di Marcello Veneziani
L’estate del ’43 fu densa di eventi drammatici e decisivi nella storia della guerra mondiale. Nell’estate del ’43 lasciava la terra un’esile, anoressica creatura, di trentaquattro anni, che poi sarebbe stata riconosciuta come la più grande pensatrice del secolo.
Al tempo apparve come una marginale e stravagante martire di una religione
ignota, tra il pensiero e la mistica, né cristiana né ebraica anche se
profondamente partecipe di ambedue e del pensiero classico.
Eppure quella ragazza dallo sguardo miope, un gran paio d’occhiali e un
sipario di capelli che scendevano sul viso come una tenda canadese, ha espresso
il grido dell’Europa nella catastrofe bellica.
Di Simone Weil credo
di aver letto tutto, e non è poco, nonostante la breve parabola della sua vita.
Tante opere, tanti quaderni, copiosi carteggi, varie biografie. Forse è
inappropriato ricordarsi di lei per il suo ottantesimo anniversario,
soffermandosi su uno scritto decisamente minore e imbevuto dal clima tempestoso
di quei giorni, mentre Simone collaborava da Londra a France Libre del Generale
De Gaulle.
Lei pensatrice della grazia, della purezza e dell’attenzione; lei così distratta e celeste che si
cura delle vicende terrene, delle guerre, dei regimi, delle colonie. “Sul
colonialismo”(ed. Medusa) è un testo di poche pagine che precede di pochi mesi
la sua morte e s’intreccia a un altro ben più noto, scritto nel ‘43, L’enracinement, tradotto da noi
col titolo “La prima radice”, che è il canto più intenso del radicamento,
dell’amor patrio, della tradizione e dell’onore, scritto da un’autrice
che pure veniva da esperienze socialiste e sindacali, anarchiche e trotzkiste.
Molte tra le sue più belle pagine le dobbiamo alla cura amorevole di uno
scrittore cattolico e tradizionalista, Gustave Thibon, suo amico di pensiero e
filosofo di campagna. In Italia fu amata tanto dal marxista Franco Fortini, suo
traduttore, che dal cattolico tradizionale Augusto
del Noce che le dedicò un acuto saggio poi rifuso ne L’epoca della
secolarizzazione.
In queste pagine Simone Weil in pieno flagello bellico “vede” l’Europa ventura, come la
sanno vedere solo gli spiriti profetici e le menti illuminate, separando il
furore del presente dal nesso profondo che lega passato a futuro. Nota
tre o quattro cose essenziali ma inavvertite nel frangente della guerra.
La prima: il veleno dello
scetticismo, alla stregua della tubercolosi (un paragone che sente sulla
sua pelle), “attecchisce in modo più virulento in un terreno fino a poco prima
indenne…a contatto nostro si fabbrica una specie d’uomini che non crede a
nulla”.
Weil denuncia poi la scomparsa
simultanea dell’ideale e del reale, l’avvento del nichilismo sociale, la
perdita del senso e del soprannaturale come malattia dell’Europa. E quella perdita la identifica con l’oblio del passato:
“la perdita del passato è proprio la caduta nella servitù coloniale”. Il
passato è il deposito di tutti i tesori spirituali; e ripete quel che scrive ne
L’enracinement: “La perdita del passato equivale alla perdita del
soprannaturale”. Il passato è una cosa che, nota la scrittrice, una volta persa
completamente, non si ritrova più. L’uomo non può fabbricarsi il passato, può
solo conservarlo. La colonizzazione priva i popoli della loro tradizione e
quindi della loro anima.
La difesa del passato si unisce in lei a una profezia: le nazionalità in Europa saranno insidiate
dalla frammentazione, dai localismi e dalle patrie regionali,
schiacciate tra “scale molto più piccole e scale molto più grandi”, tra il
locale e il globale. Nel colonialismo inflitto ai popoli extraeuropei la Weil
legge il destino del colonialismo di cui
sarà a sua volta vittima l’Europa. L’Europa, scrive la Weil, è una specie
di media proporzionale tra l’America e l’Oriente, sovietico e non solo.
Noi europei siamo nel mezzo, letteralmente mediterranei; siamo il perno, solo l’equilibrio
annulla la forza. Proiettate questi pensieri nel presente, nell’Europa che fugge la propria
identità e la propria civiltà, schiacciata sulle posizioni Usa nel
conflitto in Ucraina, che non capisce il suo ruolo centrale tra Oriente e
Occidente.
E’ uscito in questi giorni un libro su Simone Weil volontaria nella guerra di
Spagna, “La volontaria” di Adrien Bosc (Guanda) sull’esperienza nella guerra
civile spagnola e il suo carteggio con Georges Bernanos, scrittore reazionario
che militava dalla parte opposta alla sua, con i franchisti. Bernanos narra con ribrezzo le
violenze dei suoi camerati; e la scrittrice rivoluzionaria, militante tra gli
anarco-operaisti e marxisti, racconta le crudeltà compiute dai suoi compagni su
preti, suore e fascisti. Un carteggio esemplare per il cavalleresco
amore per la verità, a danno della propria parte, che dovrebbero studiare i
faziosi e accecati partigiani odierni.
In quel carteggio Simone racconta in una lettera a Bernanos che la banda
anarco-comunista a cui si era aggregata aveva catturato un ragazzo fascista di
15 anni. Il capo della banda, Bonaventura Durruti, dette 24ore di tempo al
ragazzo falangista per pentirsi di essere fascista e aderire alla causa
anarco-operaia e repubblicana. La mattina dopo il ragazzo, con candida
fierezza, non volle pentirsi della sua fresca coerenza e fu ucciso. Simone
restò scossa dalla crudeltà dei suoi compagni e dall’inerme, adolescenziale
purezza del giovane nemico. La vicenda
del ragazzo fascista ucciso viene naturalmente omessa nelle recensioni
reticenti apparse in questi giorni al libro di Bosc; anzi c’è chi titola che
oggi Simone Weil sarebbe volontaria in Ucraina con Zelenskij, magari con le
forze Nato…
In questo suo anniversario
diranno di lei come pensatrice “gnostica” e femminista, anoressica e asessuata,
adelphiana, ebrea e antinazista; renderanno omaggio alla sua religione
intellettuale, disabitata di Dio, di riti e di fedi.
Taceranno le sue denunce degli
orrori repubblicani e anarco-comunisti in Spagna, il suo amore per le radici e
la vedranno perfino a favore della colonizzazione Usa nel mondo…
La Verità – 25 giugno 2023
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