In sala operatoria ci sono tutti. Medici, specializzandi, infermieri: il parto di due gemelle siamesi è una cosa rara, e
allora ci sono anche gli studenti pronti a fare le foto. Poi c’è lui. Il papà. Quindici anni, un teenager afro-americano, bandana a rete in testa e jeans da rapper. Sul letto la fidanzatina, quindici anni anche lei, pronta per il cesareo. Loro non hanno mai avuto dubbi: «Sono le nostre bambine». Che cosa c’è da capire o decidere? Lo sanno fin dall’inizio che le figlie vivranno solo pochi minuti: sono attaccate per il torace, hanno un cuore in due, e salvarle è impossibile.
Il parto inizia in un viavai di camici e recriminazioni. I più pensano che questa cosa non andava fatta, «perché li segnerà per tutta la vita, dovevano abortire, e basta. È assurdo», insistono, mugugnano fino all’ultimo. Fino a quando Keela e Kayla non nascono. Abbracciate. Ottocento grammi l’una. Il papà ragazzino chiede «posso prenderle? », e inizia a cullarle. Loro respirano appena. «Sono qui, non abbiate paura. Papà è qui... ». Il silenzio riempie la sala. Nessuno si muove più. Su qualche volto scendono le lacrime.
«Stava accadendo una bellezza così potente che tutti in quella stanza siamo cambiati. Abbiamo contemplato la bellezza del Mistero», dice Elvira. E in questo c’è tutto ciò che serve per spiegare cosa sia il suo neonatal hospice. Un posto che custodisce quella bellezza, si china e la cura. Finché può, per tutto il tempo della vita di un bambino. Che siano tre minuti o tre giorni, poche ore, mesi.
Elvira Parravicini è neonatologa alla Columbia University di New York. Al prossimo Meeting di Rimini (dal titolo: La natura dell’uomo è rapporto con l’infinito) racconterà del programma che ha fondato per l’assistenza dei neonati affetti da sindromi letali. Nati già terminali. È il primo così al mondo. Ovunque questi bambini, se vengono fatti nascere, nascono per morire. Qui per vivere. «L’esistenza ha un inizio e ha una fine. E non li stabiliamo noi. Ma nel mezzo facciamo tutto quello che è possibile perché la loro vita sia bella».
«Perché non vai in America?». Non è un reparto vero e proprio. È una sala parto, speciale, che si prepara quando e come serve. Da poco, l’ospedale ha finanziato anche una cameretta dove i genitori trascorrono con il figlio il tempo che è dato. È un tempo affascinante. «Per tutti noi, anche per gli infermieri, perché implica che ti butti lì umanamente», dice Elvira: «Le tecniche non bastano». Il comfort care, cioè “la cura di conforto”, per i neonati non ha un modello, non è teorizzato e lei non l’ha studiato sui libri. Le chiedi dove l’ha imparato. Sorride: «Dalla mia mamma». Dice che capire il bisogno dell’altro dipende da come lo guardi. «È uno sguardo, quello che ho imparato. L’ho visto in mia madre e nella compagnia del movimento». Non c’è un protocollo, ci sono solo quelli che lei chiama “capisaldi”. «Rispondere ai bisogni primari di un bambino». Ovvero: essere accolto, per cui stare con chi lo ama; non soffrire né fame né sete; stare al caldo. «Queste cose gli danno un sollievo grandissimo». E nel modo in cui lo dice c’è tutto il suo sguardo.
In nome di quei capisaldi saltano le regole della terapia intensiva. «Si fanno cose che non si farebbero. Anche cose “pazze”. Ma si fanno, perché la cura è personalissima. Dipende tutto dal bambino. Noi dipendiamo da lui». Ad una neonata sono arrivati a fare un piccolo intervento. Per via delle briglie amniotiche, è nata con testa e faccia stravolte: «Vedevi solo un buchino, ed era la bocca, da cui doveva mangiare e respirare. Le abbiamo messo un tubicino gastrico, per aiutarla. Così ha vissuto i suoi quattro mesi, ma respirando bene». Tutte le decisioni si prendono con i genitori, «decidi la cura passo a passo, proponi, ti confronti. Loro ti aiutano molto, perché chi decide per il comfort care ha tutto il focus sul bambino, non sul proprio dolore. Vuole servire la sua vita».
Una notte chiamano Elvira d’urgenza. Una mamma che stava seguendo, per un bimbo con Trisomia 18, una sindrome congenita incompatibile con la vita, ha partorito prima del previsto. Era lì, nel trambusto del pronto soccorso, con tutti che lavoravano e senza una stanza: «È stato uno sforzo tremendo riuscire a farla stare con il bimbo in un posto adeguato». Una lotta, come per dire: fermi tutti, c’è lui. Forse il comfort care è anzitutto questo fermarsi. Per il fatto che c’è uno. «Li avrebbero lasciati lì finché il piccolo non moriva. Invece ha vissuto dodici ore, passate con i genitori. E i fratellini. Bastava vedere la festa che gli hanno fatto loro...».
Questa possibilità, che prima era estemporanea, da quattro anni ha il nome di hospice neonatale, ma non è mai stata programmata. «Io non ho fatto nulla. Ogni mio passo è stato preparato da un Altro», racconta Elvira. È arrivata a New York per un suggerimento di don Giussani: «Perché non vai in America?». Era il 1986, lei non conosceva una parola di inglese, aveva trent’anni. Ha iniziato con un anno di tirocinio, poi qualche avanti indietro, per tornarci stabile nel ’94. In fila per l’interview alla New York University, tra decine di candidati in completo scuro, indossava un abitino a fiori. «Lì ho capito che non avevo idea di cosa stessi facendo». Ma ha seguito. Sette anni dopo sarà assistant professor alla Columbia University, dov’era partita da zero, tirocinante.
Fra tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta sempre intatta: «Il desiderio di occuparmi dei neonati malati, malformati. Mi affeziono a loro tantissimo». Perché? «Perché hanno bisogno. E poi così, perché è una cosa data a me». Nel 2001 si butta nel team di diagnosi prenatale della Columbia. Dove tutti gli specialisti, dal genetista al chirurgo, prendono in esame le gravidanze a rischio. «La proposta era in automatico: l’aborto. Senza discussione. Non arrivavo neanche a parlare con le madri. Ed ogni volta era una sofferenza incredibile. Ma nemmeno volevo indignarmi, fare la battaglia, perché non sarebbe servito a nulla. Alla fine mi sono così intristita che ho lasciato». Dopo tre anni di assenza, una mattina il capo dell’Ostetricia, abortista, la incontra in reparto: «Elvira, perché non vieni più alle riunioni? S’imparano così tante cose, dai torna!». Solo questo, una battuta in corridoio. «Non ci ho pensato un secondo. Ho detto: Tu, Signore, mi vuoi lì. Ci torno, soffrirò ma soffro con quei bambini che non riescono nemmeno a nascere».
Al primo incontro in cui è presente anche Elvira, tra i casi in esame ci sono due signore che aspettano figli con Trisomia 18. E, colpo di scena, «non volevano abortire. Allora dico: “Datele a me queste mamme, le seguo io. Quando i bimbi nascono facciamo comfort care”. Ma non sapevo nemmeno bene cosa stessi dicendo». Sapeva solo di volere che «la vita di quei due bambini fosse meravigliosa, e che quelle donne potessero essere madri fino in fondo». È il 2006. Da quel giorno, ostetrici e segretarie iniziano a mandarle tutte le mamme decise a tenere il bambino, quelle in dubbio e quelle che non potevano abortire perché la diagnosi era oltre la 23esima settimana. Tutto è iniziato così. Non c’è stato nessuno che abbia detto: adesso facciamo un hospice neonatale. È nato tra le righe e vive così.
Anche il team di Elvira si è creato strada facendo. «Oggi siamo una decina, tra infermiere dell’Ostetricia e della Neonatologia, una ginecologa e, da poco, anche un assistente sociale. Quasi tutti sono venuti a cercarmi, chiedendomi di lavorare insieme». Il motivo più forte e meno detto sono quei momenti in cui accade la bellezza: «La bellezza non la puoi spiegare. Ma il cuore la riconosce. La intercetta». I genitori per primi. «Io continuo a fare quello che faccio, perché non mi ricordo un caso - negli ultimi quattro anni ne abbiamo seguiti 56 - in cui madre e padre non fossero grati, lieti tra le lacrime. Mi dicono: “Ci ha aiutati ad essere genitori”. E sono persone diversissime fra loro, per cui non è un problema di scelta “morale” o “religiosa”: è la risposta a un desiderio inscritto nel cuore».
Se è unico l’hospice della Columbia è per l’idea “medica” di comfort care. Negli altri ospedali finisce per essere: “So che lui morirà, smetto la cura intensiva”. Ma questo può voler dire tutto, anche non dare da mangiare, fino a diventare una scorciatoia all’eutanasia. Il confine è vertiginoso. Idem per lo scivolamento opposto: l’accanimento, «il fatto di tenerlo in vita a tutti i costi perché non riesci a vederlo morire». Ma così muore a pezzi. Allora dove stia il limite lo scopri solo nell’esperienza. «Non c’è strada se non dalla realtà. La realtà parla. Il bambino ci dà tutti i segni di cui abbiamo bisogno. Perché lui è dato, ai genitori e a me, a noi, che non possiamo definire il suo destino. Solo Chi l’ha dato sa dove va. A noi è chiesto di osservare e seguire la realtà».
Ci sono stati neonati in comfort care che non sono morti, come da pronostico. Alejandra è nata prematura e una grave infezione le ha distrutto l’intestino. I chirurghi dicevano che c’era solo da aspettare che si spegnesse. «L’abbiamo tenuta due mesi, con il minimo di alimentazione e la morfina ogni due ore. Su ogni cosa devi chiederti: mi accanisco? Per esempio, la ventilazione meccanica: i prematuri possono averne bisogno, finché non respirano da soli. Allora la intubi. E vedi. Il fatto è che lei, ad un certo punto, ha iniziato a respirare da sola e a stare meglio». Oggi Alejandra è ancora viva. E Sandra, la madre, dice che è stata curata «ogni giorno come fosse l’ultimo».
Il rischio e il cenno. Impressiona sentir Elvira dire, a bruciapelo: «Non mi sono mai sbagliata». Non perché ha azzeccato sempre il trattamento. Anzi. Non ci crede nemmeno più che esista la “scelta giusta” o “sbagliata”. «È un’altra cosa seguire la realtà. È un dialogo con il Mistero che la fa. Ma è così tutta la nostra vita: si svolge in un modo che o vuoi condurre tu, e vivi nella totale angoscia, oppure rispondi. Siccome Cristo si è fatto carne, la realtà svela Lui, non ti devi inventare nulla». Metti tutte le tue energie in quel dialogo, e rischi seguendo. Perché l’evidenza con cui la realtà ti parla non è pacifica:?«Per me è sempre molto drammatica, implica la libertà, mia e del genitore. Però mi chiede solo una cosa: la purezza nel guardare la situazione».
La vita e il lavoro così sono una preghiera in atto. Domandare, di continuo, un cenno. Elvira è Memor Domini: «Il mio lavoro è la verifica più grande della mia vocazione», dice: «Se la vocazione è seguire che Gesù è tutto della mia vita, qui vedo la Sua vittoria sul brutto, sul male e sulla morte». È schietta nel parlare del Mistero: «Non è bello non vivere. E quei bambini non vivono, o vivono pochissimo. Io non so il perché, ma vedo la croce di Gesù e la resurrezione». Le tocca, presenti. Come quando ha battezzato le gemelline siamesi prima che morissero.
Sono lì su un lettino, abbracciate e identiche. Lei inizia a fare il segno della croce sulla prima: «Ti battezzo Keela...». Il papà ragazzino le afferra il braccio: «No! Lei è Kayla...». Lo sguardo di quel padre sulle figlie era quello di Dio. «Solo Lui ci ama così. Uno per uno».
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