Giuseppe Frangi il sussidiario.net
In tempi di coronavirus, Camus
invita non darsi per vinti davanti a quel nemico astratto (“La peste”) che
pregiudica la possibilità di felicità per gli uomini
In questi
giorni di coronavirus scattano anche automatismi intelligenti:
la classifica di vendite di Amazon ad esempio rivela che un grande libro
come La peste di Albert Camus è entrato nella classifica dei libri più venduti. C’è
davvero da sperare che le persone lo leggano. La peste è un grande libro che
Camus scrive tra 1941 e 1946, mentre attraversa la cupa esperienza della
Francia assediata dalle truppe hitleriane.
Bruegel il Vecchio, Il trionfo della morte, Il Prado, Madrid |
È un libro in cui, fatte le debite
proporzioni, si possono trovare tante coincidenze con la situazione che parti
di Italia stanno vivendo in questi giorni: le città chiuse, l’incontrollabilità
del contagio, l’improvvisazione nell’organizzazione dei soccorsi, la girandola
fuori controllo delle informazioni, la ricerca affannosa della medicina in
grado di fermare l’epidemia.
Il virus nel libro di Camus ha la forma di topi che infestano in modo
inesorabile la città in cui la storia è ambientata, Orano. Ma quello che rende
interessante e quasi necessaria la lettura della Peste è la
ragion d’essere di questo libro: Camus lo
scrive non perché gli interessi documentare un incubo, ma all’opposto perché
gli interessa testimoniare la possibilità di un antidoto.
Se La peste è nella sostanza una metafora che fotografa la
caduta morale di un popolo e di una comunità umana, la risposta di Camus è una
risposta radicalmente antinichilista.
Non si affida alle ideologie, ai proclami, agli eroismi e neanche ai santi,
data la sua matrice laica. Si affida allo sguardo del narratore, il dottor
Bernard Rieux, che con pragmatismo e assoluta dedizione affronta questa
battaglia che per lui è insieme professionale e umana. Rieux attraversa il
tunnel della peste rimboccandosi le maniche, senza mai tirarsi indietro, mosso dalla coscienza del suo compito ma
insieme desideroso di cercare un perché. Il perché, scrive Camus, “di
quella tetra lotta tra la felicità di ogni uomo e l’astratto della peste”.
La peste è dunque un “astratto”,
cioè una negazione dell’umano. E contro questo nemico il dottor Rieux combatte senza massimalismi: “Non
ho inclinazione per l’eroismo e la santità”, dice di sé. “Essere un uomo, questo mi interessa”. Riconosce che per lui la peste è
professionalmente “un’interminabile sconfitta”. Ma questo non lo esime dal
fare come “il minimo prete di campagna, che amministra i suoi parrocchiani e ha
sentito il respiro dei moribondi: cura la miseria prima di volerne dimostrare
la perfezione”.
Camus è uno scrittore ostinatamente umano (“in mezzo ai flagelli si impara che ci sono negli uomini più cose da
ammirare che non da disprezzare”, scrive) e in questo rappresenta qualcosa
di davvero unico nel panorama della cultura europea del 900.
La squadra che nel libro agisce, insieme a Rieux, nello scenario della
peste è mossa dalla sua stessa ostinazione a non darsi per vinti davanti a quel nemico “astratto” che pregiudica la
possibilità di felicità per gli uomini.
Poco alla volta nel corso del libro in Rieux si fa largo timidamente la
luce di una consapevolezza rivelatrice.
Scrive Camus: “Rieux sapeva che un
mondo senza amore era come un mondo morto e che viene sempre un’ora in cui ci
si stanca delle prigioni, del lavoro e del coraggio, per domandare il viso
d’una creatura e un cuore che l’affetto riempie di stupore”.
Le pagine finali del libro, con i fuochi d’artificio che nella notte
illuminano il cielo di Orano e riempiono di allegria le persone nel festeggiare
la fine della peste, sono la rappresentazione di un desiderio che è nel cuore di ogni uomo, a cominciare
evidentemente dal nostro di uomini nella morsa del Covid-19.
Ma è felicità affidabile, avvisa con realismo e con amore Camus per bocca
del suo dottore, se non si smarrisce la
consapevolezza che “questa non può essere la cronaca di una vittoria
definitiva”.
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