Nell’attuale desolante panorama del mondo
cattolico è davvero raro, purtroppo, trovare voci coraggiose e intelligenti.
Una di queste è senz’altro quelle di Stefano Fontana, direttore
dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina sociale
della Chiesa.
Rileggevo qualche giorno fa un suo splendido intervento pubblicato sulla Nuova Bussola Quotidiana lo scorso gennaio, dal titolo “Il ‘pastoralismo’, malattia infantile del catto-pietismo”. Con malinconica tristezza ho dovuto rilevarne la drammatica verità e, soprattutto, la cocente attualità, a seguito dell’approvazione definitiva della legge sul simil-matrimonio omosessuale. Fontana ha avuto l’indubbio coraggio di dare un nome e cognome a quella grave patologia cui è affetta oggi la Chiesa italiana, e che rappresenta la causa principale della sua odierna paralisi. In questo, ha seguito l’insegnamento di San Giovanni Paolo II, per cui «occorre avere più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno» (EV n.58). Sante parole, oggi quasi completamente dimenticate soprattutto “intra Ecclesiam”.
La malattia che Stefano Fontana denuncia si chiama “pastoralismo”. Dieci sono i suoi effetti diretti e collaterali. Tutti devastanti.
Rileggevo qualche giorno fa un suo splendido intervento pubblicato sulla Nuova Bussola Quotidiana lo scorso gennaio, dal titolo “Il ‘pastoralismo’, malattia infantile del catto-pietismo”. Con malinconica tristezza ho dovuto rilevarne la drammatica verità e, soprattutto, la cocente attualità, a seguito dell’approvazione definitiva della legge sul simil-matrimonio omosessuale. Fontana ha avuto l’indubbio coraggio di dare un nome e cognome a quella grave patologia cui è affetta oggi la Chiesa italiana, e che rappresenta la causa principale della sua odierna paralisi. In questo, ha seguito l’insegnamento di San Giovanni Paolo II, per cui «occorre avere più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno» (EV n.58). Sante parole, oggi quasi completamente dimenticate soprattutto “intra Ecclesiam”.
La malattia che Stefano Fontana denuncia si chiama “pastoralismo”. Dieci sono i suoi effetti diretti e collaterali. Tutti devastanti.
- Il pastoralismo ha fatto dire a tanti vescovi e
sacerdoti che le manifestazioni di piazza rompono il dialogo e non
costruiscono.
- Il pastoralismo ha fatto pensare a molti che non
bisogna più intervenire sulle leggi, ma solo sulle coscienze delle
persone.
- Il pastoralismo ha fatto pensare che la Chiesa
debba solo formare – chissà poi chi, dove e come –, per lasciare, poi, che
ognuno possa entrare nella pubblica piazza con la propria coscienza.
- Il pastoralismo ha fatto ritenere a tanti preti
che la Chiesa non debba dire mai di no, ma piuttosto accompagnare tutti e
sempre.
- Il pastoralismo ha fatto credere che una presa di
posizione contro l’omosessualità toglierebbe spazio alla pastorale delle
situazioni di frontiera, tra cui quella delle persone con tendenze
omosessuali.
- Il pastoralismo ha fatto ritenere che scendendo
sul terreno delle leggi civili la fede cattolica diventi ideologia.
- Il pastoralismo ha impedito a tante comunità
cattoliche di trattare certi temi, perché troppo carichi di valenze
politiche e quindi potenzialmente divisivi.
- Il pastoralismo ha indirizzato tante Diocesi a
trattare certi temi, ma con l’intervento di tutte le opinioni in campo e
senza prendere posizione.
- Il pastoralismo, col pretesto di non precludere
la via dell’azione pastorale, ha bloccato ogni azione, rendendo, di fatto,
la Chiesa molto pastorale, ma per questo afasica e aprassica.
- Il pastoralismo ha fatto credere che non solo noi, ma anche Dio debba astenersi dal giudicare le situazioni e i comportamenti, perché giudicando impedirebbe l’incontro pastorale con tutti. Al punto che – come giustamente sottolinea Fontana – nemmeno una legge si può giudicare, perché in questo caso la fede diventerebbe dottrina imposta e impedirebbe la pastorale: giudicata male una legge, ti tagli i rapporti con coloro che invece in quella legge credono. Ma in questo modo si evidenzia in maniera inequivocabile che «il pastoralismo è senza verità, perché senza giudizio non c’è più verità».
Il pastoralismo denunciato da Fontana
ricorda in modo impressionante la tragica esperienza della “scelta religiosa”
dell’Azione Cattolica di Alberto Monticone negli anni ’80 del secolo scorso.
Quella scelta, che si rivelò presto sciagurata, fu duramente condannata e contrastata dal mio Maestro don Luigi Giussani. Ricordo ancora la sua magistrale lezione sul punto:
Quella scelta, che si rivelò presto sciagurata, fu duramente condannata e contrastata dal mio Maestro don Luigi Giussani. Ricordo ancora la sua magistrale lezione sul punto:
«Non possiamo essere nella società
reagendo soltanto quando la contraddizione è troppo forte. È ciò a cui si è
rassegnata molta cristianità italiana, essendoci nella società, cercando di
esserci nella società soltanto quando è chiamata alle elezioni (ogni cinque
anni). Certo cattolicesimo italiano non ha fatto nient’altro che questo -
niente altro che questo! -, gestendo voti in modo scervellato, senza
intelligenza e senza cuore, vale a dire senza una identità capace di progetto:
tutto è stato sperperato e adesso si teorizza la scelta religiosa, per cui non
dovremmo più interessarci della politica come cristiani». «D’altra parte»,
concludeva Giussani, «se noi reagiamo soltanto quando la contraddizione è
troppo forte, se dovessimo aspettare a reagire quando, come dire, ci
chiamassero tutti in tribunale per le nostre convinzioni religiose, se
dovessimo aspettare solo quando la contraddizione è così forte, saremmo
realmente indegni di respirare e di vivere».
Si sente davvero la mancanza, oggi, di Maestri così.
tratto da "cultura cattolica"
http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=17&id_n=38762
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