elettricità. Lo vedo nel volto del direttore della scuola che ogni santo giorno, per superare incolume la linea di guerra che lo separa dalla nostra scuola, si immerge in un fiume di liquami che attraversa l’immondezzaio, per poi lavarsi con le bottigliette di acqua e correre dai nostri ragazzi, certo di Cristo e dell’opera educativa che lo attende. Ha insegnato la “strada” anche ad altri educatori; mi chiama felice, “suor Marcella, ho trovato una stratégie”. Per un missionario vedere che tutto va avanti anche senza di lui, che i semi sono germogliati e che la gente di Haiti ha preso in mano l’opera nata con e per loro, a costo di immergersi in una fogna, è il trionfo. Non si tratta di lasciare nulla, non c’è nulla di “mio”, ma di riconsegnare la missione al popolo con cui si è camminato insieme e ricominciare ancora una volta senza niente a portare Cristo e la Chiesa. E qui viene fuori se uno è veramente libero al punto di dire un nuovo sì, o è attaccato all’opera e si dispera. Io», conclude suor Marcella «vivo una grande pace e gratitudine. Certa che anche in questo momento, tra sparatorie, copertoni fumanti, baracche in lamiera Cristo continua ad accadere ad Haiti».

Caterina Giojelli Tempi, 9/12/23

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