sabato 9 dicembre 2023

LA POTESTÀ DEL PAPA È SUPREMA, MA NON ASSOLUTA O ILLIMITATA

GERALDINA BONI

Prima parte di un approfondimento in due puntate sul potere papale: non uno status personale di superiorità o di dominio, ma un compito di cura e servizio, con dei precisi limiti.

Diversi fatti più o meno recenti hanno contribuito a rendere più acuta la domanda relativa ai perimetri del potere del Sommo Pontefice. Tradizionalmente si parla di plenitudo potestatis, un’espressione che però, forse complici le ideologie del Novecento e contemporanee, viene sempre più intesa, persino dallo stesso titolare, come potere assoluto e arbitrario. Abbiamo perciò chiesto alla Professoressa Geraldina Boni, Professore Ordinario di Diritto Canonico, di Diritto Ecclesiastico e di Storia del Diritto Canonico presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, di orientarci in questo tema tanto delicato e urgente. La Prof.ssa Boni è altresì Presidente della Commissione interministeriale per le intese con le confessioni religiose e la libertà religiosa e Consultore del Dicastero per i Testi Legislativi.

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«Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese». Questa frase, pronunciata da Papa Francesco il 17 ottobre 2015, si inscrive del tutto armonicamente nell’evoluzione secolare della progressiva penetrazione della sostanza del munus affidato da Cristo a Pietro e ai suoi successori da parte del magistero cattolico nonché della scienza teologica e canonistica. Una graduale comprensione dell’ufficio petrino che è stata cadenzata e influenzata altresì dalle diverse contingenze storiche sperimentate dalla Chiesa (cfr. il mio ultimo libro Il diritto nella storia della Chiesa. Lezioni, Morcelliana, 2023).

Così, il ruolo particolarmente incisivo e propulsivo dispiegato dal papato a partire dagli esordi del secondo millennio e che condusse a un deciso accentramento e ad una rigida verticalizzazione nel reggimento dell’intera Chiesa va traguardato nel contesto – oltre che della mentalità medievale – del “gigantesco duello” ingaggiato dalla Chiesa per sgravarsi dalla sudditanza nei confronti dell’Impero e recuperare la sua libertas. E tuttavia anche l’elaborazione immediatamente successiva ‒ nell’epoca classica del diritto canonico – della plenitudo potestatis papale, pur accentuando sensibilmente il contenuto giurisdizionale del primato e incrementandone notevolmente le prerogative, non ha mai nutrito dubbi nel proclamare con fermezza la non arbitrarietà del potere papale. Enunciando, ad esempio, il doveroso ossequio, da parte del successore di Pietro, dello status generalis Ecclesiæ, nonché insistendo sulla utilitas o ædificatio Ecclesiæ come ragioni giustificatrici dell’istituzionalizzazione del primato, declinate poi segnatamente nella difesa dell’unità e della fede.

Così, la libertà e l’emancipazione del Papa dalle leggi viene perimetrata e specificata, da un lato, nella sola superiorità al diritto positivo e, dall’altro, nell’indispensabile razionalità di un’eventuale dispensa da lui concessa: senza che mai si possano compromettere i fondamenti dell’ordine e della disciplina ecclesiastica solidamente ancorati allo ius divinum. D’altronde, è viva la persuasione che la delimitazione della funzione petrina non indebolisca in alcun modo l’autorevolezza del Vicario di Cristo, ma la rinsaldi e la potenzi, radicandola nella genuina traditio ecclesiale e, specialmente, nell’autentico mandato superiormente ricevuto.

Senza potersi ora soffermare sulle tappe della secolare maturazione in ordine al munus petrinum, va rimarcato ancora, solo incidentalmente, come al Concilio Vaticano I, che definì la «dottrina relativa all’istituzione, alla perennità e alla natura del sacro primato apostolico» (Pio IX, Costituzione dogmatica Pastor æternus), ricorrenti e ripetuti siano i riferimenti al diritto divino come fonte e criterio ispiratore del primato, fissando e imponendo ad esso un vincolo costitutivo. La Costituzione Pastor æternus precisa, in particolare, che «questo potere del Sommo Pontefice non reca assolutamente pregiudizio al potere di giurisdizione episcopale ordinaria e immediata dei singoli vescovi», palesando inoltre una chiara coscienza dell’intrinseca funzione aggregante ed essenzialmente servente del ministero petrino, e così allontanandosi da quel prototipo dispotico e autocratico contestato dagli avversari.

Il Vaticano II, finalmente emancipato da preoccupazioni difensive e apologetiche (specie nei confronti delle ingerenze secolari), ha poi integrato e perfezionato quel quadro secondo il quale il romano Pontefice non è padrone, ma amministratore e custode dei beni salvifici e della societas Ecclesiæ, tra l’altro evidenziando l’impronta diaconale di tutto il ministero ecclesiastico, non escluso quello papale, volto al bonum commune, nonché aggiungendo la forte sollecitazione alla salvaguardia dei diritti dei fedeli.

In seguito le Considerazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede sul primato del successore di Pietro nel mistero della Chiesa (1998) correlano ancora una volta la determinazione dell’estensione del ministero petrino alla necessitas Ecclesiæ, esplicitando di nuovo con nettezza la non arbitrarietà dell’esercizio del comando e delineando una responsabilità del Papa volta inderogabilmente all’edificazione della Chiesa e garantita dal servizio dell’unità, col mantenere e promuovere la comunione con gli altri vescovi e con l’intero popolo di Dio. La valutazione della necessitas Ecclesiæ, menzionata altresì nel can. 333 § 2 del Codex Iuris Canonici vigente, seppure rimessa al discernimento insindacabile del Papa, non per questo si può tradurre nel suo ipotetico dittatoriale capriccio: al contrario il principio della necessitas Ecclesiæ è propriamente e squisitamente giuridico, essendo il successore di Pietro ad esso irrefragabilmente tenuto proprio in virtù dell’incarico assolto.

Sia pur da tali scarni cenni, emerge come nella Chiesa sia costante nei secoli, e divenuta quindi granitica, la consapevolezza che la potestà del successore di Pietro è certamente suprema, ma non affatto assoluta. Non vengono distillati espressamente divieti o proibizioni tassative, ma si tracciano, senza esitazioni, impegni e condizioni che inseriscono appieno l’ufficio petrino nella struttura costituzionale della Chiesa: i limiti sono cioè insiti e connaturati all’in sé del ministero petrino, lo configurano, lo alimentano e lo fortificano più che ridurne o addirittura eroderne il carattere supremo.

Anche il ricoprire l’ufficio di Papa, dunque, non può essere attributivo di uno status personale di superiorità o di dominio – «battezzato tra i battezzati», ha asserito Francesco, evocando l’uguaglianza radicale e fondamentale di tutti i christifideles, e arrivando a dichiarare che «in questa Chiesa, come in una piramide capovolta, il vertice si trova al di sotto della base» –, ma conferisce un compito di cura e servizio, riflettendo la matrice cristologica (Mt 20,28; Lc 22,27) e comunionale del potere, secondo la bellissima definizione di Gregorio Magno secondo cui il vescovo di Roma è servus servorum Dei.

Professore Ordinario di Diritto Canonico, di Diritto Ecclesiastico e di Storia del Diritto Canonico presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna.

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