Il libro “Ubi fides ibi libertas. Scritti in onore di Giacomo Biffi” (Ed.
Cantagalli, pag. 350, € 18) è stato presentato ieri a Bologna nella Biblioteca
dell'Archiginnasio. Il libro è composto da una serie di scritti, tra cui quelli
di Papa Francesco, Benedetto XVI, Angelo Bagnasco, Angelo Scola, Carlo
Caffarra, Matteo Maria Zuppi, Luigi Bettazzi, Giorgio Guazzaloca, Marcello
Pera, Luigi Giussani. A un anno dalla morte dell'indimenticabile “italiano
cardinale”, per gentile concessione dell'editore, proponiamo ai lettori della
“Nuova Bussola” un estratto del contributo al libro di Giuliano Ferrara, già
Direttore del quotidiano “Il Foglio”.
«...Come memorialista e critico letterario, nelle Memorie di un italiano
cardinale o negli scritti su Collodi e sul Risorgimento, Biffi seppe essere
witty, seppe fecondare con lo humour del suo occhio scrutatore e del suo
spirito di grandissimo moralista un discorso anche pubblico sull’incontro e sul
conflitto tra cristianesimo e modernità. Si occupò con trasparenza, figlio di
un papa Giovanni, di un Paolo, di due Giovanni Paolo e di un Benedetto, del
profilo laico, ma sanamente laico, della politica e della storia contemporanea....
Disse che Cristo negli anni della predicazione era ricco e amico di ricchi. Che il dubbio è parte costitutiva
della persona umana (a dubitare ci arrivo da solo, aggiungeva) ma la funzione
della Chiesa è diffondere, elaborare, garantire certezza. Che l’anticristo di
Solovev era un pacifista, un vegetariano pieno di buoni sentimenti. Che nessuna
ecologia è credibile se non parta dall’abbraccio a una visione intransigente di
ciò che è difesa della vita. Che essere chiamati integralisti, per i cattolici
seri, può equivalere a essere chiamati cristiani. Ebbe parole di fuoco sacro
contro la demolizione della fede dall’interno, intesa come costrizione dei
semplici a diventare cattolici adulti. Derise i falsi profeti non di sventura
ma di serenità e di ore tranquille imminenti. Gli attentati alla libertà di
giudizio cominciano dal linguaggio, disse, e così chiosò la prevalenza del
politicamente corretto. Si scatenò con bonaria ferocia contro coloro che a
forza di comprensione e dialogo non riuscivano più a denunciare
l’intossicazione della fede cristiana e del suo sostrato di cultura e di civiltà.
Ma tutto questo, e molto, moltissimo altro ancora, non era mai disgiunto da una
benevolenza vera verso le persone, verso gli erranti, verso coloro che potevano
essere censurati con la nota vivacità ma sempre restavano, e non solo nel loro
cuore ma nel cuore di Biffi che li segnava a dito, uomini di Dio. Non era un
pedante, non voleva una Chiesa prescrittiva e moralistica nel senso della
teologia morale ormai ossificata, ma assertoria e sicura di sé nel suo
magistero di umanità e di divinità. Nelle conversazioni con l’emerito era
spettacolare la sua irruenza, la sua secchezza chiara e distinta
nell’eliminazione dell’equivoco, non meno della sua carezzevole sicurezza del
fatto che nella Chiesa si ama e si è amati in un modo speciale, tutto proprio,
il che naturalmente rendeva effervescente e a suo modo santa, per uno come me
che stava fuori dalla Chiesa in senso tecnico, la vitalità di idee e di
sentimenti che si godeva intra muros.
Biffi parlava della Madonna con un fondo lacrimale che non stingeva le linee diritte
del discorso, e considerava la fede come la quintessenza che qualcuno doveva
pur alchemicamente distillare, compito non bigotto ma umanistico, non mistico
ma di razionalismo cristiano. Con i razionalisti immanentisti, negatori di ogni
possibile trascendenza, aveva nulla da spartire. Con chi credeva nella
possibilità della fede e nella Rivelazione come origine del mondo cristiano,
come notizia, come scrittura e sacra doctrina, sapeva tenere il
timone della discussione su una rotta appunto laica e sempre risonante di idee
storiche, di atteggiamenti non fideisti.
Insomma, il Cardinale esercitava una paternità indicibilmente autorevole, dava un senso liturgico, inteso
come convocazione continua del creato di fronte al mistero del suo essere
creato, anche alle polemiche del basso mondo. E finì con quella splendida
predicazione degli Esercizi Spirituali, sentendo e facendo sentire alla corte
teologico-papale di Benedetto XVI la voce immensamente allegra e annunciatrice
dei cherubini. Un testo di tale bellezza, estroversione, e caratura letteraria,
che mi sembrò giusto, opportuno, pubblicarlo su un piccolo giornale quotidiano,
di cui portavo la responsabilità, come testamento di un prete pieno di
immaginazione, di obbedienza, di fede e di amore del mondo nel senso in cui il
mondo può essere amato da un principe della Chiesa. Pubblicarlo integralmente,
certo, e forse anche integristicamente».
Giuliano Ferrara
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