venerdì 30 giugno 2023

AMERICA: NON È UN PAESE PER VESCOVI

Caso Strickland: i vescovi non allineati finiscono male

La diocesi texana di Tyler riceve una visita apostolica. Cosa non va NELLA GESTIONE DI MONS. JOSEPH STRICKLAND? Finanze ok, seminario pieno, ma è guidata da un presule loquace e schietto: critico sul sinodo, non le manda a dire nemmeno al Papa (che apprezza la parresia, almeno a parole).

Si è conclusa la visita apostolica alla diocesi texana di Tyler, disposta dal Dicastero dei Vescovi e condotta da due presuli emeriti, mons. Gerald Kicanas e mons. Dennis Sullivan, interpellando clero e laici. In attesa del verdetto ci si chiede quale sia il "movente". Cosa c’è che non va in una diocesi che – stando ai dati riferiti da Catholic News Agency – ha una buona situazione finanziaria e un numero di aspiranti preti superiore alla media?

Mons. Joseph Strickland

Forse a non andar bene oltretevere è proprio il vescovo: mons. Joseph Strickland, 64 anni, che dal 2012 siede sulla cattedra di Tyler. Se da un lato la diocesi non ha rilasciato comunicati in merito e «al momento lo scopo immediato della visita è ignoto», scrive Church Militant, non è un mistero che Strickland abbia «certamente irritato membri di alto rango della gerarchia difendendo il deposito della fede e condannando le opinioni più eterodosse di vari altri prelati». È sufficiente dare uno sguardo all’account twitter del loquace e schietto vescovo per capire che non lo si può proprio definire propriamente “allineato” al clima ecclesiale dominante.

È dedicato a Nancy Pelosi il più recente tweet (al momento in cui scriviamo): mons. Strickland prega che il cuore della ex-speaker nota per le posizioni abortiste sia distolta «dalle vie della morte e abbracci la via del Signore della vita». Netta l'opposizione al “pride” e alle lobby Lgbti (con tanto di frecciate all’indirizzo del presidente Biden e del gesuita-arcobaleno James Martin più volte elogiato dal Santo Padre). Aggiungiamo la lettera critica rispetto all’approccio vaticano sul vaccino. Oltre naturalmente alla chiara riaffermazione della spiritualità “classica”, per esempio sul Rosario o sull’Eucaristia.  

Schietto anche di fronte a Pietro e senza per questo disconoscerne l’autorità: Strickland chiarisce che «papa Francesco è il Papa» (di fronte a chi non lo considera tale) ma aggiunge «per me è il momento di dire che rifiuto il suo piano che mette a repentaglio il deposito della fede» – per esempio, per quel che riguarda il sinodo. Infine ecco la recente riscoperta della liturgia tradizionale che mons. Strickland ha celebrato per la prima volta nel 2020 (la sua testimonianza è riportata nel blog Messainlatino) che fa del suo un curriculum ecclesiale decisamente "indietrista", pertanto poco apprezzato a Santa Marta e anche dal neo-prefetto del Dicastero dei Vescovi, mons. Robert Francis Prevost, che provenendo proprio dagli Usa si presume che avrà una particolare sollecitudine nel “normalizzare” l’episcopato a stelle e strice.

Per ora la diocesi di Tyler non ha emesso comunicati, il vescovo non vuol farne un affare di Stato e sarebbe persino «fiducioso» riguardo all’esito della visita, secondo una fonte di The Pillar; secondo un’altra invece, durante la visita è stato anche toccato il tema di un possibile sostituto. Se così fosse, anche mons. Strickland si aggiungerebbe alla lista dei “Disoccupati di Santa Romana Chiesa”, che da poco annovera mons. Georg Gänswein, accomunati da una visione più o meno critica del trend dominante dal 2013, tutto teso a “innescare processi” purché vadano nella direzione voluta (il problema è che innescando processi va da sé che si inneschino inevitabili attriti).

Stando sempre alle fonti di The Pillar, non è certo il tweet sul Papa ad aver fatto scattare la visita: del resto sarebbe alquanto surreale venire “attenzionati” dal Dicastero per un tweet, ma lo sarebbe ancor di più subire una visita apostolica per aver ripetuto ciò che la Chiesa ha sempre detto in materia, per esempio, di matrimonio e famiglia (tanto più all'epoca del "laboratorio" tedesco, che al di là di qualche bonario rimprovero resta libero di continuare a sperimentare e sovvertire tutto il possibile). Non si ricorderà mai a sufficienza che persino le voci critiche del pontificato ratzingeriano erano libere di parlare al tempo del cosiddetto “pastore tedesco”, senza mai venir bollati come “nemici del Papa” (espressione oggi ricorrente sulla bocca degli antipapali di ieri).

Quale che sia il destino di mons. Strickland, certo è che da tempo l’episcopato dovrebbe essere incluso tra i “mestieri usuranti: a Dio spiacenti e a’ nimici suoi, e talora pure dentro le sacre mura, aumentano i vescovi che sotto il peso del burnout episcopale si dimettono anzitempo rispetto ai canonici 75 (il caso più eclatante l’anno scorso è stato quello del vescovo di Lugano); qualcuno addirittura si pente di aver accettato la nomina (come il francese Ivan Brient) e si affretta a firmare la rinuncia prima dell’ordinazione, evitando che gli venga imposta sul capo una mitra che prima ancora di indossarla pesa quanto una corona di spine.

Due nomine curiose in questi giorni hanno evidenziato quanto sia instabile la cattedra episcopale: in Francia due ordinari sono stati retrocessi ad ausiliari lunedi 26 giugno. Si tratta di mons. Thierry Brac de la Perrière, che rinuncia al governo pastorale di Nevers e diviene ausiliare di Lione. E mons. Jean-Pierre Batut, non più vescovo di Blois ma dall’altro ieri ausiliare di Tolosa. Il primo è reduce da un periodo sabbatico per carenza di forze (altra illustre vittima del bournout). Del secondo, mons. Batut, non si sa molto, se non che il Santo Padre lo ha sollevato dal governo per sua richiesta («à ma demande», scrive nella lettera di congedo). Particolare curioso: al momento della nomina episcopale mons. Batut proveniva dalla parrocchia parigina di Saint-Eugène-Sainte-Cecile, dove si celebra in rito tradizionale (liturgia che il presule non ha dimenticato neanche da vescovo).

Sempre in Francia resta in attesa di verdetto romano la diocesi di Frejus-Toulon guidata da mons. Dominique Rey, cui dall’anno scorso la Santa Sede ha imposto di sospendere le ordinazioni. Neanche i vescovi possono più contare sul sospirato "posto fisso", specie se disallineati.

Stefano Chiappalone, La nuova Bussola

Leggi anche - Contro Woelki i media, i vescovi e ora anche la poliziadi Nico Spuntoni

Sempre sul tema in generale si può leggere (anche se datata)

https://lanuovabq.it/it/il-papa-esclude-le-dimissioni-e-da-un-colpo-a-cordileone

 

martedì 27 giugno 2023

SIMONE WEIL, INTERPRETE DEL MONDO DI OGGI

 di Marcello Veneziani

 SIMONE WEIL E UN'IDEA DELL'EUROPA

L’estate del ’43 fu densa di eventi drammatici e decisivi nella storia della guerra mondiale. Nell’estate del ’43 lasciava la terra un’esile, anoressica creatura, di trentaquattro anni, che poi sarebbe stata riconosciuta come la più grande pensatrice del secolo.

Al tempo apparve come una marginale e stravagante martire di una religione ignota, tra il pensiero e la mistica, né cristiana né ebraica anche se profondamente partecipe di ambedue e del pensiero classico.

Eppure quella ragazza dallo sguardo miope, un gran paio d’occhiali e un sipario di capelli che scendevano sul viso come una tenda canadese, ha espresso il grido dell’Europa nella catastrofe bellica.

 Di Simone Weil credo di aver letto tutto, e non è poco, nonostante la breve parabola della sua vita. Tante opere, tanti quaderni, copiosi carteggi, varie biografie. Forse è inappropriato ricordarsi di lei per il suo ottantesimo anniversario, soffermandosi su uno scritto decisamente minore e imbevuto dal clima tempestoso di quei giorni, mentre Simone collaborava da Londra a France Libre del Generale De Gaulle. 

Lei pensatrice della grazia, della purezza e dell’attenzione; lei così distratta e celeste che si cura delle vicende terrene, delle guerre, dei regimi, delle colonie. “Sul colonialismo”(ed. Medusa) è un testo di poche pagine che precede di pochi mesi la sua morte e s’intreccia a un altro ben più noto, scritto nel ‘43, L’enracinement, tradotto da noi col titolo “La prima radice”, che è il canto più intenso del radicamento, dell’amor patrio, della tradizione e dell’onore, scritto da un’autrice che pure veniva da esperienze socialiste e sindacali, anarchiche e trotzkiste. Molte tra le sue più belle pagine le dobbiamo alla cura amorevole di uno scrittore cattolico e tradizionalista, Gustave Thibon, suo amico di pensiero e filosofo di campagna. In Italia fu amata tanto dal marxista Franco Fortini, suo traduttore, che dal cattolico tradizionale Augusto del Noce che le dedicò un acuto saggio poi rifuso ne L’epoca della secolarizzazione.

In queste pagine Simone Weil in pieno flagello bellico “vede” l’Europa ventura, come la sanno vedere solo gli spiriti profetici e le menti illuminate, separando il furore del presente dal nesso profondo che lega passato a futuro. Nota tre o quattro cose essenziali ma inavvertite nel frangente della guerra.


La prima: il veleno dello scetticismo, alla stregua della tubercolosi (un paragone che sente sulla sua pelle), “attecchisce in modo più virulento in un terreno fino a poco prima indenne…a contatto nostro si fabbrica una specie d’uomini che non crede a nulla”.

Weil denuncia poi la scomparsa simultanea dell’ideale e del reale, l’avvento del nichilismo sociale, la perdita del senso e del soprannaturale come malattia dell’Europa. E quella perdita la identifica con l’oblio del passato: “la perdita del passato è proprio la caduta nella servitù coloniale”. Il passato è il deposito di tutti i tesori spirituali; e ripete quel che scrive ne L’enracinement: “La perdita del passato equivale alla perdita del soprannaturale”. Il passato è una cosa che, nota la scrittrice, una volta persa completamente, non si ritrova più. L’uomo non può fabbricarsi il passato, può solo conservarlo. La colonizzazione priva i popoli della loro tradizione e quindi della loro anima.

La difesa del passato si unisce in lei a una profezia: le nazionalità in Europa saranno insidiate dalla frammentazione, dai localismi e dalle patrie regionali, schiacciate tra “scale molto più piccole e scale molto più grandi”, tra il locale e il globale. Nel colonialismo inflitto ai popoli extraeuropei la Weil legge il destino del colonialismo di cui sarà a sua volta vittima l’Europa. L’Europa, scrive la Weil, è una specie di media proporzionale tra l’America e l’Oriente, sovietico e non solo.

Noi europei siamo nel mezzo, letteralmente mediterranei; siamo il perno, solo l’equilibrio annulla la forza. Proiettate questi pensieri nel presente, nell’Europa che fugge la propria identità e la propria civiltà, schiacciata sulle posizioni Usa nel conflitto in Ucraina, che non capisce il suo ruolo centrale tra Oriente e Occidente.


E’ uscito in questi giorni un libro su Simone Weil volontaria nella guerra di Spagna, “La volontaria” di Adrien Bosc (Guanda) sull’esperienza nella guerra civile spagnola e il suo carteggio con Georges Bernanos, scrittore reazionario che militava dalla parte opposta alla sua, con i franchisti. Bernanos narra con ribrezzo le violenze dei suoi camerati; e la scrittrice rivoluzionaria, militante tra gli anarco-operaisti e marxisti, racconta le crudeltà compiute dai suoi compagni su preti, suore e fascisti. Un carteggio esemplare per il cavalleresco amore per la verità, a danno della propria parte, che dovrebbero studiare i faziosi e accecati partigiani odierni.

In quel carteggio Simone racconta in una lettera a Bernanos che la banda anarco-comunista a cui si era aggregata aveva catturato un ragazzo fascista di 15 anni. Il capo della banda, Bonaventura Durruti, dette 24ore di tempo al ragazzo falangista per pentirsi di essere fascista e aderire alla causa anarco-operaia e repubblicana. La mattina dopo il ragazzo, con candida fierezza, non volle pentirsi della sua fresca coerenza e fu ucciso. Simone restò scossa dalla crudeltà dei suoi compagni e dall’inerme, adolescenziale purezza del giovane nemico. La vicenda del ragazzo fascista ucciso viene naturalmente omessa nelle recensioni reticenti apparse in questi giorni al libro di Bosc; anzi c’è chi titola che oggi Simone Weil sarebbe volontaria in Ucraina con Zelenskij, magari con le forze Nato

In questo suo anniversario diranno di lei come pensatrice “gnostica” e femminista, anoressica e asessuata, adelphiana, ebrea e antinazista; renderanno omaggio alla sua religione intellettuale, disabitata di Dio, di riti e di fedi.

Taceranno le sue denunce degli orrori repubblicani e anarco-comunisti in Spagna, il suo amore per le radici e la vedranno perfino a favore della colonizzazione Usa nel mondo…

La Verità – 25 giugno 2023

 

 

sabato 24 giugno 2023

L’ABBEVERATOIO E LA PROMESSA DENTRO AL CUORE

 «Non è un paese per vecchi» non è il romanzo migliore di McCarthy, ma senz’altro il più famoso, grazie alla trasposizione cinematografica con la quale i fratelli Coen vinsero l’Oscar nel 2007.

Qui di seguito l’ultima, memorabile, pagina del romanzo.

Quando uscivi dalla porta del retro di casa, da un lato trovavi un abbeveratoio di pietra in mezzo a quelle erbacce. C’era un tubo zincato che scendeva dal tetto e l’abbeveratoio era quasi sempre pieno, e mi ricordo che una volta mi fermai lì, mi accovacciai, lo guardai e mi misi a pensare. Non so da quanto tempo stava lì. Cento anni. Duecento. Sulla pietra si vedevano le tracce dello scalpello. Era scavato nella pietra dura, lungo quasi due metri, largo suppergiù mezzo e profondo altrettanto. Scavato nella pietra a colpi di scalpello.


E mi misi a pensare all’uomo che l’aveva fabbricato. Quel paese non aveva avuto periodi di pace particolarmente lunghi, a quanto ne sapevo. Dopo di allora ho letto un po’ di libri di storia e mi sa che di periodi di pace non ne ha avuto proprio nessuno. Ma quell’uomo si è messo lì con una mazza e uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio di pietra, che sarebbe potuto durare diecimila anni. E perché? In che cosa credeva questo tizio? Di certo non credeva che non sarebbe cambiato nulla. Uno potrebbe pensare anche a questo. Ma, secondo me, non poteva essere così ingenuo.

Ci ho riflettuto tanto. Ci riflettei anche dopo essermene andato da lì quando la casa era ridotta a un mucchio di macerie. E ve lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì. Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro.

E allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non lo so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una specie di promessa dentro il cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe fare più di tutte.

di Cormac McCarthy

(Non è un paese per vecchi)

venerdì 23 giugno 2023

LA NATO STA PER ENTRARE IN GUERRA?

 L’analisi di Domenico Quirico sulla Stampa. 

La Nato sta per varcare il Rubicone: i polacchi sono pronti a combattere i russi. L'offensiva di Zelensky non sfonda e alcuni Paesi vorrebbero scendere in campo, così la guerra in Ucraina cambierebbe natura.

«La realtà della guerra, il suo corso subiscono un certo giorno trasformazioni che ricordano quelle della terra quando un terremoto ne smuove le viscere. Il movimento all'inizio è impercettibile, l'ondeggiare di una lampadario o la caduta isolata di un soprammobile, lo si nota appena, non si comprende cosa accada… è qualcosa che non puoi vedere toccare eppure sta accadendo.

Attentato di Sarajevo 1914

E cambierà tragicamente, radicalmente la vite di milioni di uomini, le nostre vite di ignari cittadini di un secolo accecato da una mediocre ipocrisia. Fu così, ad esempio, nel 1914 quando un ignoto studente uccise un erede al trono a Sarajevo. Poco più che cronaca nera. A Londra si continuò a bere il tè alle cinque in tutti i club, a Parigi gli Champs-élysées erano affollati più al solito, a Berlino il cartellone degli spettacoli non subì alcuna variazione.

La guerra in Ucraina è andata avanti, da un anno, nel suo crescendo sornione e inarrestabile segnata da questi continui piccoli movimenti: le forniture di armi sempre più sofisticate, i bombardamenti di rappresaglia russi sulle città, la incriminazione di Putin che ha affossato giuridicamente ogni trattativa, i sabotaggi dei timidi tentativi di mediazione. Abbiamo scavalcato quasi senza accorgerci infiniti Rubiconi immaginari, una azione invisibile e silenziosa, contro cui non sembra esserci difesa, che i geologi chiamano terremoto e gli strateghi guerra totale, feroce e materialista, ben raggrumata di rancori e di odio. Anche se le carte geografiche non sono state cambiate e la linea del fronte è sempre lì, quasi immobile, dopo che è stata tagliuzzata e ricucita infinite volte da offensive e controffensive egualmente inutili, ti accorgi che sei entrato in una fase nuova, più grande e insidiosa, e non potrai anche volendo tornare indietro. Di colpo tutto è diventato incerto, come quando uno comincia a dire bugie. Il nuovo balzo in avanti nella guerra non si avviluppa alla qualità delle armi da fornire alla Ucraina, ad esempio gli aerei da combattimento F16. Una linea superata con la consueta tattica di scavalcare silenziosamente ciò che fino a un minuto prima ufficialmente si è dichiarato come "non all'ordine del giorno". Provvedono, dopo qualche moina, forniture volontarie di qualche paese Nato più battagliero. In fondo non siamo una alleanza democratica e tra eguali? 

Il nuovo passaggio a cui ci stiamo apparecchiando è la discesa sul terreno di contingenti militari della Nato a fianco dell'esercito ucraino per scardinare le difese nemiche nei territori occupati. E provocare, perché no? la rotta russa. A capofila di questo sciagurato sviluppo, palesato dalla balordaggine delle parole dell'ex segretario della Nato, il danese Rasmussen, è la Polonia. Varsavia, che ha già sul campo di battaglia molti "volontari" nelle cosiddette brigate internazionali, sembra pronta a spezzare il fragile tabù del non intervento occidentale; in linea con il ruolo di alleato di ferro degli americani sul "limes" europeo che i governanti di Varsavia si sono assunti in quel sanguinoso parco tematico della guerra moderna che è diventata l'Ucraina. 


Si voglion saldare i conti, come non ricordarlo? per le innumerevoli ferite che il trogloditismo russo, zarista e staliniano, ha inferto alla Polonia negli ultimi tre secoli. Si rinfrescano mai sopite e gloriose rimembranze dell'Armata rossa in fuga davanti alla petulante cavalleria del maresciallo Pilsudski. Ci sono anche in questa determinazione pro ucraina considerazioni di politica interna. Essere la punta di lancia nella guerra contro l'aggressione russa è un lasciapassare infrangibile per tutte le accuse e i dubbi che la Commissione europea accumula sulla politica interna in tema di diritti del governo di Varsavia. La guerra serve, eccome. Non solo al fatturato di armaioli di ogni latitudine e dimensione. E non solo ai polacchi. Si avvicina dunque la caduta della mediocre finzione della non belligeranza che ci ha messo finora al riparo dalla coscienza dei pericoli di questa guerra. Presentarla con la maschera di iniziativa autonoma al di fuori della Nato dovrebbe evitare, secondo gli ideatori, lo scattare dell'impegnativo articolo 5 che impegna tutti gli alleati in una guerra comune. Dovremo prima o poi tutti immischiarci nella tragedia ucraina mentre finora abbiamo accumulato le buone ragioni per non accostarsi troppo. La guerra falcia agnostici e dogmatici. 

A far precipitare l'inevitabile c'è il problema della mancanza degli uomini al fronte. L'offensiva ucraina forse troppo sbandierata come risolutiva e inarrestabile va così a rilento da far citare nei bollettini di Kiev tra i successi l'avanzata "da duecento metri a un chilometro"; e da segnare come conquiste l'occupazione di località che sulla carta appaiono come un minuscolo gruppo di case rurali. Le armi si sostituiscono, gli uomini "fini a se stessi", come diceva Kant, purtroppo no. A un certo punto bisogna contare le riserve, non quelle tecniche ma quelle umane. Gli eserciti occidentali dispongono di una forza che è tecnica e organizzativa. Quello russo, da sempre, dispiega una potenza che si potrebbe definire biologica, fatta da riserve umane quasi inesauribili. È una materia prima che zar, "vozd" e Putin allo stesso modo gettano via senza pietà. A Vilnius tra poche settimane nel vertice della Nato si trarranno le conseguenze di questa evoluzione del conflitto. Se l'Alleanza non adotta misure drastiche a favore di Kiev noi marceremo, minacciano i fautori dell'intervento. Sono cambiate le condizioni della vittoria per alcuni alleati dell'Ucraina

Non più difenderla e preservarne la integrità come all'inizio della guerra, scopo su cui c'era un generale seppur tiepido consenso. Per polacchi, baltici, inglesi e Zelenski vincere è distruggere la potenza militare russa mettendola fuori gioco per molti anni, con la conseguente eliminazione di Putin dalla scena politica. L'esplodere del caos tra le Russie sarebbe risultato positivo, anche se presenta rischi. Insomma un secondo Ottantanove ma non per metastasi interna ma per una sconfitta militare».

 

mercoledì 21 giugno 2023

MANTOVANO: «IL GOVERNO MELONI ROMPE LA LOGICA DEL PARTITO ANTI-ITALIANO»

Tunisia e Libia, riforma della giustizia e utero in affitto, inverno demografico e programmi del governo Meloni. È iniziata con Alfredo Mantovano la festa di Tempi a Caorle, che ha parlato di “Politica alla prova”. 

Intervistato da Emanuele Boffi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri è stato il protagonista del primo appuntamento di “Chiamare le cose con il loro nome”, seconda edizione del Premio Luigi Amicone nella cittadina veneta. Qui sopra il video integrale dell’incontro, di seguito alcuni appunti dalle sue dichiarazioni.


Mantovano: «Perché Meloni è nel mirino»

Davanti a un pubblico numeroso e attento, Mantovano ha parlato delle sfide e delle responsabilità di questi primi mesi a Palazzo Chigi: «Per la prima volta dopo anni c’è un governo sostenuto da una maggioranza chiara, intenzionato a rispettare gli impegni assunti in campagna elettorale. Dovrebbe essere la regola, ma gli ultimi undici anni hanno dimostrato che questa regola non è stata rispettata, avendo avuto governi non espressione di una manifestazione di voto».

Questa cosa non piace, ha spiegato Mantovano: «C’è un “partito” anti-italiano, che non si presenta alle elezioni, un raggruppamento trasversale con una precisa visione della storia, che pensa che l’Italia sia un paese sbagliato», un “partito” che si riconosce nel “Manifesto di Ventotene”, un documento troppo citato e troppo poco letto, in cui gli autori, Spinelli e Rossi, dicono chiaramente che il popolo non sa con precisione cosa volere e cosa fare: «Il popolo non è in grado di operare le sue scelte, se lo fa è pericoloso e va riorientato, persino il colore dei fiori da piantare nel giardino qui fuori deve essere deciso a Bruxelles – è questa la logica del Pnrr: se non fai come dico io ti tolgo i fondi».

Per questo «il governo Meloni è pericoloso, perché rompe questa logica. Il paradosso è che siamo accusati di deriva autoritaria quando governiamo in forza dei voti. Silvio Berlusconi è stato il bersaglio numero uno di questo partito fino a che ha governato. Oggi Meloni è nel mirino per lo stesso peccato originale: non essere in sintonia con questi presupposti ideologici».

Il peso internazionale del governo Meloni

Toccando il tema della politica estera, e del Piano Mattei proposto dall’esecutivo Meloni, Mantovano ha spiegato che «chi ha responsabilità di governo non ha più il diritto di lamentarsi e ha il dovere di affrontare problemi. E i problemi sono enormi, penso alla crisi dei migranti, e possono essere affrontati con la solidarietà internazionale». È il caso della Libia, in crisi a causa delle scelte che l’amministrazione Obama e la Francia di Sarkozy hanno fatto nel 2011 imponendole a tutto l’Occidente. È il caso anche della Tunisia, «la cui crisi è economica e finanziaria. Le difficoltà di questi due paesi sono inserite in un contesto in cui la solidarietà occidentale lascia a desiderare. Tra un mese il governo tunisino non avrà più soldi per pagare i dipendenti pubblici, polizia compresa: dunque i migranti partiranno da porti gestiti soltanto dalla criminalità».

Il piano congelato del Fmi per la Tunisia e quello dell’Italia

Mantovano ha parlato del cortocircuito per cui il Fmi ha pronto un piano da quasi due miliardi di dollari per la Tunisia, «ma lo ha congelato fino a che Tunisi non dimostrerà il rispetto dei diritti. Ma senza le risorse del prestito i diritti saranno ancora meno rispettati. È un circolo da spezzare, perché è ideologico, non tiene conto che Tunisia non è il Canton Ticino, e che l’interlocutore non ha esattamente il profilo della superiora delle suore marcelline». Il sottosegretario ha fatto notare il nuovo e maggior peso che l’Italia, con Meloni al governo, sta assumendo sul piano internazionale.

L’esempio più recente è proprio quello del viaggio della premier in Tunisia che ha preceduto la visita ufficiale con Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e Mark Rutte, primo ministro olandese. Con quel viaggio, e con il piano proposto, Meloni è riuscita a favorire un clima migliore tra il presidente tunisino Kais Saied e i leader europei. «A luglio», ha annunciato Mantovano, «organizzaremo a Roma una conferenza internazionale per parlare di progetti di sviluppo nell’area sud del Mediterraneo e in nord Africa, con i paesi del Golfo disponibili a fare la loro parte». Questo perché «i traffici di esseri umani non si frenano con i poliziotti sulla spiagge, ma con una strategia d’insieme».

Giustizia, «il governo non si fa ricattare dai magistrati»

Il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità la proposta di riforma della giustizia del ministro Nordio. «Una riforma della giustizia in senso garantista va costruita gradualmente, questo ddl è un primo decisivo segnale per ribadire che la politica decide, fa le sue scelte senza mettersi al tavolino e attendere la dettatura da parte delle correnti della magistratura associata, pondera e sceglie senza condizionamenti. Quando si è insediata alla presidenza del Consiglio Giorgia Meloni ha detto «non sono ricattabile»: questo governo non è ricattabile, a partire dalla giustizia. A leggere certi giornali sembra che abbiamo smantellato tutti presidi della legalità».

«Quando sono entrato in magistratura i reati contro la pubblica amministrazione erano quattro», ha ricordato Mantovano, spiegando che negli anni sono poi aumentati così tanto che oggi il principale impegno della Cassazione è stabilire la linea di confine tra fattispecie di reato così numerose che si sovrappongono. «Tutti i sindaci», ha commentato l’ex magistrato oggi al governo parlando dell’abolizione dell’abuso d’uffico, «inclusi quelli del Pd, hanno salutato con un “finalmente” il varo di una norma» che abolisce un reato per cui quasi nessuno degli indagati viene condannato.

«Giusto combattere la battaglia contro l’utero in affitto»

Il Parlamento sta votando una legge per rendere l’utero in affitto un reato universale. Ma non è una battaglia ormai superata, ha chiesto il direttore di Tempi, Emanuele Boffi, a Mantovano? «Sta scomparendo l’identità della donna, ed è una tragedia». Con la pratica dell’utero in affitto «siamo alla linea di confine, siamo consapevoli che questa è una battaglia che non può essere combattuta solo con una norma penale, ma è una modifica normativa che dà il segno di un cambio di passo». Il divieto di utero in affitto in Italia è sancito con una legge che ha vent’anni, ma che è stata aggirata andando in nazioni dove la pratica è permessa e tornando in Italia per farsi riconoscere il figlio così “prodotto” grazie a sindaci «che dicono che va tutto bene. Noi vogliamo che se un italiano ha questa condotta all’estero valga come se fosse fatta qui».

La battaglia non è superata, non è troppo tardi combatterla e «va fatta sul piano culturale, descrivendo cosa è una pratica di utero in affitto, raccontando quante donne vedono il proprio corpo devastato, umiliato. Il Parlamento sta facendo la sua parte, attorno a questa proposta c’è un consenso più ampio della maggioranza, ma sappiamo che da sola non risolve. Sarà l’occasione per discussione mediatica, stiamo pronti. Non è una faccenda da preti, non c’entra la fede, c’entrano la donna, l’uomo, il dato antropologico. È una battaglia laica che va fatta coinvolgendo più energie possibili, cercando coesione, solo così si può partire alla riscossa per ricostruire i fondamentali di una sana antropologia. Se la perdiamo sarà tutto più complicato».

La sfida dell’inverno demografico spiegata da Mantovano

Non poteva mancare un affondo sulla sfida più importante che l’Italia deve affrontare, l’inverno demografico. Il governo, ha ricordato Mantovano, si è dato l’orizzonte temporale dei cinque anni, «nella legge di bilancio abbiamo messo quello che si poteva, ma stiamo pensando a misure con carattere di stabilità. Anche questa comunque è una battaglia culturale. Il successo di un popolo ci sarà quando la curva demografica riprenderà a crescere. Perché succeda dobbiamo tornare al ratzingeriano “vivere come se Dio esistesse”, guardare alla tradizione e trarne spunto. È una sfida che riguarda tutti noi, non solo il governo o le maggioranze. Mettere al mondo un figlio è l’atto di speranza più grande che si possa fare, fuori dalla retorica e da ogni predica».

 

domenica 18 giugno 2023

COSÌ "LA CIVILTÀ CATTOLICA" UCCIDE LA DOTTRINA SOCIALE

STEFANO FONTANA

 

Il cardinale Michael Czerny, gesuita, prefetto del Dicastero pontificio per lo sviluppo umano integrale, ha pubblicato un articolo nel numero de “La Civiltà Cattolica” appena uscito dal titolo: “Attualizzare e rinnovare la Dottrina sociale della Chiesa”.

Card. Michael Czerny

Significativo che l’attualizzare venga prima, e faccia quindi da guida, al rinnovare, come se la lettura dei segni dei tempi partisse dai tempi e non dai criteri per leggerli. Non sarebbe quindi la Dottrina sociale a leggere i tempi e a rinnovarli, ma il contrario.   

Il cardinale Czerny ritiene che il pontificato di Francesco abbia ormai delineato il quadro generale nel quale inserire questo rinnovamento della Dottrina sociale e si premura quindi di dipingerlo. I suoi elementi ormai li conosciamo tutti, perché sono costituiti da immagini ricorrenti, da un repertorio di frasi ad effetto, pur se dallo scarso contenuto teologico. Il cardinale Czerny semplicemente li riprende e ce li ripropone. È così che egli parla di “clericalismo” come origine di ogni abuso nella Chiesa; della inculturazione del cristianesimo che non deve essere un nuovo colonialismo; della necessità di superare la distinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente; di ascoltare “Il grido della terra e il grido dei poveri”, di “invertire la piramide”, superando la mentalità autoreferenziale.

Soprattutto parla della nuova sinodalità nell’attento rispetto della consueta retorica ufficiale. Risulta ormai fastidioso contestare questo nuovo vocabolario ecclesiale, imposto dal conformismo mentre si parla di valorizzare le differenze e caratterizzato dalla trascuratezza di principio per le cose molto diverse insegnate dal magistero dei pontefici precedenti [Il cardinale, per esempio, celebra Aparecida come matrice del nuovo paradigma, ma senza dire una parola sull’intervento di Benedetto XVI in quella sede che è opposto alla lettura fattane qui]. Risulta fastidioso perché si tratta della ripetizione passiva e compiacente di una decina di parole e concetti – sempre quelli – assunti per assuefazione e con cui oggi si vorrebbe spiegare tutto. Gomez D’Avila scriveva che il comunista pretende di spiegare tutto con 200 parole. La Chiesa di oggi ne adopera molte di meno.  

Una espressione nuova mi sembra essere quella della “Chiesa circolare”, che mi sembra presa a prestito dall’economia circolare oggi di moda. Se ho ben capito il cardinale Czerny, “Chiesa circolare” vorrebbe dire una Chiesa che riceve prima di dare, che impara prima di insegnare, che ascolta prima di parlare. Se così è, si tratta di una nuova formula per dire una cosa tipica della Chiesa dopo la “svolta antropologica”, ossia la sua pariteticità, se non subalternità, al mondo. Questo concetto di Chiesa circolare riassume in sintesi tutte le consuete immagini viste sopra.

Il cardinale applica questo quadro alla Dottrina sociale della Chiesa, e cosa capita? La prima conseguenza è che essa non può più essere una “dottrina”. La “circolarità” tra la vita della Chiesa e la storia, come appunto viene detto, significa almeno due cose: che la Chiesa non ha una parola totalmente propria e originaria da dire e che quanto essa dice è sempre parziale, frutto appunto di una incessante circolarità con le situazioni. Lo storicismo del cardinale Czerny non permette nessuna dottrina ma, al massimo, qualche esperienza di dialogo e accompagnamento reciproco senza molte pretese. Il termine “dottrina” indica invece qualcosa d’altro: Leone XIII aveva elaborato un “corpus dottrinale” valido ancora oggi, perché valido sempre nei suoi principi fondamentali. Nella visione del cardinale Czerny invece lo “stile di vita” ha partita vinta sulla dottrina. Non è un cambiamento da poco. Soprattutto perché questo “stile di vita” è solo un fascio di atteggiamenti.

La circolarità comporta poi la “conversione pastorale”, come dice lo stesso Czerny, e quindi il primato della prassi, della attività sulla passività, della “actuosa participatio” sulla contemplazione e sul mistero, cosa che nessun documento sociale ha mai detto. Ho trovato piuttosto inquietante questa frase del nostro cardinale: “Superare un modello di Chiesa unicamente incentrato sull’azione sacramentale richiede lo sforzo di promuovere un’azione pastorale che assuma le sfide poste dalla storia”. Ma a questo punto tutta la storia diventa “sacramento” e si ridimensiona – fino a negarla? – l’azione diretta della grazia anche per la storia.

Czerny ripropone l’idea che la Dottrina sociale della Chiesa appartenga alla missione della Chiesa e che non sia un elemento marginale ma essenziale, però cambia il significato di cosa si intenda per “missione”. Non andrebbe più intesa come “ambito delle applicazioni pratiche che fa seguito a un corpus di verità dogmatiche, ma di un’azione che si situa al cuore stesso dell’annuncio evangelico”, con il che resta da spiegare come si faccia ad “annunciare” se non annunciando verità dogmatiche che, se non vanno riduttivamente “applicate”, vanno però vissute nella loro capacità fontale di dire quanto la storia e le situazioni non possono dire. Altro che circolarità.

L’IMMENSITÀ DI MCCARTHY, «ARRESO AL MISTERO, MAI ALL’OPINIONE»

Luca Doninelli ricorda lo scrittore che è riuscito «a fare la più grande letteratura degli ultimi cinquant’anni» facendo dell’ascolto della realtà «poesia mai vista»

Cormac MCCarthy

Su Cormac McCarthy, lo scrittore americano, autore de La strada, morto martedì 13 giugno a 89 anni, sono state usate – e consumate – molte parole. Tranne quelle che lo scrittore Luca Doninelli trovò con “precisione che sgomenta” (la stessa di McCarthy) qualche anno fa: «Le parole di McCarthy sono sempre le parole delle cose, talmente esatte da farci pensare che le cose siano state poste nell’essere con quelle stesse parole».

Raggiunto da Tempi Doninelli ricorda oggi la capacità unica di McCarthy di liberare la materia dall’irrilevanza e fare dell’ascolto della realtà «poesia mai vista. È morto un autore che ha inventato una scrittura completamente nuova, completamente sua. Che ha trovato le parole per sfidare in modo unico il vedere, il sentire, l’ascoltare. Non ne ho mai incontrato uno capace di definire le dimensioni di un camion sentendo come scala le marce da dietro una curva, quando ancora non è visibile. Capace di usare una tale quantità, qualità e precisione di parole per descrivere un paesaggio del West piuttosto che il lavoro di un umile saldatore. McCarthy era capace di una tensione volta a sconfiggere continuamente la scontatezza del rapporto con la realtà».

McCarthy, «arreso al mistero, mai all’opinione»

Nulla era irrilevante per McCarthy, «arreso al mistero», perché «la realtà o è un mistero o è preconcetto ideologico, opinione. Come quell’ateo del racconto di Foster Wallace che discuteva dell’esistenza di Dio con un amico credente in birreria»: non è che non abbia ragioni per non credere, spiegava l’ateo dicendo di avere avuto a che fare con quella “roba di Dio e della preghiera” quando, sperduto in una tormenta tra i ghiacci dell’Alaska invocò il suo aiuto. «Bene, allora adesso dovrai credere, sei o non sei ancora vivo?» gli chiese l’amico, e l’ateo, alzando gli occhi al cielo: «Ma no, è successo invece che una coppia di eschimesi, che passava di lì per caso, mi ha indicato la strada per tornare al campo».

Cormac McCarthy ha sfidato ogni nostro ateo in birreria, col suo padre della Strada, ma soprattutto con il giudice di Meridiano di sangue e lo spietato killer Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi, «perché per testare il bene, ciò che resta della verità, ciò che l’uomo cerca per tutta la vita, McCarthy ha bisogno di spingere la negazione di questo bene e questa verità fino all’estremo male incarnato dal giudice e dal killer. Ha bisogno di spingere la domanda su cosa salva l’uomo fino alla disumanità. È questa l’immensità di McCarthy: essere riuscito a fare la più grande letteratura degli ultimi cinquant’anni, forse anche di più, senza mai abdicare, nemmeno per un istante, al preconcetto, all’opinione».

Le parole della realtà contro la koinè

Per Doninelli la radicalità di questa ricerca è messa alla prova dalla prima all’ultima pagina dei libri del premio Pulitzer americano, in ogni spargimento di sangue o descrizione del tubo zincato che scende dal tetto verso un abbeveratoio di pietra, «passa attraverso una concretezza che ha bisogno di trovare le parole. Oggi gli scrittori non ne sono capaci, usano parole già usate da tutti e il linguaggio della letteratura diventa sempre più striminzito, si risolve in una koinè. E non è un caso che non si parli molto dell’uso che McCarthy ha fatto della lingua, cercando continuamente di allargare la questione, di schiantare la koinè, i circoli viziosi, l’uniformità. E questa non era una tecnica: la sua visione del mondo, il mistero, accendeva di tensione, capacità espressiva e significato le sue parole».

L’invisibile che rifuggì la bolla

Per questo Doninelli colloca McCarthy al fianco di Omero, Tolstoj e tutti gli scrittori che più ha amato come Pasolini, Testori, Manzoni: «Come loro McCarthy si curava dei miserabili della terra curando enormemente il lavoro sulla lingua. Questa è la differenza che passa tra uno scrittore e la media degli scribacchini che si curano invece del proprio lettore strizzandogli l’occhio al momento giusto. E lo ha fatto mettendo alla prova l’uomo e quello in cui crede, che è sempre destinato alla sconfitta: è chiaro che il padre de La strada non riuscirà a salvare la vita di suo figlio, che moriranno entrambi e che dunque la salvezza per entrambi non consiste nella loro speranza di salvezza. Questo è un sottotraccia presente in tutta l’opera di McCarthy».

Lo scrittore che parlava la lingua della realtà e non quella della «bolla sistemica fatta di editori, finti critici, blogger, giornalisti culturali, premi letterari, convegni, festival. Una bolla che McCarthy “l’invisibile” rifuggì per tutta la vita. Io credo che chiunque voglia fare lo scrittore fino in fondo prima o poi debba decidere da che parte stare. E prendere la via d’uscita dalla bolla e dalle sue parole d’ordinanza».

Caterina Giojelli

TEMPI

foto Ansa

mercoledì 14 giugno 2023

IL MISTERO DELL'UOMO CHE TROVA IN DIO GIUDIZIO E COMPIMENTO

 

 Celebrazione delle Esequie del Sen. Silvio Berlusconi 

CELEBRAZIONE EUCARISTICA – OMELIA 

MONS. DELPINI ARCIVESCOVO DI MILANO

 Milano, Duomo – 14 giugno 2023



Ecco l’uomo: un desiderio di vita, di amore, di felicità

1.       Vivere.

Vivere. Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena. Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita. Vivere e resistere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto, di vita. Vivere e desiderare una vita che non finisce e avere coraggio e avere fiducia e credere che ci sia sempre una via d’uscita anche dalla valle più oscura. Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti. Vivere e sentire le forze esaurirsi, vivere e soffrire il declino e continuare a sorridere, a provare, a tentare una via per vivere ancora. 
Ecco che cosa si può dire di un uomo: un desiderio di vita, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.

2.      Amare ed essere amato.

Amare e desiderare di essere amato. Amare e cercare l’amore, come una promessa di vita, come una storia complicata, come una fedeltà compromessa. Desiderare di essere amato e temere che l’amore possa essere solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria.
Amare e desiderare di essere amato per sempre e provare le delusioni dell’amore e sperare che ci possa essere una via per un amore più alto, più forte, più grande.  Amare e percorrere le vie della dedizione. Amare e sperare. Amare e affidarsi. Amare ed arrendersi. 
Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di amore, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento.

3.       Essere contento.

Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita. Essere contento delle imprese che danno soddisfazione. Essere contento e desiderare che siano contenti anche gli altri. Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti. Essere contento delle cose buone, dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori. Godere della compagnia. Essere contento delle cose minime che fanno sorridere, del gesto simpatico, del risultato gratificante. Essere contento e sperimentare che la gioia è precaria. Essere contento e sentire l’insinuarsi di una minaccia oscura che ricopre di grigiore le cose che rendono contenti. Essere contento e sentirsi smarriti di fronte all’irrimediabile esaurirsi della gioia. 
 Ecco che cosa si può dire dell’uomo: un desiderio di gioia, che trova in Dio il suo giudizio e il suo compimento

4.       Cerco l’uomo.

Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari.
Quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere. Ha sostenitori e oppositori. C’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo. Un uomo politico è sempre un uomo di parte. Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena. Ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applaude e chi lo detesta.
Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà.  Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi?
È stato un uomo: un desiderio di vita, un desiderio di amore, un desiderio di gioia. E ora celebriamo il mistero del compimento.

Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio


martedì 13 giugno 2023

ONORE A BERLUSCONI PER I TANTI MERITI, INNANZITUTTO LA CAPACITÀ DI AMICIZIA

Così monsignor Camisasca, già cappellano del Milan, ricorda «un uomo di grandi orizzonti» che ha lasciato un segno in tutti i campi in cui si è lanciato. «Anche io, come Ruini, celebrerò la Messa per lui»

Massimo Camisasca

Con Silvio Berlusconi se ne va un grande protagonista della storia d’Italia, dal Dopoguerra ad oggi. Lo stanno scrivendo tutti, in queste prime ore dopo la sua morte, amici e avversari, segno di una personalità singolare in molti campi dell’agire umano.

Dirò subito che non mi piacevano certe sue uscite sulle donne e certi suoi comportamenti. Non per bacchettonismo, ma perché non rendevano ragione di un uomo di grandi orizzonti, quale era lui.

Genio dell’imprenditoria e della comunicazione

Berlusconi è stato un genio dell’imprenditoria. Egli ha saputo intravedere il futuro. Lo ha fatto nel campo immobiliare, della finanza e poi nel campo della comunicazione televisiva e del giornalismo.

La creazione delle televisioni nazionali, rompendo il monopolio della tv di Stato, ha inciso profondamente nella cultura del popolo italiano, portando purtroppo anche una visione edonistica della vita. Tale creazione ha imposto alla stessa Rai una mutazione del suo Dna, trasformandola in un ibrido tra intrattenimento e servizio pubblico da cui non si è più risollevata. Da un piccolo studio televisivo sono nati canali che hanno catalizzato e creato centinaia di nuovi volti dello spettacolo.

La discesa in politica e la (mancata) rivoluzione liberale

Il segno della capacità magnifica e organizzativa di Berlusconi è stata la sua discesa in politica nel 1994: in breve tempo ha creato un partito, che ho la portato ad essere più volte presidente del Consiglio e protagonista della vita politica della nazione per trent’anni. Progetti questi nella comunicazione e nella politica, di grande respiro, che hanno messo in luce le doti del mago di Arcore.

Non è questa l’ora dei bilanci, ma si può dire che la rivoluzione liberale auspicata non ha trovato il suo corso, per gli ostacoli politici e giudiziari che hanno cercato di fermarla, ma forse anche per un’insufficiente visione culturale e per un incontro tra mondo liberale e cattolico che non si è realizzato.

Onore a Berlusconi per la generosità e dedizione con cui ha lavorato con passione e acutezza per il paese che ha tanto amato.

Con il Milan un’epopea immortale

Io ho conosciuto di persona Silvio Berlusconi nei 4-5 anni in cui sono stato cappellano del Milan. Anche qui: quando mai si è visto un uomo che di lì a poco sarebbe entrato in politica, che aveva mostrato già le proprie doti di creatività, scendere nel mondo del calcio, comperare una delle squadre più prestigiose della storia del pallone in Italia, sostituire Liedholm con Arrigo Sacchi che quasi nessuno allora conosceva? Sarebbe nata un’epopea che poi Capello, Ancelotti e altri avrebbero reso immortale.

Berlusconi arrivava a Milanello ottimista, sorridente, capace di motivare, dispensatore di consigli, talvolta invadendo campi di competenza altrui. Ma questi altri lo perdonavano in ragione di quella simpatia di cui l’uomo di Arcore si faceva portatore.

Anche io, come il cardinal Ruini, celebrerò la Messa per lui, che mi ha certamente testimoniato, nei brevi anni in cui l’ho accostato, un grande amore alla vita e una grande forza di fronte alle difficoltà. Soprattutto Berlusconi mi ha insegnato a mantenere nell’orizzonte dell’amicizia anche gli avversari. Egli ha portato in tanti ambienti una capacità di rapporto umano fino ad allora inusuale e forse sconosciuta.