Andrea Riccardi ha rivelato, in un
suo libro, il contenuto della “deposizione” che il cardinale Carlo Maria
Martini rese al processo per la canonizzazione di Karol Wojtyla.
Le sue
parole hanno fatto una triste impressione, non solo perché egli giudica
inopportuna l’elevazione agli altari di Giovanni Paolo II (desideratissima
invece dal popolo cristiano: avverrà in piazza San Pietro il 27 aprile
prossimo). Ma soprattutto per il modo e per gli argomenti usati.
CRITICHE
C’è chi ha scritto che è stata “la
vendetta del cardinal Martini”, che “opponendosi alla canonizzazione di Papa
Wojtyla si è voluto prendere una rivincita”.
Ma non voglio credere che il
cardinale coltivasse (ri)sentimenti del genere, anche perché proprio Giovanni
Paolo II lo aveva nominato arcivescovo di Milano, lo aveva creato cardinale e –
come Ratzinger – aveva sempre avuto parole di stima personale nei suoi
confronti.
Qualche caduta di stile si nota, però,
nella deposizione di Martini. Il quale critica Wojtyla, fra l’altro, per le sue
nomine, precisando: “soprattutto negli ultimi tempi” (la sua fu una nomina dei
primi tempi).
Inoltre il prelato attacca Giovanni
Paolo II per il suo appoggio ai movimenti ecclesiali. Questo livore martiniano
contro le nuove realtà suscitate dallo Spirito Santo gli impedì di vedere
quanto papa Wojtyla avesse rinnovato la Chiesa, valorizzando i carismi e gli
impetuosi movimenti di rinascita della fede, che sono i veri frutti positivi
del Concilio.
Ci sono anche altre critiche di
Martini, in quella deposizione, che sconcertano. Per esempio afferma che
Giovanni Paolo II si pose “al centro dell’attenzione, specie nei viaggi, con il
risultato che la gente lo percepiva un po’ come il vescovo del mondo e ne
usciva oscurato il ruolo della Chiesa locale e del vescovo”.
Questa desolante considerazione
dimentica che papa Wojtyla dovette confortare nella fede e ridare coraggio a
milioni di cristiani che negli anni Settanta erano perseguitati e incarcerati
in Oriente e umiliati e silenziati in Occidente.
Inoltre i pellegrinaggi di Giovanni
Paolo II dettero un formidabile slancio missionario proprio alle chiese locali
(basti pensare ai sedici viaggi in Africa e alla rinascita della fede che ne è
seguita in quel continente).
Martini riconosce pure qualche lato
positivo a papa Wojtyla, per esempio “la virtù della perseveranza”, ma subito
aggiunge che fu eccessiva perché decise di restare papa fino alla fine:
“personalmente riterrei che aveva motivi per ritirarsi un po’ prima”.
A dire il vero lo stesso Martini,
concluso il suo episcopato milanese, per raggiungimento dell’età canonica,
invece di ritirarsi a vita di preghiera, come aveva annunciato, intensificò il
suo presenzialismo mediatico. E indurì le sue critiche alla Chiesa. Un
comportamento che sconcertò molti fedeli.
D’altra parte il cardinale di
Milano, per tutto il pontificato di Wojtyla (e pure di Ratzinger), è stato
esaltato dai media laicisti come il loro (anti)papa.
E non si può dire che egli abbia
fatto degli sforzi visibili per sottrarsi alle insidiose lusinghe di
anticattolici, mangiapreti e miscredenti. I quali facevano a gara per
osannarlo, intervistarlo e amplificare le sue critiche alla Chiesa.
O CESARE O DIO
Papa Wojtyla – col suo carisma
personale e la sua fede accorata – ha affascinato i popoli, milioni di persone
andavano a cercarlo per ascoltarlo. Però non è mai stato amato dai poteri di
questo mondo. Anzi, è stato letteralmente detestato.
Fin dall’inizio fu bollato come
reazionario, anticomunista, bigotto, “troppo polacco” e via dicendo. Poi –
vista la forza del suo carisma e l’amore che suscitava nelle folle – ritennero
che non conveniva loro opporvisi frontalmente e cercarono di logorarlo in altri
modi.
Ma il grande Giovanni Paolo non ha
mai annacquato la verità. Nel suo amore per Cristo e per gli uomini, ha sempre
chiamato bene il bene e male il male.
Joseph Ratzinger, con la sua recente
testimonianza raccolta da Wlodzimierz Redzioch nel libro “Accanto a Giovanni
Paolo II”, ha insistito proprio su questo:
“Giovanni Paolo II non chiedeva
applausi, né si è mai guardato intorno preoccupato di come le sue decisioni
sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue
convinzioni, ed era pronto anche a subire colpi. Il coraggio della verità è ai
miei occhi un criterio di primo ordine della santità. Solo a partire dal suo
rapporto con Dio è possibile capire anche il suo indefesso impegno pastorale.
Si è dato con una radicalità che non può essere spiegata altrimenti”.
Ratzinger già alla morte di Paolo
VI, il 10 agosto 1978, disse:
“un Papa che oggi non subisse
critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha
resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente.
Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e
l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede”.
Infatti, diventato lui stesso papa,
Benedetto XVI, indifesa dei piccoli e dei poveri denunciò “la dittatura del
relativismo”. E sempre affermò che il ministero di Pietro era legato al
martirio.
Un martirio fisico per i papi dei
primi tre secoli. Un martirio morale per i papi di oggi (ma Wojtyla sparse
anche il suo sangue).
Non che i cristiani debbano cercare
l’odio del mondo, ovviamente. Ma le “potenze dittatoriali” delle ideologie o
del nichilismo sono realtà e minacciano o condizionano pesantemente la Chiesa.
Gesù stesso nel discorso della
montagna aveva ammonito i suoi a restare liberi e sottrarsi ai condizionamenti:
“Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc 6,
24-26).
I veri discepoli di Gesù infatti
sono segno di contraddizione per i poteri mondani:
“Se foste del mondo, il mondo amerebbe
ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo (…) il mondo vi odia. Se
hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 16, 18-20).
Gesù arrivò a indicare ai suoi
questa beatitudine:
“Beati voi quando gli uomini vi
odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il
vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel
giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei
cieli” (Lc 6, 20-23).
Non significa che si debba cercare
la persecuzione, ma che non si deve essere succubi dei poteri e delle ideologie
di questo mondo. Pietro deve sempre insegnare che fra obbedire a Cesare e
obbedire Dio, bisogna scegliere Dio.
FRANCESCO E I MEDIA
E non basta nemmeno dichiarare apertamente
la scelta giusta, perché la “dittatura” del “politically correct” è insidiosa.
Esemplare e inquietante è il modo in cui si piegano certe frasi di papa
Francesco verso questo “pensiero unico”.
Mentre vengono ignorati certi suoi
interventi molto decisi, come quelli di venerdì scorso, contro l’aborto,
l’eutanasia e per la famiglia naturale uomo-donna (“occorre ribadire il
diritto del bambino a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma capaci
di creare un ambiente idoneo al suo sviluppo e alla sua maturazione affettiva.
Continuando a maturare in relazione alla mascolinità e alla femminilità di un
padre e di una madre”).
Il Papa – in chiaro riferimento
all’attualità – ha anche invitato a “sostenere il diritto dei genitori
all’educazione morale e religiosa dei propri figli. A questo proposito” ha
aggiunto “vorrei manifestare il mio rifiuto per ogni tipo di sperimentazione
educativa con i bambini. Con i bambini e i giovani non si può sperimentare. Non
sono cavie da laboratorio! Gli orrori della manipolazione educativa che abbiamo
vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX non sono spariti;
conservano la loro attualità sotto vesti diverse e proposte che, con pretesa di
modernità, spingono i bambini e i giovani a camminare sulla strada dittatoriale
del “pensiero unico’ ”.
Nella notte del “pensiero unico”
queste parole sono luce e libertà per tutti come lo sono state quelle di
Wojtyla e Ratzinger.
Antonio Socci
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