di Luca Ricolfi
Domenica 26
Giugno 2016
Il 24 giugno è San
Giovanni, patrono di Torino. Quindi per la città è giorno di festa, e succede
che si passi una serata con amici e conoscenti, a chiacchierare del più e del
meno e a guardare i fuochi d’artificio.
Quest’anno però era
diverso, a tenere banco erano solo due argomenti: la caduta di Fassino per mano
di una neo-sindaca grillina (Chiara Appendino), e il capitombolo dell’Europa
sotto i colpi del Brexit. E i discorsi?
ECCO CHI COMANDA |
Un po’ di tutto, ma
quello che più mi ha colpito, un po’ girando per i siti un po’ parlando con le
persone che conosco (quasi tutte favorevoli a Fassino e al «Remain»), è il tratto
che li accomunava: l’animosità contro il suffragio universale. Il discorso più
moderato che ho sentito suggeriva che i referendum dovrebbero essere indetti
solo su materie semplici e comprensibili (tipo: sei pro o contro i matrimoni
gay?) e che il referendum sul Brexit proprio non si doveva fare.
I più estremisti
suggerivano drastiche limitazioni del suffragio: per votare si dovrebbe almeno
avere la licenza media (ma c’è anche chi dice: la laurea); oppure: per votare
si devono avere meno di 70 anni. In breve: a vecchi e ignoranti bisognerebbe
togliere il diritto di voto.
Trovo tutto ciò
estremamente interessante. Non per il contenuto di simili pensieri, ma per i
soggetti da cui provengono.
Gli stessi che parlano con sufficienza, talora con
disprezzo, del popolo che vota Cinque Stelle o sceglie Brexit, sono prontissimi
a lodarne la saggezza, la maturità democratica, la lungimiranza, quando il
popolo vota nel modo giusto.
Gli stessi che invocano ad ogni occasione la
necessità di passare dalla fredda Europa dei tecnocrati, autoritaria e
burocratica, alla calda Europa dei popoli, luminosa e democratica,
immancabilmente si spaventano non appena, con un referendum, ai popoli vien
concesso di dire la loro su qualcosa di importante.
Insomma, qui c’è qualcosa che
non torna, innanzitutto sul piano logico. E questo qualcosa, ho l’impressione,
ha a che fare proprio con il concetto di popolo.
La condizione del
popolo, oggi in Europa, è strana e deplorevole. Non tanto perché il popolo è il
popolo, e quindi per definizione è il “basso” del sistema sociale, ma perché il
suo rapporto con la politica è innaturale e disturbato. In molti paesi europei,
verosimilmente in tutti quelli di matrice occidentale, accade un fenomeno
inedito: i partiti progressisti affermano di voler rappresentare le istanze del
popolo, ma il popolo non li vota, preferendo ad essi i movimenti e partiti
cosiddetti populisti, siano essi di destra, di sinistra o incollocabi l:i (come
il Movimento Cinque Stelle). E viceversa i ceti medi impiegatizi, gli insegnanti,
gli intellettuali, gli artisti, i professionisti, persino molti imprenditori e
manager preferiscono votare i partiti progressisti, o quel che resta dei
partiti conservatori tradizionali. Insomma un vero quadrilatero amoroso
disturbato: la sinistra dice di amare il popolo, ma il popolo non ama più la
sinistra. I ceti alti e medi prediligono la sinistra, che però dice (o finge?)
di rappresentare i ceti bassi.
La questione
interessante a me pare questa: sbagliano i benestanti a guardare a sinistra? E sbaglia
il popolo a guardare altrove?
La mia risposta è che,
tutto sommato, i benestanti fanno benissimo a prediligere questa sinistra, che
è molto attenta alle loro esigenze e molto distratta su quelle di chi sta in
basso, quelli che io amo definire “i veri deboli”: incapienti, artigiani,
lavoratori autonomi, lavoratori in nero, disoccupati, esclusi dal mercato del
lavoro, abitanti delle periferie. Sarei meno sicuro che sia anche vero il
reciproco, ossia che facciano bene i ceti bassi a fidarsi dei partiti
populisti.
Per certi versi, mi
pare che facciano male. I due fronti che si osteggiano in Europa, a me paiono
afflitti entrambi da mancanza di visione, e da una formidabile inadeguatezza
delle rispettive classi dirigenti. Se il Brexit ha vinto è innanzitutto perché
gli uomini (e le donne!) che contano in Europa, non sono stati all’altezza del
sogno di Altiero Spinelli. Ma una volta messi da parte Juncker, Hollande,
Merkel, Renzi, Cameron, possiamo pensare che a farci sognare siano Marine Le
Pen, Farage, Grillo o Salvini? Di per sé, l’idea di un’Europa delle Nazioni,
senza la Gran Bretagna ma estesa “dall’Atlantico agli Urali” non è affatto
insensata o peregrina, e risale addirittura alla fine degli anni ’50, quando de
Gaulle ebbe a formularla per la prima volta. Il guaio è che alla guida della
destra in Europa non c’è un de Gaulle, ma solo (per ora) una modesta squadra di
agitatori politici, che una volta al potere potrebbero anche farci rimpiangere
la sbiadita classe dirigente europea di oggi: insomma l’establishment europeo
deve accontentarsi della signora Merkel («l’unico uomo di Stato europeo»,
copyright Massimo Fini) ma dall’altra parte non è ancora nato un nuovo de
Gaulle che sappia prenderne il posto.
Se però guardiamo le
cose da un altro punto di vista, quello dell’economia e della politica sociale,
non sono così sicuro che la fiducia del popolo nei partiti populisti, e
soprattutto la sua sfiducia nei partiti progressisti che vorrebbero
rappresentarlo, non siano tutto sommato ben riposte. Non sono così sicuro, in
altre parole, che sia fondata l’accusa che, sotto sotto, benpensanti e
governanti illuminati rivolgono al popolo, ossia di essere cieco e
abbindolabile, fino al punto di votare contro i propri interessi. È vero, le
campagne populiste hanno puntato il grosso delle loro carte sulla paura per gli
immigrati, visti come temibili concorrenti in materia di posti di lavoro e
accesso al welfare, ma anche come fonte di disordine e di insicurezza per la
loro specializzazione in alcune materie criminali, come il furto, il traffico
di droga, lo sfruttamento della prostituzione.
A tutto ciò l’Europa
civile e illuminata ha saputo opporre soltanto l’imperativo morale
dell’accoglienza, il valore superiore dell’inclusione sociale, e talora anche
il disprezzo per chi ha paura, accusato di basarsi su mere percezioni, distorte
dalla propaganda e dalla credulità, anziché sulla cruda realtà delle cifre
statistiche (vedi le ricorrenti polemiche su criminalità reale e percepita).
Non hanno pensato, i dispregiatori del popolo e delle sue paure, che la maggior
parte di coloro che di paura non ne hanno (o ne hanno poca, o sanno dominarla
con la ragione) vivono in zone protette, o comunque non degradate, delle nostre
affluenti società moderne. Soprattutto, non hanno pensato, i rieducatori del
popolo rozzo e credulone, di consultarle davvero, le statistiche sulla
criminalità e l’immigrazione in Europa (si veda il grafico in pagina). È un
lavoro difficile, perché i dati sono lacunosi e le fonti vanno integrate e
raccordate, ma non è impossibile farlo. E se lo si fa, il quadro che emerge non
dà così torto al popolo ingenuo ed ignorante. Secondo la ricostruzione della
Fondazione David Hume, su 28 paesi europei per cui si hanno dati, il tasso di
criminalità relativo degli stranieri è sempre (tranne in Irlanda e in Lettonia)
superiore rispetto a quello dei nativi. In media gli stranieri delinquono 4
volte di più, con punte di 12 in Grecia, 7 in Polonia, 6 in Italia, 5 nelle
civilissime Svezia, Austria, Olanda.
Che dire?
Forse il popolo non fa
bene a fidarsi delle forze populiste, che talora alimentano i peggiori
sentimenti dell’animo umano. Ma forse il popolo, più che fidarsi dei populisti,
non sa a chi altri affidarsi, e votandoli fa una scommessa tanto scettica
quanto disperata. Più che credere negli agitatori anti-sistema, il popolo pare
diffidare dell’élite illuminata che lo rispetta quando “fa la cosa giusta”, e
ne prende commiato quando fa quella sbagliata.
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