Una lapide a Ravenna ricorda la tremenda alluvione che sommerse la città - per oltre due metri - nel 1636. In risposta, lo Stato Pontificio inaugurò un grande piano di interventi idraulici, di cui si beneficia ancora oggi. Basta dunque con la propaganda sul clima. E si faccia prevenzione.
Nella sua opera De Oratore,
il grande Cicerone ci insegnava che la Storia è maestra di vita. Una delle
lezioni oggi più inascoltate di quel famoso giurista. La Storia, in realtà, non
è soltanto un parametro per educarci a vivere. Serve anche per capire la realtà
e leggere la cronaca in maniera intelligente. Riesce pure a smentire le
sesquipedali balle che vorrebbe imporre l’ideologia ecologista a proposito
di global warming e crisi climatica.
Prendiamo ad esempio la recente
alluvione romagnola. Proprio a
Ravenna, capitale simbolica di quell’area d’Italia, all’incrocio tra via Cavour
e via Salaria è possibile fare un tuffo nel passato andando a leggere una
piccola lapide nella quale si trova la seguente iscrizione: «Addì 28 maggio 1636 sin qui l’acqua arrivò». È il ricordo della peggiore inondazione
della città, avvenuta proprio la notte tra il 27 e il 28 maggio di 387 anni fa,
quando l’acqua dei fiumi Ronco e Montone sommerse la città per oltre due metri,
dopo sei giorni ininterrotti di pioggia. Il livello delle acque raggiunse il
secondo piano delle case, e le strade si trasformarono in veri e propri fiumi,
tanto da dovere costringere i soccorritori a mettere in salvo gli abitanti
caricandoli su barche. Le cronache dell’epoca raccontano con il linguaggio di
quel tempo: «Quando cominciò apparire il giorno si videro le povere famiglie
con li loro figlioli su li tetti delle loro case; et si sentiva voce rauche e
lamentevole chiamare aiuto, dal cielo e dalla terra; era cosa di straordinario
terrore». Sembra la descrizione di quanto accaduto nel maggio dell’Anno del
Signore 2023.
Quel cataclisma indusse l’allora governo pontificio, di
cui la Romagna faceva parte, ad avviare un grande piano di interventi
idraulici, che previdero, tra l’altro, la riunificazione dei due fiumi che
causarono l’inondazione e la costruzione di un canale di congiungimento della
città al mare (ultimato verso il 1737), cui venne dato il nome dell’allora papa
Clemente XII, al secolo Lorenzo Corsini. Come si vede, lo Stato della Chiesa
era in fondo molto più illuminato e moderno di quanto gli storiografi
risorgimentali hanno fatto credere nei loro testi. Va peraltro ricordato che se
Ravenna si è salvata dal totale allagamento della città durante l’attuale
alluvione, lo si deve proprio agli interventi idraulici disposti dall’allora
legato apostolico in Romagna, il cardinale piacentino Giulio Alberoni
(1664-1752). Circostanza che, a onor del vero, ha ricordato lo stesso sindaco
di Ravenna, Michele de Pascale, in un videomessaggio dei giorni scorsi rivolto
ai suoi cittadini in cui ha descritto nei dettagli la dinamica degli
allagamenti.
In questo caso la Storia ci insegna due
cose. Primo,
che non bisogna attendere gli eventi catastrofici ma occorre intervenire per
realizzare opere di prevenzione, esattamente come fece l’allora legato
apostolico cardinal Giulio Alberoni, che non si limitò a pregare e sperare
nella Provvidenza né a prendersela, come si direbbe oggi, con i capricci di
madre natura.
La seconda lezione ci dice che forse è arrivato
davvero il tempo di smetterla con la tiritera del clima che è cambiato. Quanto
è accaduto nel 2023 in Romagna è la replica esatta di ciò che è successo nel
1636, e ciclicamente nei secoli precedenti, con buona pace di Greta Thunberg ,
dei gretini, e degli ecovandali imbrattatori. Con buona pace anche dei politici
a caccia di pretesti.
La Storia si è incaricata di rendere ancora più risibile e patetica la giustificazione addotta in Consiglio regionale dal presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, per ottenere la mozione con cui è stata chiesta la sua nomina a Commissario straordinario per la ricostruzione delle zone colpite dall’alluvione. In quell’occasione, infatti, lo stesso Bonaccini ha fondato il presupposto della sua pretesa sul «cambiamento climatico globale con cui dobbiamo fare i conti». Bisognerebbe ricordare al caro presidente che i conti, forse, è meglio farli con la Storia.
Gianfranco Amato
La nuova bussola
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