GERALDINA BONI
Seconda parte dell'approfondimento sulla potestà del Romano Pontefice: la
preservazione del depositum fidei è
l’esigenza prioritaria e ineludibile del suo ministero.
- La potestà del Papa è suprema,
ma non assoluta o illimitata, di Geraldina Boni
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Si è riscontrato come i limiti del potere
del Papa siano frutto e conseguenza dell’obœdientia fidei che non
può non accompagnare il cammino del successore di Pietro nella fedeltà alle
orme di Cristo. Rigettandosi dunque coralmente nella Chiesa una potestas
absolute illimitata [autorità o potere assolutamente illimitato], si
usa solitamente sottolineare che la potestà del Romano Pontefice è “recintata”
dal diritto divino, sia quello naturale sia quello rivelato. Per non rendere
tale asserzione una formula astratta, una mera dichiarazione teorica priva di
portata effettiva concreta, occorre riempirla di contenuti, come invero la
dottrina teologica e canonistica ha mirato a fare, giungendo ad alcune
acquisizioni largamente condivise e oramai consolidate, pur nella varietà di
accenti e sempre ricordando l’irriducibilità delle categorie canonistiche ai
modelli politici secolari.
Anzitutto, l’affermazione che il Papa
è legibus solutus [sciolto dalle leggi] si può intendere esclusivamente nel senso che egli è
al di sopra del solo diritto positivo – al quale resta comunque ordinariamente
soggetto, sebbene, quale suprema autorità, possa ragionevolmente modificarlo –,
restando peraltro completamente sottoposto e docilmente obbediente alla legge
divina. In una sintetica illustrazione di cosa questo comporti, con
un’attenzione prevalente ai profili giuridici, va preliminarmente ribadito che
la sua competenza giurisdizionale non deve esorbitare invadendo la legittima
autonomia della sfera temporale, come anche il Vaticano II ha ammonito (Gaudium
et spes, 36), estrinsecandosi
unicamente nelle materie di spettanza della Chiesa in ordine al perseguimento
del suo fine soprannaturale, la salus animarum, compresi gli
aspetti relativi alla sua organizzazione a tale missione orientati.
Il ministero del Papa si pone poi
preminentemente come servitore nella trasmissione della fede cattolica e dei sacramenti,
costituendo la preservazione del depositum fidei l’esigenza
prioritaria e ineludibile del suo ministero. «Il Romano Pontefice è – come
tutti i fedeli – sottomesso alla Parola di Dio», attestano seccamente le Considerazioni
della Congregazione per la Dottrina, già richiamate: ove il vocabolo
“sottomesso” veicola, per lui, un titolo di onore e un compito da svolgere, non
certo una deminutio capitis.
La potestà del Romano Pontefice deve
realizzarsi così nel totale rispetto dell’episcopato, anch’esso di origine divina (Lumen
gentium, 22), sia per quanto ai pastori spetta nei riguardi della Chiesa
particolare loro affidata non come meri vicari o delegati del Papa, sia per
quanto attiene alle pur differenti adunanze episcopali, innervate nel dipanarsi
dell’esperienza ecclesiale. Anche i diritti dei fedeli, scaturenti dalla
dignità battesimale e che li convocano a cooperare all’edificazione del Corpo
di Cristo, sono un argine invalicabile per la potestà, la quale si deve per
converso adoperare affinché essi raggiungano la pienezza della vita cristiana:
diritti, peraltro, pur mai da considerare quali istanze rivendicative in
contrapposizione e antitesi all’autorità gerarchica, essendo tutti cospiranti
al bonum commune.
Del pari le esigenze promananti dal
diritto divino naturale non possono essere compresse o mortificate, esplicandosi tra l’altro nei confronti
di tutti gli uomini. È così inammissibile un esercizio potestativo, anche del
detentore della potestas suprema, che calpesti e conculchi i diritti correlati alla dignità della
persona umana: ad esempio, il diritto
alla vita, all’intimità e alla riservatezza o alla buona fama, ma anche
– per riferirci a un ambito delicato, oggi sotto i riflettori nella Chiesa
– il diritto di difesa in un giusto processo, la presunzione di innocenza,
la tutela di preesistenti diritti acquisiti, non escluso quello di non essere
punito per un delitto prescritto.
C’è tuttavia un altro ordine di
limitazioni che sovente vengono trascurate, se non addirittura fraintese, e che spetta eminentemente ai giuristi
porre in rilievo: quelle collegate al retto esercizio della potestà. In questi
ultimi anni, me ne sono ampiamente occupata, con riferimento in particolare
alla recente attività normativa: mettendo
in luce la cruciale importanza del rispetto, anche da parte del legislatore
supremo, della legalità in legiferando, vale a dire l’ottemperanza
delle modalità e delle procedure nomopoietiche contemplate, così da assicurare
il necessario ordine, chiarezza e coerenza del sistema giuridico.
Sarebbe quindi da biasimare un sovrapporsi
frenetico, alluvionale e caotico di leggi, ovvero di precetti scanditi senza un’appropriata
tecnica normativa, e di previsioni di cui nebulosi appaiano il rango e la
portata giuridica e il cui puntuale tenore non sia desumibile da una rituale
promulgazione secondo i canali prefissati; ugualmente lo sarebbero delibere di
governo non secundum iuris normas [non secondo le norme del
diritto] ed esoneri da ogni responsabilità degli atti di soggetti rivestiti di
autorità, sia pur sospettati di illegittimità; inoltre dovrebbero criticarsi
non eccezionali ma usuali, addirittura legislativamente pianificate,
approvazioni in forma specifica da parte del titolare del potere supremo, con
l’effetto di rendere in alcun modo impugnabili provvedimenti virtualmente
lesivi di diritti. Tutto ciò va censurato da parte della canonistica, non per
un accademico e puntiglioso gusto di geometrie astratte, ovvero per un ossequio
quasi manieristico o addirittura giuspositivista della legalità e della
certezza del diritto. Per contro, al di là dei pericoli per il patrimonio
stesso della fede (inevitabilmente sotteso ad ogni prescrizione normativa),
sarebbe soprattutto la carne viva delle persone – fedeli ma anche
cittadini per gli innumeri e inscindibili legami tra ordine spirituale e ordine
temporale – ad essere afflitta e lacerata laddove le norme risultino
irragionevoli, cioè non adeguate alla realtà storica disciplinata, mettendo
così gravemente a repentaglio quella giustizia che per diritto divino ad essi è
dovuta e al cui servizio è posta l’autorità ecclesiastica, anche quella
primaziale.
Pertanto, tali restrizioni, alle quali
tutti i titolari di potere nella Chiesa devono adeguarsi, non sono di carattere meramente formale
o funzionale, ma indirizzano e plasmano intimamente il bonum agere,
dunque la sostanza e il contenuto del governo, che altrimenti, se
deviato, rischia di intaccare proprio quei diritti,
cui abbiamo appena accennato, direttamente riconducibili al piano divino,
vulnerando appunto la iustitia corrispondente al disegno
divino, per la quale tutti i soggetti ecclesiali si devono spendere. Si tratta
di capisaldi innestati nella costituzione stessa della Chiesa, del tutto
alieni, quindi, dalla logica volontarista della legalità, inammissibile e
deviante nell’ordinamento canonico, nel quale, infatti, non auctoritas
sed veritas facit legem [non l’autorità, ma la verità fa la legge].
Con queste ultime annotazioni affiora ancora una volta come, del
tutto in linea con la sapienza classica, sia preferibile e più congruo non
enumerare negativamente restrizioni al potere supremo del Papa in un’ottica di
contrapposizioni o di conflittualità: ma occorra piuttosto indicare e insistere
positivamente e costruttivamente su connotati,
qualità e requisiti del buon governo della società ecclesiale, senza
peraltro che la loro cogenza sia, per questo, meno stringente e obbligante
anche per chi è investito del supremo potere.
Il quale, quindi, seppur non soggetto ad
alcun controllo o supervisione, appello o ricorso, da parte di qualsiasi
istanza umana, non per questo deve reputarsi supra ius divinum [al
di sopra del diritto divino] e sciolto dal dovere di operare
costantemente «intuitu utilitatis Ecclesiae vel fidelium ‒ in vista
dell'utilità della Chiesa o dei fedeli» (Lumen gentium, 27a),
sempre in ædificationem et non in destructionem [per
edificare, non per distruggere] (come si rilevò al Vaticano I, richiamando 2
Cor 10,8), essendo «proprio di Pietro sorreggere e conservare unita e ferma in
indissolubile compagine la Chiesa» (Leone XIII, Enciclica Satis
cognitum, 1896), in quanto «perpetuo e visibile principio e fondamento
dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Lumen gentium,
23).
* Professore Ordinario di Diritto Canonico, di Diritto Ecclesiastico e
di Storia del Diritto Canonico presso il Dipartimento di Scienze
Giuridiche dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna.
https://lanuovabq.it/it/il-potere-del-papa-servizio-alla-trasmissione-della-fede
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